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ell’introduzione all’album antologico Soundtrack Work 2004-2008, uscito otto anni fa, scrive Ennio Morricone: “Teho Teardo cerca l’originalità mediante forme difficili, usando la ripetizione, parsimonia di materiali e un minimalismo personale; in breve, attraverso una costante ‘passacaglia’ esplora soluzioni che possano soddisfare tanto le sue esigenze quanto quelle del film per cui sta scrivendo la musica”. L’artista di origine friulana ricorda così il loro incontro: “Fu nel 2009, in occasione del premio intestato a lui, che avevo vinto per la colonna sonora de Il divo di Paolo Sorrentino. Approfittai della circostanza e gli proposi di fare un disco insieme, utilizzando esclusivamente dei vecchi sintetizzatori appena recuperati da un collezionista in Slovenia: cimeli degli anni Sessanta che erano stati usati nello Studio di Fonologia Musicale della Rai a Milano. Rispose immediatamente: ‘No, non se ne parla proprio, semmai possiamo farne uno con l’orchestra’. ‘Ma chi se ne frega di un disco con l’orchestra fatto da noi due’, replicai. Era una sfida: affrontare un impegno che mettesse in difficoltà entrambi. Non c’è stato verso di convincerlo. In compenso mi disse una cosa davvero bella: ‘Vedo che stai lasciando un segno nel mondo della musica e fare delle cose con me non ti gioverebbe. Ha più senso che sia tu stesso a sviluppare una tua idea, senza avermi intorno’. L’ho trovato un consiglio molto paterno. E comunque ci ho messo un po’ a capirlo. Inoltre si rese disponibile a firmare la presentazione di un mio lavoro, se lo avessi voluto. Stavo preparando un’antologia delle musiche per il cinema e gliel’ho mandata affinché l’ascoltasse, e lui ha scritto. Il paradosso è che nessuna delle etichette discografiche italiane da me interpellate l’aveva giudicata interessante, così alla fine venne pubblicata dalla britannica Expanding”.
Non è l’unico indizio dell’insufficiente considerazione riservata a Teho Teardo in Italia, benché lui si mostri refrattario alla retorica del nemo propheta in patria: “Non attribuisco senso alla nozione di ‘patria’: è un concetto che non mi appartiene”. Luogo comune per luogo comune, definiamolo allora cittadino del mondo. Altrove è trattato come merita, infatti. Basta domandargli quali siano i prossimi impegni in agenda. “Fra qualche giorno torno a Londra per le prove di Grief Is the Thing With Feathers, il nuovo spettacolo di Enda Walsh con quell’attore straordinario che è Cillian Murphy: debutterà a Galway, in Irlanda, a marzo e nel 2019 circolerà in America e Inghilterra. È tratto da un magnifico romanzo di Max Porter, l’editor di Granta, Il dolore è una cosa con le piume, che da noi non si è filato nessuno. Le prevendite sono andate benissimo: quindici repliche esaurite in venti minuti, tipo concerto rock. Portare in Italia un allestimento del genere è inimmaginabile: non saprei nemmeno a chi proporlo. La gente non conosce l’inglese e non andrebbe a vedere uno spettacolo con i sottotitoli. E poi da noi il pubblico del teatro contemporaneo è così esiguo che a volte neppure si riesce a pagare la cena agli artisti. Ma sono ancora qui e insisto nel cercare di far succedere le cose”. Da una quindicina di anni vive a Roma, dove ha casa e – soprattutto – studio di registrazione. “Mi ci trasferii all’inizio del decennio scorso, anche se ci venivo già con regolarità per lavorare con il cinema. All’epoca mi sembrava una città molto interessante: stava conoscendo un momento di risalita, mentre adesso sta precipitando in maniera inesorabile”.
Nessuna tentazione da “cervello in fuga”, insomma.
