F ra un mese circa si tornerà a votare. Sembra passata una vita, da quel febbraio 2013 iniziato con la non-vittoria del Partito Democratico di Pier Luigi Bersani (che oggi si presenta con Liberi e Uguali), con il sorprendente exploit del Movimento 5 Stelle – capace di passare da 0 al 25% diventando primo partito del paese – e l’ancora più sorprendente rimonta di Silvio Berlusconi, dato per spacciato alla vigilia. Arriviamo al voto di marzo 2018 con un PD saldamente nelle mani di Matteo Renzi, che ha costruito le liste dei candidati seguendo la più tradizionale delle logiche politiche, quella della fedeltà al capo, in attesa di vedere i risultati delle urne (i sondaggi più ottimistici lo danno al 27%, ben lontano da quel 40,8% delle europee di maggio 2014); con un Movimento 5 Stelle che candida Luigi Di Maio alla presidenza del consiglio e che, secondo le rilevazioni di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, suscita ben più di un’attrazione nel ceto medio che si percepisce impoverito (non più, quindi, il voto degli “esclusi” e della “gente”, ma il voto di chi si sente tradito dalla politica tradizionale anche nelle categorie storicamente moderate); con una galassia a sinistra che si riunisce, tra luci e ombre, nella coalizione Liberi e Uguali, mettendo assieme un ceto politico che vuole essere della partita dopo aver legittimamente scelto di non appoggiare un governo di larghe intese (l’ex SEL diventata Sinistra Italiana, nel 2013 si era presentata al voto assieme al Pd nella coalizione Italia Bene Comune, poi abbandonata con l’istituzione del governo Letta), sia come ex classe dirigente (la scissione dei D’Alema, dei Bersani e degli Speranza in MDP – Articolo 1) o classe “contendente” (Pippo Civati, avversario al congresso del 2013); e a destra sempre lui, l’eterno, Silvio Berlusconi, unico federatore di istanze diverse e opposte (dal governismo di chi ha comunque una – pur discutibile – esperienza di governo ai populismi di Matteo Salvini e i neo-fascismi di Giorgia Meloni) oltre che generatore instancabile di narrazione, immaginario e nostalgia.
Non esiste analisi pre-elettorale che non disegni un quadro di profonda incertezza. La campagna elettorale si sta giocando sulle esclusioni, le accuse reciproche e il risentimento. Matteo Renzi, ad esempio, ha deciso di giocarsi la carta dell’inevitabilità. Come ha dichiarato in una recente intervista al Foglio: “a tutte le persone non del Pd che ci hanno votato per esempio al referendum del 2016 dico: ma chi altro potete votare, se non noi?”, a replicare il racconto della (fallimentare) campagna per il referendum in cui ci si ergeva come unico argine ai populismi. A quanto si sta osservando, nessuno riesce a imporre un’agenda tematica, ma vuole convincere l’elettore a non votare per l’avversario. Non c’è nessuno in grado di proporre un’idea di paese, uno slogan che racconti un’idea. Ci si muove in un contesto sfiduciato e arrabbiato, in cui si vota per esclusione e non per inclusione, dove si tenta il colpo di teatro (dalla flat-tax della Lega Nord all’università gratuita di Liberi e Uguali) ma dove, nonostante la grande opportunità data dal fatto di ritornare, finalmente, a votare per le elezioni politiche, manca una cosa fondamentale: un’idea di futuro. È il segno dei tempi: se viviamo nell’era del risentimento, non possiamo che aspettarci una campagna elettorale all’insegna del risentimento.
Non esiste analisi pre-elettorale che non disegni un quadro di profonda incertezza. La campagna elettorale si sta giocando sulle esclusioni, le accuse reciproche e il risentimento.
