A introdurre il pensiero di Simone Weil in Italia fu Adriano Olivetti che, a partire dalla fine degli anni Quaranta, iniziò a far tradurre alcuni libri della pensatrice francese. È solo una delle tante storie della cultura italiana che si intrecciano con l’attività dell’imprenditore di Ivrea, riuscito a convogliare intorno alle Edizioni di Comunità un intricato mondo di relazioni, influenze e suggestioni capaci di legare, in vario modo, tanti scrittori fondamentali del Novecento come Giudici, Volponi, Pampaloni e Ortese; autori che Giuseppe Lupo, nel suo recente ed esauriente La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, definisce “chierici organici alla fabbrica“. Fu poi un altro dei maggiori pensatori italiani del Novecento che ebbe strette contatti con Ivrea, Franco Fortini, nel 1952, a curare la prima traduzione italiana di La condizione operaia di Simone Weil e, nel 1954, quella di La prima radice, il testo che forse più di tutti fonde il suo pensiero sociale, politico e religioso.
Non può quindi che riallacciare questo filo mai realmente interrotto tra Ivrea e Weil la ristampa di La prima radice, ristampa ad opera delle olivettiane Edizioni di Comunità che riporta in libreria il testo nella sempre poetica (eppure penetrante) traduzione di Franco Fortini. La ristampa di Edizione di Comunità si inserisce nell’interesse sempre vivo nei confronti di Weil che vede, solo nell’ultimo anno, libri importanti come gli scritti sulla guerra editi da Il Saggiatore e La persona è sacra? per Castelvecchi.
Nel breve testo edito da Castelvecchi, scritto durante l’esilio londinese, Weil muove dalla riflessione critica sulla parola “persona” plasmando una profonda meditazione filosofica che tocca i temi più profondi di tutta la sua filosofia. “Perché mi si fa del male?” si chiede Weil, consegnando a questa domanda tutta l’esigenza di giustizia che merita l’essere umano e un’iconica definizione della sua opera.
Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo; c’è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, lo spirito dell’uomo e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto è squilibrio. Non esiste categoria, gruppo o classe di uomini che sfugga a questo squilibrio divorante, ad eccezione forse di qualche isolotto di vita più primitiva
scrive Weil, evidenziando l’urgenza primordiale della sua scrittura, quella di interrogarsi e trovare risposta alle esigenze più intime dell’uomo, analizzando lo scompenso che nasce dal sentimento di superiorità di coloro che si considerano più forti verso i più deboli, dovuto proprio ad uno scollamento tra il ruolo dell’uomo e la sua proiezione nella realtà. Quello che è necessario secondo Weil, e che si ritrova con grande forza e organicità in La prima radice, è la necessità di verità che dovrebbe ammantare la vita:
Il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai. La lettura fa spavento, quando ci si sia resi conto della quantità e dell’enormità di menzogne materiali, diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più amati. E così leggiamo come se si bevesse acqua di un pozzo sospetto. […] Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità.
Preludio a una dichiarazione dei doveri dell’uomo recita il sottotitolo de La prima radice, in realtà il titolo vero e proprio assegnato da Weil al saggio, poi sostituito da quello con cui compare oggi nella pubblicazione postuma di Gallimard curata da Camus nel 1949. Il saggio è stato scritto da Simone Weil tra il dicembre del 1942 e l’aprile del 1943 durante il suo soggiorno a Londra, pochi mesi prima di morire. Lo spostamento dalla Francia era stato obbligato: per salvare i genitori dalla persecuzione razziale, Weil si era recata con loro prima negli Stati Uniti, poi a Londra – sede della Resistenza francese – per capire come giocare un ruolo in prima persona nella lotta al nazismo (scrisse non a caso in America Progetto per una formazione di infermiere in prima linea, testo in cui consiglia la creazione di un gruppo di volontarie a cui affidare il compito di soccorrere i soldati direttamente sul campo di battaglia, realizzando nei confronti del nazismo “una sfida clamorosa alla ferocia che il nemico ha scelto e che ci impone a nostra volta”).
Si trovò in realtà in Inghilterra a fare un lavoro più burocratico, occuparsi cioè dell’analisi di documenti politici provenienti dalla Francia in vista di una riorganizzazione politica a guerra conclusa. È in questa situazione che Weil scrive il Preludio, nel quale tratta delle questioni che più aveva a cuore e che hanno innervato tutta la sua opera. Nella prima parte, intitolata Le esigenze dell’anima, si sofferma su temi come ordine, libertà, ubbidienza, uguaglianza e verità; nella seconda invece, divisa in Sradicamento e Radicamento, si concentra su questi aspetti nodali del vivere umano, “il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili a definire”, che forse mai hanno trovato una loro forma più compiuta. Il tema dello sradicamento è infatti uno dei fili rossi sotterranei che attraversa tutta l’opera e la vita di Simone Weil e La prima radice rappresenta l’approdo della sua ricerca, forse anche grazie alle condizioni critiche che ne hanno dettato la scrittura. In quest’opera infatti, scritta tutta d’un getto, quando la malattia e quindi la morte iniziano a farsi sentire, tutta la storia dell’Occidente, che culmina nella barbarie della Seconda guerra mondiale, dall’impegno politico a quello sindacale, dall’insegnamento alla partecipazione ai conflitti, dalla resistenza al lavoro in fabbrica, è riletta e interpretata alla luce dello sradicamento, lo sradicamento che priva l’uomo della partecipazione, elemento fondamentale per la sua realizzazione terrena:
Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente.