Amo molto l’Italia, penso sia importante stare qui e provare a fare le cose meglio che si può. E sono contrario alle fughe. Ormai ho passato i cinquant’anni e assistito a molte migrazioni: la prima fu verso Londra, dove si trasferirono parecchi miei amici. Dopo sono venute quelle per Barcellona, Berlino e – per chi poteva permettersela – gli Stati Uniti. Mi vengono in mente i dipinti di Boccioni sugli addii… Ho visto partire tante persone che avevo vicine e mi sembrava ingiusto: questo paese è stato privato di una parte rilevante di gioventù, quella più furiosa e rivoltosa, che forse avrebbe potuto cambiarlo. E comunque è fondamentale che ciascuno si senta a proprio agio dove meglio crede: per certi aspetti, ai giorni nostri, è quasi indifferente il posto in cui ti trovi, considerato quanto e come siamo collegati, e muoversi da un luogo all’altro è facile. Un tempo non era così. Nel 1984 andai per la prima volta a Londra: non avevo soldi e a Pordenone c’era un tizio che falsificava i biglietti del treno, ne compravi uno per un paesino dei dintorni e lui riscriveva la stazione d’arrivo in cambio di qualche migliaio di lire. Era un viaggio di 27 ore: massacrante. Eppure la sera stessa ero al 100 Club, dove suonavano i GBH, che nemmeno mi piacevano più di tanto. Però fu molto istruttivo: allora con il mio gruppo facevo cover degli Stooges, ma non funzionavano mai, e lì ho capito perché. Stavo sotto il palco per vedere cosa succedeva e alla fine hanno fatto una versione di 1970, da Funhouse, il secondo album della band di Iggy Pop: mi sono reso conto che noi di quella storia non sapevamo assolutamente niente. Non sapevamo cos’era il suono. Perciò tentai di fermarmi a Londra il più a lungo possibile: volevo incontrare chi creava la musica e imparare. La maggior parte dei dischi del rock italiano aveva un suono che faceva schifo, raffazzonato, privo di consapevolezza. Anni dopo la mia ossessione diventarono i bassi, così cercai Mick Harris, uno che ha rapporti con i musicisti neri di Birmingham, gente che sa cosa sono il dub e le basse frequenze. Tuttora la musica è per me un processo di costante apprendimento.
Nativo di Pordenone, Mauro Teardo si ribattezzò Teho da ragazzino.
Il mio vero nome non è mi è mai piaciuto e ai tempi delle medie per i compagni di classe ero Teo. Quando poi ho scoperto il punk, dov’era fondamentale inventarsi uno pseudonimo e avevi l’obbligo di infilare da qualche parte una ‘h’ o una ‘k’, è venuto fuori Teho, con l’‘h’ nel posto sbagliato: il mio inglese era pessimo.
Eri una “pecora nera” in paese?
No, mai sentito così. Da adolescente, immaginarsi diversi dagli altri serve a costruire un’epica individuale nei confronti del mondo.
E in quale momento, allora, hai capito che la musica potesse essere la via più rapida per affermare quella diversità?
È un’idea che ho avuto chiara fin da quando ho preso in mano per la prima volta una chitarra elettrica, nel 1980, a 14 anni: mi sembrò la salvezza, una possibilità di far succedere qualcosa nella mia vita, la strada per fare ciò che avrei voluto. Ho sempre pensato che fosse il posto dove andare.
Imboccando quel cammino, avevi delle stelle polari da seguire?
Non guardavo da nessuna parte: non conoscevamo niente. C’erano pochissimi dischi, era tutto confuso: una sensazione di caos totale. Non si capiva che cosa si poteva ascoltare: all’epoca del punk, se dicevi che ti piacevano i Black Sabbath o la musica classica, venivi messo al bando. Sentivo dagli Stooges ai Grand Funk Railroad, senza avere i mezzi per fare collegamenti o interpretare quelle scelte. La mia è una storia di disorientamento”.
In città c’era ancora l’eco del Great Complotto?
Sì. All’inizio dev’essere stato davvero elettrizzante, ma era fuori dalla mia portata: avevo 11/12 anni. E il modo in cui poi quell’esperienza si è trasformata non mi sembrava interessante.
Da un punto di vista formativo, tuttavia, hai fatto altro: laurea in Storia dell’Arte Contemporanea. Perché?
