“C’ erano questi bianchi vestiti come puritani o giù di lì, ma non erano puritani. Erano mennoniti. Sono questi che, se gli chiedi un favore, tipo ridipingerti la veranda o cose così, loro lo devono fare per forza. È nelle loro regole” spiega la protagonista di Coccinelle, il racconto che apre Bere caffè da un’altra parte. Arnetta, la sua compagna scout, aveva ribattuto che non riusciva a capire perché uno dovesse scegliere una veranda: se i memmoniti sono obbligati a fare qualsiasi cosa gli venga chiesta, perché non fargli ridipingere tutta casa? perché non chiedergli cento dollari?
Ci pensai su, poi mi ricordai le parole di mio padre dopo che gli avevano ridipinto la veranda, anche se da quando me le aveva dette non mi pareva di averci mai riflettuto.«Ha detto» cominciai, comprendendo il significato di quelle parole solo nel momento stesso in cui le stavo sciorinando, «che quella era stata l’unica volta che un bianco si era messo in ginocchio a fare qualcosa per un nero senza volere un centesimo in cambio.»
In epigrafe a questa raccolta, pubblicata in Italia da Racconti Editore con una traduzione di Emanuele Giammarco, ZZ Packer riporta le parole di Alex Haley: “Speriamo assieme che questa storia della nostra gente possa esonerare le future generazioni / dal peso di una Storia che / quasi sempre / è stata scritta dai vincitori”. Haley aveva scritto Radici per dare una forma alle storie che la sua famiglia tramandava sui propri antenati, perché queste fossero conservate: diversamente, a ZZ Packer non interessa tanto il racconto delle origini, quanto che a venire conservato sia il proprio presente. Con questa raccolta, finalista nel 2003 al PEN/Faulkner Award e inserita dal New York Times tra i migliori libri dell’anno, ZZ Packer vuole riuscire a dare voce alle storie che la circondano, a microeventi come la delusione di fronte a un padre impreparato a esserlo, la drammatica dell’adolescenza, la delusione che si prova il giorno in cui si perde la fede e il mondo resta identico a prima.
Tra ragazze che provano a crescere, famiglie che collassano, cattiverie dei compagni di scuola e corpi che non obbediscono ai comandi, emerge una specifica forma di orgoglio nella scrittura di questa autrice: la volontà di raccontare con accuratezza e rigore le fratture e i cambiamenti di un tempo e di una popolazione che vorrebbe solo esistere in pace:
La sua era una delle quattro famiglie nere della città, e se l’ennesimo bianco le avesse raccontato quanto «interessanti» fossero i suoi capelli, o quanto fosse fortunata a non doversi preoccupare dell’abbronzatura […], Lynnea avrebbe finito per strangolarlo.
Se anche il suo lavoro da solo non potrà permettere alle future generazioni di scrivere la propria storia, perlomeno riuscirà a trasmettere queste esistenze al mondo, perché dirle significa riscattarle, renderle improvvisamente visibili. Packer, nata ad Atlanta e cresciuta a Louisville, ha cominciato a scrivere durante il liceo: la prima pubblicazione arriva su Seventeen, a diciannove anni: c’è rispetto, serietà nel modo in cui ZZ Packer descrive un’età volatile e imperfetta come quella dell’adolescenza. In uno dei racconti più belli della raccolta, Glossolalia, Tia e la sua amica Marcelle aspettano l’inizio della funzione del mattino, appoggiate ai mattoni intonacati della chiesa:
Si erano conosciute solo l’estate prima, al campo della banda, Marcelle suonava la tromba e Tia il clarinetto. E poi fra gli studenti della Rutherford B. Hayes erano le uniche due redente. Se ne andavano su e giù per le aule fianco a fianco, con le gonne fino alle caviglie e le camicette a maniche lunghe tutte sgualcite, mentre gli altri stavano lì a guardarle: le nere sdraiate in modo sexy contro gli armadietti a fare la parte, le bianche a scambiarsi le trousse e a spalmarsi il rossetto come quattrenni intente a riempire coi pastelli l’ultimo spazio bianco su un foglio già scarabocchiato.
Arriva un momento in cui tutto quello che ti è stato insegnato smette di essere sufficiente: ZZ Packer è particolarmente capace di raccontare com’è che i corpi si trasformano e come il desiderio prenda forme inaspettate. Quella che Glossolalia mette in scena è una storia di iniziazione, cupa e desolante: Tia è una ragazzina che scappa di casa per ritrovare sua madre e che, invece, incontra il mondo; nelle strade di Atlanta, scopre che la perdita dell’innocenza non ha niente a che vedere con l’inferno e la dannazione continua, ma che ha il colore della moquette lisa, l’odore di olio esausto dei fast food, degli autobus presi da sola.
In un MacDonald in cui si ripara conosce Dezi, un protettore di prostitute che prima la aiuta a curare una ferita e poi prova a baciarla:
Dezi la baciò sulla guancia, e gettò via il cotone come se le due azioni avessero un unico significato. Nonostante fosse la prima volta che un uomo la baciava, non capì la portata della cosa prima che tutto fosse finito. Si era sempre immaginata che se qualcuno l’avesse mai baciata, i suoi occhi in procinto di farlo sarebbero rimasti chiusi, avrebbe atteso di ricevere il bacio, e che anche il suo amato, prima di darlo, sarebbe rimasto in attesa. In attesa del momento giusto, si capisce. Quando l’aveva baciata lui, ora, le aveva portato via qualcosa a cui Tia non era in grado di dare un nome.
Invece non accade nulla: nei racconti di ZZ Packer non c’è né la dannazione né l’epifania delle rivelazioni: c’è piuttosto l’esatta percezione di come l’amore che riversi sui tuoi allievi possa venire deriso, dimenticato. Come in Nostra signora della Pace, quando Lynnea chiede “hai presente come ci si sente quando non vuoi nient’altro che tornartene a casa? Aver sgobbato tutto il cazzo di giorno con un mucchio di stronzetti che vogliono solo strangolarti e tu vuoi solo strangolare loro e poi pensi a quelle puttanate sentimentali – quelle puttanate tipo “se solo riuscissi a raggiungerne anche uno soltanto” – e poi alla fine non riesci a raggiungerne proprio nessuno?”. Di come i corpi possano essere violati, di come i padri falliscano e ti abbandonino in una stazione di servizio per fuggire con qualche altra donna, il racconto di come sia drammatico essere “una ragazzina di tredici anni”e di colore, per dirla con Eugenides. Quando si salutano all’autostazione, Tia respinge l’abbraccio di Marcelle:
«L’hai detto prima. Poi si ricordano di noi.»Marcelle guardò il bianco alla guida, stava discutendo delle trasmissioni del pullman con una nera mezza nana e abbastanza vecchia. «Non se ne accorgerà» disse Marcelle, abbracciandola. «Per loro siamo tutti uguali.»