Lo sforzo speculativo e quasi fisico che si respira in queste pagine tende a una ricostituzione della mancanza, a un progetto di nuova civiltà in cui la condizione fondamentale dovrà consistere proprio nella soddisfazione di questo bisogno, mettere radici. Non è difficile individuare in questa urgenza filosofica il riflesso di una condizione personale, quella di ebrea ed esule tra America ed Europa, una condizione che di fatto abbracciava un grandissimo numero di persone rimaste senza una patria, una terra che potessero chiamare propria, l’unico ambiente naturale in cui poter soddisfare il bisogno di radicamento.
La riflessione di Weil abbandona però qualsiasi precedente punto di vista per concentrarsi su una modello del tutto nuovo: su una Francia dilaniata dalla guerra e dalla bancarotta, Weil pensa di poter costruire una patria non più basata sul prestigio della forza, ma sul riconoscimento della sua fragilità, perché, scrive, “si può amare la Francia per la gloria che pare assicurarle una esistenza che si prolunga nel tempo e nello spazio. O si può amarla come cosa che, terrestre qual è, può venir distrutta e che vale quindi tanto di più”. È chiaramente il secondo tipo di amore quello che muove Weil, un sentimento di tenerezza pungente verso una “cosa bella, preziosa e peritura”, un’energia che trasuda dalle pagine del libro, purissima e molto forte:
la compassione per la fragilità è sempre legata all’amore per la vera bellezza, perché sentiamo intensamente che alle cose veramente belle dovrebbe essere assicurata un’esistenza eterna e che così non è.
Il concetto di patria, che alcuni studiosi sostituiscono con quello più neutro di comunità, non perdendo il significato e dando ad esso un tono più caldo (anche se nel concetto di comunità, come notato da Roberto Esposito in Communitas, risiede un legame costituito dall’esistenza di obblighi e doveri tra i diversi soggetti che probabilmente in questo momento non interessa a Weil), viene considerato da Weil anche al contrario, nel caso di sradicamento, immergendo così la sua riflessione nella situazione storica a lei contemporanea: “si ha sradicamento ogniqualvolta si abbia conquista militare e, in questo senso, la conquista è quasi sempre un male”. Lo sradicamento viene equiparato da Weil all’angoscia e alla solitudine di chi ha lasciato la propria terra a causa di conflitti, ma anche a chi si trova a viverci in condizioni che non permettono quello slancio sentimentale proprio del radicamento. L’idea di patria esposta da Weil è quanto di più lontano si possa immaginare dai vigori nazionalistici, ma si adagia invece su un’idea mite e fragile che necessita di una cura speciale per poter mettere radici. Certo oggi, in un mondo dove le frontiere divengono sempre più liquide e inconsistenti, simili riflessioni possono sembrare superate: ma non è così se si inserisce il testo di Weil nel mondo assai più esteso della sua opera, perché allora si rintraccerà in questo una spinta al vivere in comunione che certo non chiama in causa confini.
Analizzare quale sia il modo per sfuggire al male dello sradicamento riporta al nucleo essenziale del pensiero di Weil. C’è una sua breve ed icastica frase, tratta dal saggio Non ricominciamo la guerra di Troia, dove la filosofa riflette su quello che definisce “il carattere irreale del conflitto” tra gli uomini, in cui si rintraccia tutta l’angoscia che prova davanti ad una civiltà che sta definitivamente perdendo il senso dell’equilibrio, della misura e del limite: “Questa epoca di sedicente tecnica non sa che battersi contro mulini a vento” scrive Weil. L’urgenza che sente è quella che spinge chi ha a cuore le sorti del mondo: “Agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro e con le cose concrete”.
Si tratta di un invito all’azione, a recuperare un equilibrio perduto che risponde ai bisogni primordiali, fisici e morali, dell’uomo. Anche in La prima radice, l’obiettivo primario della critica è quello di risalire all’origine dei mali dell’uomo, rintracciabile nel sentimento di hybris che ha intaccato lo spirito di molti. In questa tracotanza e dismisura, nella distruzione di un rapporto autentico con il tempo e lo spazio e quindi con la propria storia, che si esplica poi nei rapporti tra gli uomini fatti sempre più di sopraffazione verso il più debole, è necessario operare, aprirsi al bene e alla verità per creare patrie o comunità solidali e umili, rispondendo così ad un sentimento ancestrale e spesso calpestato:
C’è una realtà situata al di fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo, fuori di tutto quanto le facoltà umane possono afferrare. A questa realtà corrisponde nel centro del cuore dell’uomo quell’esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e non trova mai in questo mondo alcun oggetto.