Non mi sarebbe dispiaciuto studiare musica, ma non c’era modo di farlo: il conservatorio mi sembrava una dimensione lontanissima da me e non esistevano altre scuole in cui poter studiare uno strumento, com’era invece in Inghilterra e in America. Perciò ho pensato all’arte contemporanea: un percorso diverso, che però avrebbe potuto sfociare nella musica, come effettivamente è successo. La mia formazione musicale è prettamente visiva e non è un caso che mi sia ritrovato poi a lavorare per cinema e teatro.
Autodidatta, quindi.
Peggio ancora: uno che è stato immerso completamente nel caos e ha cominciato a studiare la musica per capire cosa stava facendo.
Curioso che tu abbia cercato immediatamente interlocutori all’estero, non trovi?
C’erano dischi che m’intrigavano molto e ho iniziato a guardare da dove arrivavano; in genere l’Inghilterra, e se c’era un indirizzo, io scrivevo. In quel modo ho costruito una rete di relazioni: a 17 anni facevo il cameriere in un hotel durante l’estate e con i soldi guadagnati sono andato a Londra. È stato un momento fondante per me: lì ho conosciuto Steven Stapleton dei Nurse With Wound e sono entrato in contatto con il giro dei Coil, incontrando personaggi come Marc Almond e Genesis P-Orridge. La prima volta che avevo ascoltato i Throbbing Gristle mi erano parsi sensazionali: non era solo un’esperienza di ascolto, ma la percezione di una possibilità. Quello mi attrae di certi artisti: che svelino delle possibilità.
Poi è venuto il cinema: come è entrato nella tua vita?
Avevo trascorso un periodo piuttosto lungo insieme a Jim Coleman dei Cop Shoot Cop, con cui collaboravo a un progetto chiamato Here: all’epoca lui faceva le colonne sonore per i film di Hal Hartley, un regista americano che apprezzo tantissimo, ed ero affascinato dal suo modo di lavorare – anche se personalmente non pensavo proprio di dedicarmici. È dipeso dal caso: era il 1997 e avevo intenzione di fermarmi il più possibile a New York. Mia madre però si ammalò gravemente e telefonò chiedendomi di starle vicino, perché mio padre non aveva energie bastanti per sostenerla. Sono figlio unico ed ero la sola persona che potesse aiutarli: perciò tornai in Italia. Poco dopo, in uno studio di Pisa, dove stavo registrando, ho conosciuto Federico De Robertis, il musicista che lavorava con Gabriele Salvatores: gli aveva fatto ascoltare i miei dischi e da un giorno all’altro mi ritrovai coinvolto nella produzione di Denti, che secondo me rimane il suo film migliore. Sono entrato in quel mondo dalla porta principale, senza averla nemmeno cercata. Di lì in avanti hanno cominciato ad arrivarmi proposte: evidentemente il mio lavoro era piaciuto. E mi sono dovuto reinventare: non compongo basandomi sulle immagini, cerco di costruire invece un rapporto con la sceneggiatura. Ho avuto fortuna: da noi l’ambiente del cinema è un sistema chiuso, dove se non sei figlio, amico, conoscente o amante di qualcuno, non riesci a inserirti. Basta guardare i titoli di coda dei nostri film: i cognomi sono quasi sempre gli stessi. Io rappresento un’eccezione.
Ma prima eri cinefilo?
Quando abitavo a Pordenone, la mia ancora di salvezza era una sala d’essai, il Cinemazero: una di quelle esperienze di provincia che ti connettono al mondo, allineandoti a ciò che sta succedendo. Li ho visto tutti i film di Jarmusch, Kaurismäki, Herzog… Inoltre i titolari organizzano tuttora un bel festival: Le Giornate del Cinema Muto. Detto questo, non sognavo affatto che potesse accadermi una cosa simile.
E nel caso del teatro, com’è andata?
La prima esperienza è stata con la Societas Raffaello Sanzio, su un progetto chiamato Ingiuria, nel quale coinvolsi Blixa Bargeld e Alexander Balanescu. Artisticamente l’esito è stato molto positivo, mentre non posso dire lo stesso del processo creativo. In queste situazioni ciascuno deve essere ben consapevole di dov’è e cosa sta facendo, cercando di captare ciò che dicono gli altri. Purtroppo li ho trovati rigidi e indisponibili al cambiamento, elemento essenziale in ogni collaborazione.
