È la fine dell’estate del 2015 e in una delle sale del Palazzo Reale di Milano m’immergo nell’anarchica cosmologia del video-saggio di Camille Henrot Grosse fatigue, vincitore del Leone d’argento alla biennale d’Arte di Venezia di due anni prima. Tredici fulminanti minuti non sono forse abbastanza per raccontare la nascita e la fine del mondo – Grosse fatigue però ci prova, risvegliando conoscenza popolare e antiche mitologie che nella loro allegra molteplicità vanno ad intaccare il rigore positivista del discorso scientifico. In Grosse fatigue saperi alti e bassi si equivalgono e vanno a comporre un racconto corale che sembra non conoscere gerarchie: gli objet trouvé e gli artefatti raccolti dall’artista allo Smithsonian Institute di Washington appaiono indiscriminatamente come il contenuto multimediale di una finestra di computer e Grosse fatigue crea così una rete di libere associazioni sullo sfondo ordinato di un comune desktop.
Quest’aspetto formale – l’utilizzo del desktop come schermo, come luogo cioè dove avviene l’opera – è cruciale per l’estetica di Grosse fatigue che, appropriandosi del classico interfaccia grafico che simula la scrivania, lo trasforma da spazio di lavoro a spazio ludico. Qui la comunicazione tra macchina e utente avviene freneticamente, alla soglia tra informazione e noise e al ritmo incalzante del susseguirsi di finestre di dialogo che appaiono, scompaiono e si sovrappongono le une alle altre.
Secondo il teorico e attivista dei media Lev Manovich tali forme di montaggio spaziali intrinseche alla stessa immagine, che prediligono una logica della coesistenza e dell’addizione, sono uno degli aspetti fondamentali del linguaggio dei nuovi media; costituiscono inoltre la differenza fondamentale dal cinema, che fin dagli inizi ha invece favorito il montaggio temporale basato sulla successione lineare delle immagini. Ne deriva una cultura visiva che massimizza il livello informativo delle superfici di controllo, dove non resta spazio per un’estetica del vuoto e del minimalismo. Basti infatti pensare a una qualunque home page dei portali di internet: indici con dozzine di voci, dove ogni area o zona dello schermo può potenzialmente contenerne un’altra, un’immagine o un redditizio banner pubblicitario.
Il video Grosse fatigue è solo però uno dei possibili esempi di arte contemporanea (soprattutto nella sua deriva post-internet) che si rifà alla cultura dei computer, ricontestualizzando pratiche di visualizzazione dell’interfaccia uomo/macchina. E se usciamo da musei e gallerie d’arte per entrare nello spazio rizomatico del web, i video-saggi che sfruttano l’estetica desktop sono forse ancora più numerosi. Ci potremmo per esempio imbattere nei desktop documentaries del critico cinematografico ed enfant terrible della nuova cinefilia 2.0 Kevin B. Lee, e quindi fermarci a riflettere sul significato del “documentare” in un’era della proliferazione di pratiche amatoriali documentaristiche rivolte verso la realtà, ma anche auto-certificanti, di registrazione dell’io.
Inoltre, se da un lato il passaggio al digitale ha mostrato quanto la relazione immagine-realtà sia fragile e precaria, si apre dall’altro un nuovo ambito di riflessione sul presente e il futuro del documentario. Infatti nell’era del digitale un’idea semplicistica di realismo basata sulla referenzialità dell’immagine, sulla possibilità cioè di creare una copia perfetta della realtà, si è svelata una volta per tutte in tutta la sua problematicità. L’a-priori tecnico dell’immagine fotografica – la capacità di catturare il mondo fisico su un materiale sensibile attraverso la luce – viene messo in discussione dal linguaggio digitale che, codificando il visivo in valori numerici oscillanti tra 1-0, si svincola dal concetto di rappresentazione di un “fuori”, di una realtà extradiegetica da riprodurre ed imitare.
Prendendo atto di questi presupposti tecnici e mediatici del contemporaneo ci si deve però chiedere com’è possibile, da un lato, prendere atto della problematicità della dimensione mimetica dell’immagine e, dall’altro, non scadere in un banale relativismo postmoderno modaiolo che celebra la fine della realtà e con essa di ogni parametro di giudizio.