Si possono leggere così le continue proposte di abolizione che arrivano da più parti. L’abolizione è uno strumento di reazione e di propaganda: si segna una distinzione rispetto al governo precedente e ci si posiziona nei confronti di un elettorato di riferimento (rispettivamente, il ceto medio per il PD, i piccoli-medi imprenditori Forza Italia, i giovani LeU). Abolire significa anche tornare indietro. Ed è per questo che assieme al risentimento, si sta delineando una campagna elettorale nostalgica: la polarizzazione e l’atomizzazione dell’elettorato, la chiusura fortissima dei partiti arroccati nelle proprie comunità elettorali (non politiche: è differente), suggeriscono un riferimento a un passato più o meno recente e più o meno autentico in cui comunque “si stava meglio” e che quindi bisogna far ritornare.
Già dall’istituzione del governo Gentiloni, infatti, si è iniziato a parlare del ritorno della Prima Repubblica. Se il referendum costituzionale avrebbe dovuto traghettare il paese dentro la Terza Repubblica, nel segno di Matteo Renzi e del maggioritario, la vittoria del “No” sembra aver fatto tornare la stagione storica della politica politicante, del proporzionale che lascia – come sempre – al palazzo e alle sue logiche imperscrutabili, la decisione. Senza dimenticare la legge elettorale, l’inedito Rosatellum. Un altro elemento di incertezza: metà proporzionale e metà maggioritario, che non garantirà nessuna maggioranza stabile, produrrà un Parlamento appeso. Dal 5 marzo in poi, a trionfare sarà appunto la logica del palazzo. Alleanze, alchimie, pesi e contrappesi che si decidono in lunghe ed estenuanti trattative post-voto in cui tutte le forze capaci di sfondare il 3% partecipano al banchetto per strappare il ministero più pesante con cui garantire l’appoggio. La polarizzazione è solo una strategia retorica buona per la campagna elettorale. Quando si entra nel palazzo, i giochi cambiano.
La profonda incertezza lascia l’elettorato sfiduciato e senza punti di riferimento. In mancanza di una prospettiva futura, con i leader “giovani” che appaiono inesorabilmente invecchiati e normalizzati, come Matteo Renzi, secondo alcuni dati il politico meno popolare del paese, il vantaggio competitivo sarà in mano a chi riuscirà a evocare il racconto migliore sulla nostalgia di un futuro perduto. Ed è qui che arriva Silvio Berlusconi. Tornato al centro della scena con la consapevolezza di potersi muovere in un mondo mediatico creato a sua immagine e somiglianza e con la forza di conoscere alla perfezione il contesto politico contemporaneo. Lo slogan con cui sta facendo campagna elettorale, nonostante sia ancora ineleggibile, è perfetto: “Solo chi ha una storia può costruire il futuro”. Non importano gli effetti pratici, non importa quanto negli anni quella storia abbia fatto danni in questo paese, importa solo poterlo dire, e poterlo dire meglio degli altri. Forte di una piattaforma politica che parla all’unica fascia d’età che ancora si reca in massa alle urne — quella dei 50-60enni — Silvio Berlusconi rischia, pur da persona inibita ai pubblici uffici, di essere il mazziere della prossima legislatura. Una fortissima macchina nostalgica, questa, in grado di rievocare i sogni e le speranze di un paese fermato dall’incompetenza, dall’inconcludenza, dalla politica fine a se stessa (tornando al suo cavallo di battaglia: “I politici di professione mi fanno schifo”) e che con i suoi governi aveva cercato comunque di andare oltre e rivivere un sogno, un nuovo grande miracolo italiano, appunto. Questa nostalgia dei futuri perduti, se nessuno tira fuori un racconto migliore, potrà essere determinate.
In mancanza di una prospettiva futura, il vantaggio competitivo sarà in mano a chi riuscirà a evocare il racconto migliore sulla nostalgia di un futuro perduto.