Dopo di che è arrivata Liliana Cavani…
Mi cercò lei per musicare un allestimento di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo. Andai a casa sua e mi trovai in questo posto pieno di fotografie che ti mettono soggezione, da Pasolini in giù. È una donna che sa essere anche dura: una sua caratteristica che apprezzo tantissimo, perché indica che sa esattamente cosa vuole. ‘Mi piace davvero quello che fai’, disse, ‘ma non è che sia molto partenopeo’. Con la mia faccia tosta, le risposi: ‘Però anche tu sei di Carpi, no?’. Si mise a ridere e mi offrì un caffè. E così abbiamo cominciato… Adesso stiamo lavorando a un nuovo progetto su un testo di Pirandello, Il piacere dell’onestà. Ricordo che da ragazzino vidi Pirandello a teatro e percepii una scossa fortissima: era un mondo vivo. Lavorarci rappresenta per me un altro modo di mettere in discussione la musica che faccio.
Dicevamo prima di quanto sia differente il contesto italiano da quello anglosassone: da cosa dipende, secondo te?
Non so se i paragoni siano una buona idea: ogni paese ha diritto a un suo modo di fare teatro e le condizioni in cui ciò accade sono tra loro molto diverse. E l’Italia non ne uscirebbe bene, come nella musica, del resto. In Inghilterra o in Irlanda ci sono molti più mezzi a disposizione, soprattutto per fare teatro di ricerca, legato alla contemporaneità, mentre da noi i fondi vengono investiti sul repertorio storicizzato. Il presidente dell’Irlanda, Michael Higgins, è un poeta, e le volte che ho lavorato là con Enda Walsh è venuto ad assistere ai nostri spettacoli. Pochi giorni fa, a New York, abbiamo messo in scena Ballyturk e c’era l’ambasciatore irlandese; la volta che sono andato a suonare a Tokyo, invece, ho dovuto presentarmi io all’Istituto Italiano di Cultura: non sapevano neanche chi fossi. Perché il presidente dell’Irlanda va al concerto di Shane MacGowan insieme a Nick Cave? Perché quando vado in Inghilterra e parlo con gli addetti ai lavori, mi rendo conto che conoscono davvero la musica? A noi questo manca ed è una difficoltà con cui mi scontro sempre: in Italia c’è una specie di vuoto. Enda Walsh è onorato e riverito ovunque, ma quando abbiamo fatto insieme quattro anni fa Ballyturk qui nessuno sapeva chi fosse, compresi quelli che si occupano di teatro. E stiamo parlando di un autore che ha scritto con Steve McQueen la sceneggiatura di Hunger e con David Bowie la drammaturgia di Lazarus. Dopo aver collaborato con lui mi si è aperto un mondo e sono stato cercato per gli allestimenti di Joan Sheehy e Guillermo Calderòn.
Fra gli spettacoli più apprezzati e longevi c’è il reading musicato di Viaggio al termine della notte di Céline: perché proprio quel romanzo?
L’ho letto per la prima volta quando avevo ventidue o ventritre anni e mi colpì in modo impressionante: ogni pagina nascondeva almeno una frase memorabile. Una decina di anni fa mi arrivò una proposta dal Palazzo delle Esposizioni di Roma: avevano un progetto in cui ai musicisti veniva chiesto di parlare del loro libro preferito, leggendone dei passi e suonando dal vivo. Pensai subito a Céline, però era necessario che lo rileggessi. Nonostante viviamo nell’epoca dei meme e degli aforismi, dove tutto viene sintetizzato in due righe, quel libro continua ad avere in ogni pagina almeno una frase memorabile, che non è un meme ma esprime un senso gigantesco.
Per quale motivo hai scelto di coinvolgere Elio Germano?