Finestre occhieggianti sul deserto del reale
Transformers: the premake è il primo desktop documentary di Kevin B. Lee. Un film-sul-film che indaga i rapporti di produzione e la strumentalizzazione della fan culture da parte delle grandi case di produzione cinematografiche prendendo, ad esempio, il blockbuster globale Transformers: Age of Extinction di Michael Bay. Per realizzare il suo video-saggio, Lee si è servito soltanto di filmati amatoriali condivisi su YouTube – brevi documentari che mostrano il lavoro sul set durante le riprese del film-colosso di Michael Bay ad Hong Kong, in Texas e a Chicago e la massiccia mobilitazione delle forze dell’ordine che l’ha reso possibile. Per tutta la durata di Transformers: the premake la scrivania virtuale del laptop di Lee è sempre visibile come sfondo e come limite dell’immagine. Il termine desktop documentary coniato da Lee è quindi da prendere alla lettera in quanto è una costante del suo lavoro proprio quella di visualizzare l’interfaccia grafico come luogo dove avvengono operazioni di apertura e visualizzazione cartelle, di gestione di contenuti multimediali e di inserimento di parole chiave in motori di ricerca.
Inoltre, guardando Transformers: the premake sul nostro laptop veniamo temporaneamente spodestati dalla posizione di user a quella di viewer: è qualcun altro ad interagire sotto i nostri occhi, a cliccare sul mouse e ad indirizzare il puntatore verso cartelle dal contenuto sconosciuto. Al contempo il nostro punto di vista si sovrappone a quello di Lee, a una visione frontale, mobile ed irrequieta che, tramite comandi di pan, tilt e zoom (PTZ) si allarga e si restringe di continuo sull’immagine. L’allineamento dello sguardo spettatore/autore è significativo, perché contribuisce a creare un effetto di autenticità. In transformers the premake è come se fossimo noi a navigare nel web e a visualizzare video da YouTube – quell’iniziale senso di alienazione che avevamo avvertito inizialmente nel realizzare che il desktop sotto i nostri occhi non era il nostro, si trasforma nel suo opposto, nell’impressione cioè di interagire in prima persona con l’interfaccia grafico.
E proprio quest’ aspetto del video-saggio di Lee, la capacità cioè di creare per lo spettatore un’esperienza immersiva e totalizzante, a far riflettere su possibili nuovi significati del film documentario oggi. Si potrebbe infatti dire che il valore documentaristico di Transformers: the premake non risiede tanto nella capacità delle sue immagini di riflettere e riprodurre un “reale” fisico, ma piuttosto in quella di “documentare” (nel senso di attestare, testimoniare) una delle tante possibili ricerche che avvengono nel web. Per la precisione in Transformers: the premake l’oggetto del documentare è il processo in sé e non tanto il risultato: a venir visualizzate sono tutte quelle operazioni di selezione e di ricerca che caratterizzano la costruzione della conoscenza e l’acquisizione del sapere su internet.
Le origini multimediali del desktop documentario
L’estetica desktop non è però una prerogativa del web-video-saggio. Anche nel cinema si trovano alcuni esempi: Il cortometraggio Noah presentato al Toronto Film Festival nel 2013 racconta in una quindicina di minuti la separazione tra due teenager avvenuta su Facebook:
NOAH – 17m Award Winning Short Film from Patrick Cederberg on Vimeo.
Per tutta la durata del film, seguiamo lo sguardo iperattivo di Noah spostarsi dalla pagina YouPorn alla chat di Facebook a Chatroulette, mentre il sottofondo musicale oscilla a seconda del suo stato d’animo tra furioso heavy metal e melanconiche canzoni d’autore. Anche Unfriended, l’horror del regista russo Levan Gabriadze del 2014, è narrato esclusivamente dal punto di vista del computer/account/fantasma online di una ragazza suicidatasi in seguito alla diffusione di un video e che, nel giorno dell’anniversario della sua morte, si vendica dei compagni di classe nel corso di una chat collettiva. Unfriended racconta il cyberbullismo con una trama che rievoca l’incubo di So cosa hai fatto (1997) e ricollegandosi al filone del found-footage dei filmati ritrovati, inaugurato tra gli altri da The Blair Witch Project.
Sia in Noah che in Unfriended lo schermo cinematografico si trasforma dunque in schermo del computer. Entrambi i film non sono però documentari, ci raccontano una storia immaginaria, vista attraverso gli occhi dei rispettivi protagonisti. Sono andata dunque a esplorare la storia del cinema documentario e ho trovato Handsworth Song dei Black Audio Film Collective. Si tratta di un caso significativo di cinema di guerrilla avanguardista che esamina le cause delle rivolte del 1985 ad Handsworth (Birmingham) dirette a contrastare l’oppressione razziale. Handsworth song è però anche un desktop documentario avant la lettre: pagine di giornale si sovrappongono, entrano ed escono fluttuanti dall’immagine ed appaiono così come finestre di un computer da “sfogliare”. Mi chiedo allora se si tratti dell’unico esempio dell’era analogica ad anticipare tramite animazione stop-motion l’idea dello schermo come scrivania sulla quale si accumulano fogli di carta da riordinare, o se sia invece possibile scrivere una geneaologia di questo particolare sottogenere del cinema documentario che oggi prolifera nel web ma che trova le sue radici nel cinema.