Il dato più preoccupante, a prescindere da qualsiasi valutazione politica e giudizio di merito che se ne vuole dare, è il sostanziale fallimento del concetto di “nuovo”. Con il crollo di Matteo Renzi – come visto, sia nei sondaggi di opinione, sia nel consenso – passato da forza eruttiva capace di rovesciare una intera classe dirigente percepita come immutabile a politico politicante uguale a tutti gli altri, si è chiusa una stagione in cui parole come “rinnovamento”, “cambiamento” e “rottamazione” avevano preso posto al centro del dibattito. Questo perché il nuovo (di cui ci siamo occupati proprio su queste pagine) è arrivato alla sfida del potere più con un sentimento di invidia che non di rivoluzione.
Chi si è proposto come nuovo non ha rovesciato il tavolo e cambiato il modo di fare politica, ma ha sostituito i giocatori (ogni tanto nemmeno quello) e ha portato avanti i soliti metodi e proposto un’agenda politica sostanzialmente in linea con tutte le altre agende politiche in giro per l’Europa. Il nuovismo interpretato da Matteo Renzi è stata una questione di stile, più che di sostanza. Finita la stagione, non avendole dato nessuna solidità e non essendo quindi riusciti a costruire nulla sulle macerie della cosiddetta vecchia politica, ecco riportarsi a ruolo di protagonista “l’eterno”: non solo Silvio Berlusconi, non solo Massimo D’Alema, ma anche quel Paolo Gentiloni da più parti indicato come vero candidato premier del Partito Democratico e futuro garante di un ennesimo governo di larghe intese. Il tutto sotto lo sguardo silente ma non assente di Sergio Mattarella, guardiano delle istituzioni che ha sostituito all’interventismo a suo modo rottamatore di Giorgio Napolitano, un cauto e saggio gioco di alchimie basato sul silenzio e sulla sostanza.
Non ci saranno sconvolgimenti, quindi. Nemmeno dai partiti minori che probabilmente resteranno fuori dal Parlamento e che dovranno lavorare in modo diverso, per davvero, per costruire un’alternativa e mettere in piedi un lavoro di militanza e elaborazione politica innovativa (ma sarà probabilmente una prospettiva di medio termine). La prossima legislatura, invece, sarà un riassestamento di dinamiche tradizionali in attesa del capitolo successivo. Come hanno dichiarato più volte i filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval, tutta questa ondata di populismo – compreso il populismo mediatico di Matteo Renzi – è stata solo funzionale al riassestamento di quello stesso sistema che si voleva buttare giù. La ricerca di una politica diversa, che magari si basi su processi di partecipazione autentica, che sia in grado di mettere in discussione l’uso del potere e proporre un’agenda più collegata alla contemporaneità (dal punto di vista ambientale a quello culturale; da quello dell’istruzione, fondamentale, a una nuova e autentica politica sul lavoro), e che sia in grado di rivedere i concetti di “destra” e “sinistra”. Metafore e significati che devono riacquistare senso attorno a riflessioni serie e di prospettiva sul lavoro, l’ambiente, l’uguaglianza sociale e il contesto geopolitico che si sta delineando. Interpretare il mondo di oggi con le categorie di ieri è un errore ricorrente anche di quella sinistra che, intestandosi battaglie giustissime sulla tutela dei lavoratori sfruttati ai tempi della gig economy e del capitalismo delle piattaforme, rischia di gettare lo sguardo all’indietro, rievocando nostalgicamente un tempo che non tornerà più.
Bisogna fare in modo che tutto questo tempo non sia stato tempo sprecato a guardarsi indietro. La politica vive di cicli, di aperture e chiusure. Ci sono i punti di rottura in cui inserirsi, e i momenti in cui il sistema si fa forte delle proprie armi e torna inespugnabile. Tra leader nuovi percepiti come vecchi, e leader vecchi percepiti come eterni, si sta avvicinando quel momento in cui ci si rende conto che l’occasione è andata persa e si aspetta, rassegnati, il ritorno dei “padri” per rimettere a posto il disastro che abbiamo lasciato.