Sono convinto che ognuno deve fare solo ciò che sa fare, perciò decisi di rinunciare alla lettura e chiesi la collaborazione di Elio, con cui stavo lavorando a Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari. Lo stiamo portando avanti da allora, cambiando via via i testi e le musiche: credo che adesso siamo alla quindicesima versione e c’è gente che torna a rivederlo, segno che contiene qualcosa che tocca le persone. Elio mi diceva giorni fa: ‘Forse è una specie di dannazione: ci perseguiterà per chissà quanto tempo’. La nostra complicità è assoluta: lui lavora con me come se fosse un musicista e nel farlo si è dovuto mettere in discussione, benché sia forse l’attore più bravo che abbiamo in Italia.
A proposito di relazioni speciali: cosa ha reso tale quella con Blixa Bargeld?
È basata sul piacere di stare insieme e fare musica, che è già molto. E ci piace suonare in giro: abbiamo fatto tantissimi concerti, in tutta Europa e addirittura in Cina. Di lui mi fido assolutamente e creare con una persona sulla quale riponi fiducia innesca una serie di processi creativi imprevedibili. A volte accade che io m’inceppi su qualcosa, arriva lui e tira fuori un’idea geniale. Per uno come me, che passa molto tempo in studio da solo, è stimolante avere un interlocutore con cui condividere la difficoltà dello scrivere, soprattutto considerando che proveniamo ambedue da trascorsi poco attinenti alla forma canzone. Credo che questa esperienza faccia bene a entrambi: è un rapporto in continua evoluzione. Dopo Ingiuria, ci era venuta voglia di fare altre cose: registrammo un brano per il film Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, A Quiet Life appunto, e poi fu lui a propormi di realizzare un album intero. Cominciammo per gioco, ma una volta fatto Still Smiling ci sembrava di non aver completato il discorso, così è venuto Nerissimo e presto ne arriverà un terzo.
Durante una permanenza nella Berlino di Blixa sei entrato in contatto con le fotografie di Charles Fréger, che ti hanno ispirato Music for Wilder Mann: com’è accaduto?
In maniera del tutto accidentale: ero in una libreria e urtai questo libro, che mi cadde sul piede. Guardai cos’era, rimasi allibito e lo comprai istantaneamente. A casa di Blixa, mentre lui preparava il pranzo, osservai quelle immagini con maggiore attenzione e me ne innamorai: non conoscevo l’autore, ma dopo poco gli scrissi, dicendogli di aver sentito dentro di me un impulso irresistibile a scrivere musiche ispirate alle sue fotografie, cosa mai successa prima. Ne è nato un bel rapporto: insieme abbiamo concepito una versione di Wilder Mann destinata al Giappone.
Quell’esperienza, insieme all’altra su Joan Miró, ha rappresentato un modo di riconnetterti allo studente di Storia dell’Arte Contemporanea che eri stato?
Non lo so, forse sì… Miró non l’ho scelto io: è il frutto di una commissione. I promotori di una mostra delle sue opere dell’ultimo periodo a Villa Manin, in Friuli, mi chiamarono proponendomi una sonorizzazione. Io ero perplesso, però: dovevo attribuirgli un senso. Chiesi allora la possibilità di trascorrere qualche giorno nello studio di Mirò a Palma de Maiorca, per capire se poteva venirne fuori qualcosa. Il posto è tale e quale a quando lui ci viveva: ho registrato i suoni dell’ambiente, utilizzando ad esempio un’ocarina trovata lì, e alla fine ho ottenuto ciò che volevo, cosicché gli organizzatori hanno deciso di utilizzare anche le riprese video fatte durante la residenza. Non è un accompagnamento musicale, non è il mio stile, nemmeno al cinema, le mie non sono musiche di commento, né si può dire che io faccia intrattenimento.
Con Villa Manin avevi lavorato già sul progetto dedicato a Man Ray, Le Retour à la Raison, del resto.
Accettai immediatamente la loro offerta, Man Ray era uno dei miei supereroi da sempre: un amico di Pordenone mi ha ricordato che da ragazzi avevamo un gruppo chiamato Rayogramma, come la tecnica fotografica coniata da lui. Quando al liceo studi il surrealismo e il dadaismo, l’impatto sulla tua sensibilità è enorme: molto superiore a quello che possono avere le rockstar del momento. Man Ray aveva una visione fortissima e non scendeva a compromessi, né accettava regole: piuttosto le dettava. Era un punk ante litteram.