R iflessione quasi scontata per chi sia abituato al respiro lungo di David Simon (e di George Pelecanos, suo collaboratore ora come in passato): la prima bellissima stagione di The Deuce è solo un tassello di un disegno più ampio. La seconda stagione è stata pianificata da HBO e ancora oltre vanno le attese. Quello che ci aspettiamo, e che già in parte è stato anticipato dalle dichiarazione dei diretti interessati, è una sorta di “storia della sessualità” di ampio raggio e portata temporale, potenzialmente estensibile fino ai giorni nostri. Utilizzo l’espressione foucaultiana – Storia della sessualità è il titolo di una monumentale opera del filosofo francese – con intenzione: qui come negli altri lavori dello scrittore-autore-regista statunitense si tratta di riflessione biopolitica da capo a fondo, incarnata in un complesso, sofisticato e (vedremo quanto) maestoso marchingegno narrativo.
Di cosa parla The Deuce? La risposta dipende in larga parte da dove e come si osservi un’opera che nel suo realismo integrale si avvicina vertiginosamente alla realtà stessa. Il tema principale è quello della prostituzione nella New York degli anni settanta (“Deuce” è il nome con cui viene chiamata una porzione di Time Square dove, in quegli anni, domina il mercato del sesso e della droga), e di come da questo ambiente sia emersa, all’inizio del decennio, l’industria pornografica. Il tema sessuale è probabilmente il motivo della maggiore accessibilità di questo rispetto ai passati lavori di Simon. Argomento scivolosissimo e accattivante: Simon riesce a mostrare il mostrabile senza inutili pudori ma senza incorporare la prurigine del porno. Il sesso non è l’obiettivo dell’occhio, ma il centro di diffrazione di un articolato sistema di potere. La ricostruzione ambientale di quella Time Square lontana e triviale è una delle più clamorose riuscite del film: arredi, vernacoli, abiti, luci, suoni, persino (verrebbe da dire) gli odori, tutto è ricostruito e rievocato con un’acribia e una precisione quasi filologica. Se un modello importante sembrano i film di Scorsese degli anni settanta (Mean streets, Taxi driver), la cura meticolosa dell’ambiente discende direttamente da un presupposto teorico: il contesto non è un semplice sfondo ma la materia stessa di cui sono fatti i personaggi e gli eventi.
Siamo a due passi dal determinismo positivista del romanzo sperimentale di Zola: prendi un ambiente, mettici dei personaggi, e vedi cosa succede. Ancora sulla scia di Zola e del realismo ottocentesco, viene quasi meno, in Simon, qualsiasi netta distinzione tra umano e non umano: uno strumento tecnico, la conformazione di un bordello o di un tracciato urbanistico, gli abiti o l’auto di un pappone, il funzionamento di una struttura istituzionale, questo multiforme mondo inanimato contribuisce allo stesso titolo della psicologia allo spessore dei suoi personaggi, alla loro credibilità e verosimiglianza umana, all’interesse della storia. Simon appare quasi cinico per la veemenza con cui suggerisce come ognuno, con tutto il dolore e la gioia di cui è capace, non sia altro che un epifenomeno, una pallida emanazione di quel corpo corale, reale e spietato che chiamiamo società.
Le interpretazioni straordinarie di ogni attore, dalle superstar James Franco (che incarna magistralmente due gemelli dai caratteri quasi opposti e che, oltre a recitare, produce e dirige due puntate) e Maggie Gyllenhaal (caparbia e dignitosissima prostituta di strada, in cerca di riscatto attraverso la nascente industria pornografica), ai molti personaggi minori che animano il ricco mondo di The Deuce (con punte di folklore notevoli nella caratterizzazione dei magnaccia), devono gran parte del loro valore a questo contesto ambientale formicolante di senso e vita. L’unicità degli individui ha un rapporto misterioso ma riproducibile con la complessità del mondo che abitano: se manca la seconda non esisterà la prima, salvo affidarsi a una mitologia delle emozioni agli antipodi di quello di cui stiamo parlando. The Deuce ripropone alcune delle caratteristiche salienti dello stile di Simon. Non una trama solida e riassumibile in un semplice sinossi, non un eroe, ma una moltitudine di personaggi e linee narrative che s’intersecano a formare una tessitura complessa e un disegno che appare soltanto all’osservatore paziente e sufficientemente distaccato. La distanza è forse il limite intellettualistico di un’arte che antepone la dimensione conoscitiva a qualsiasi altra: il che non significa escludere ogni sorta di proiezione emotiva. Nabokov affermava che esistono tre tipi di lettore: infantile, quello che s’identifica con il personaggio; adolescenziale, che si identifica con il narratore; infine l’adulto, ovvero quello capace di identificarsi con l’autore. Simon intende certamente stimolare il terzo tipo di ricezione.
Simon suggerisce come ognuno, con tutto il dolore e la gioia di cui è capace, non sia altro che un epifenomeno, una pallida emanazione di quel corpo corale e spietato che chiamiamo società.
In una delle sue ultime interviste ammette di non guardare molte serie tv, e quelle poche soltanto quando sono finite, dopo aver raccolto pareri di persone fidate. Lamenta la mancanza di un piano, difetto diffuso delle sceneggiature oltre che della vita contemporanea: non sapere dove si sta andando a parare. C’è chi è riuscito a fare di questo limite un motivo di successo, esaltando fino all’inverosimile il meccanismo di teasing tipico della serialità. The Deuce, al contrario, si presenta da subito come parte di un progetto più vasto e ben congegnato, esattamente come ogni opera di Simon. Portando a termine il ragionamento si potrebbe suggerire che i suoi lavori per la tv, nonostante l’apparenza, non siano propriamente delle serie, ma grandi opere unitarie che richiedono, per ragioni economiche e produttive, una scansione di tipo seriale senza perciò introiettarne stilemi e meccanismi narrativi. Non a caso il capolavoro di Simon, The Wire, a suo tempo, soffrì di impreviste pause produttive legate alla difficoltà di ottenere risorse per un lavoro che accumulava premi ed elogi sperticati senza sfondare sul piano numerico dello share.
Muovendosi su e giù per i vari livelli dell’organizzazione sociale il filo rosso di The Deuce, ovvero il sesso, segue gli eventi che portano l’hard core, nel giro di pochi anni, dalla clandestinità alla legalità e ai preludi (produttivi, culturali, normativi) del porno di massa. Vediamo come la prima ondata europea (in particolare danese) dei materiali pornografici passa impetuosamente negli Stati Uniti, la proliferazione e la rapida “esplicitazione” delle immagini vietate, le evoluzione tecnologiche (un po’ come succedeva in The Wire con i sistemi di intercettazione): dai filmini proiettati in loop dentro cabine private (c’è anche l’ideatore del dispositivo) fino ad arrivare dove più o meno termina questa prima stagione, ovvero alla proiezione-evento in una sala cinematografica newyorkese di Deep Throat (nel giugno del 1972), momento simbolico dello sdoganamento della filmografia a luci rosse e inizio di un importante capitolo della lunga storia della mercificazione del corpo umano. Contemporaneamente assistiamo agli iter giuridici del fenomeno, ai tentativi di riorganizzare il mercato del sesso secondo i più igienici principi di una decenza che va a braccetto con nuovi modelli istituzionali e mercantili (muovendosi in zone grigie dove mafia e polizia collaborano allegramente), alle prime avvisaglie dell’Aids e della piaga dell’eroina.
Immancabili i riferimenti alle appartenenze di classe come nel personaggio della avvenente e smaliziata universitaria di buona famiglia che si ritrova a lavorare in un bar di Times Square, in mezzo alla gente di strada. Una generica e capillare prospettiva gender-oriented perlustra i livelli e le modalità del patriarcato con rara spregiudicatezza e lucidità (un ex magnaccia al banco del bar discute con un più giovane collega impartendo insegnamenti: “per controllare i corpi devi prima controllare le menti”). Denaro politica costi-benefici motivazioni individuali e spinte altruistiche, tutto l’intricato sistema della vita è spalancato ed esibito come in un’operazione a cuore aperto. C’è una porosità tra i diversi livelli della realtà che sembra interessare profondamente David Simon e la sua impresa di rappresentazione totale, fino a comprendere, in una sorta di rispecchiamento o di effetto Droste, anche l’ultimo livello, quello della rappresentazione stessa: lo sguardo “esterno” di chi racconta è personificato da una giornalista e autrice di libri di non-fiction la quale, esattamente come Simon (che ricordiamo ha lavorato per molti anni come cronista di nera per il Baltimora Sun), procede mimeticamente nei bassifondi raccogliendo testimonianze, interviste, ed elementi utili alla propria ricostruzione.
Lo sguardo del regista è insomma chiamato a esibire il “luogo da cui parla”, a mostrare il proprio ruolo nell’orchestrazione dei poteri che si trovano a confronto sulla scena di The Deuce. Se possiamo annoverare Simon tra i più grandi film-maker viventi è anche perché, maestro assoluto di realismo, ha attraversato il novecento e rinunciato alla presunzione di innocenza dello sguardo realista. Il potere e l’assoggettamento, per tornare a Foucault, sono distribuiti ovunque. Conseguentemente, quasi nessuno dei molti personaggi che incontriamo è definito una volta per tutte: anche i più loschi sono dispensati da un giudizio che li inchioderebbe per sempre a una sceneggiatura esile e moralista e – almeno fino ad azioni definitive – possiamo aspettarci di tutto, resipiscenze e degenerazioni. Il che non impedisce all’autore, nelle sue dichiarazioni pubbliche, di reggere la barra di un pensiero deciso e radicale, di una militanza consapevolmente assunta e praticata, senza perciò indulgere alla scorciatoia di inoculare messaggi edificanti nei propri lavori; lasciando all’immagine del reale tutta la sua affascinante ambiguità. Il che, lungi dall’essere contraddittorio o sintomo di debolezza, è proprio la cifra dei più grandi artisti politici.