S i fa un gran parlare di film emozionanti. Film che trasmettono sentimenti, fanno ridere. Piangere. Blade Runner 2049 è stato criticato per essere un film freddo, dal pathos intermittente. Richard Brody ha accusato due registi di punta del cinema europeo—Ruben Östlund e Yorgos Lanthimos—di essere figli di un Haneke di maniera, che guardano la società con un ghigno di superiorità, senza restituirne la complessità sul piano visivo. Il nuovo film di Östlund, The square, capita particolarmente a genio perché racconta il mondo dell’arte contemporanea nella sua massima rarefazione, quella concettuale. A chiunque conservi un po’ di curiosità per il mondo delle arti sarà capitato di uscire da una galleria ed essere un po’ perplesso. Cosa avrà voluto dire?
L’ultima volta che mi sono emozionata per un’opera d’arte è stato nel 2015. Per un’installazione del francese Cyprien Gaillard intitolata Nightlife nella serie Where Nature Runs Riots: era un video in 3D, estremamente immersivo, con una base musicale che dettava il ritmo visivo e un impianto concettuale molto denso (si evinceva solo dal comunicato stampa). Sono tornata a vederla. Era un’esperienza davvero “sublime” poiché l’ammirazione razionale nei confronti della tecnica e l’esperienza percettiva si fondevano nello sguardo creando un cortocircuito unico: possedere – con il proprio intelletto, gusto, senso – un artefatto, e allo stesso tempo, esserne totalmente soggiogati. È un’esperienza che la complessità della critica, o la contestualizzazione storica non possono del tutto risolvere. In quell’intercapedine misteriosa si può rivelare l’emozione. Eppure quella di Gaillard non era un’opera narrativa. Cosa succede quando si aggiunge l’elemento diegetico – cioè quando le cose accadono, e non si limitano a farsi guardare?
Il cinema dei fratelli Safdie, la cui immediatezza è agli antipodi del cervellotico preambolo di cui sopra, è ossessivamente, compulsivamente narrativo. Il loro ultimo film, arrivato in poche sale italiane lo scorso ottobre, si intitola Good Time, quasi a suggerire lo stato d’animo dello spettatore ideale: uno che trascorre tempo di qualità in compagnia del loro cinema. Il titolo è però fuorviante, poiché per l’intero film il protagonista Connie se la passa malissimo. Letteralmente, gliene capitano di tutti i colori: a pochi minuti dall’inizio lui e il fratello si ritrovano in auto dopo aver rapinato una banca. Non appena le sirene della polizia si allontanano, le banconote rubate sprigionano una nube purpurea e urticante che tinge tutto di rosso—i personaggi, l’auto, lo schermo: per rapinare la banca poco prima, i due avevano indossato maschere di uomini neri, con i lineamenti mostruosamente deformati.
Il furto e il travestimento, due membri “onorari” dell’universo della finzione, sono il motore autosufficiente di Good Time e contaminano tutti i lavori precedenti dei Safdie. Forse per questo si è detto che è un film freddo, distaccato. Perché a muovere la storia non sono persone o sentimenti, ma trucchi narrativi ed estetici. Certo per motivare l’azione, ci sono delle basi umane: il disperato tentativo di Connie di ritornare insieme a Nick, il fratello ritardato rinchiuso, dopo la rapina, nella prigione di Rikers Island. Non un caso che l’unico nodo sentimentale sia quello fraterno, proveniente dalla biografie dei due registi – Josh, classe 1984 e Benny, 1986. Good Time è la prima produzione economicamente importante dei due, che hanno già girato 3 lunghi – Heaven Knows What del 2014, Daddy Longlegs del 2009 e The Pleasure of Being Robbed del 2008 – e un doc, Lenny Cooke del 2013. Tuttavia anche questa è stata una produzione orgogliosamente indipendente, che ha coinvolto vecchi amici come il direttore della fotografia Sean Price Williams e il co-sceneggiatore-attore nonché “terzo fratello Safdie” Ronald Bronstein. Con presenza, nel ruolo di Connie, di una celebrità assoluta: Robert Pattinson.
Il furto e il travestimento, due membri “onorari” dell’universo della finzione, sono il motore autosufficiente di Good Time.
In un’intervista coi Cahier du cinéma – che gli hanno dedicato la copertina del prestigioso numero Retour de Cannes – Pattinson ha raccontato di aver visto un poster di Heaven Knows What su internet ed esserne rimasto folgorato. Ha pregato i fratelli di girare insieme “qualsiasi cosa: non importa cosa”. Pattinson è diventato Connie Nikas, volto che vediamo circa l’80% del tempo sullo schermo. Un piccolo criminale, non si capisce se è un po’ stupido o molto sfortunato, che vive di espedienti in un mondo di scappati di galera, ebrei mafiosi. La storia di Good Time è stata in preparazione per anni: l’idea di un personaggio che non riusciva mai a farla franca – Un condamné à mort s’est échappé di Bresson senza happy end – ha richiesto una ricerca approfondita. Per documentarsi, Josh Safdie è andato al tribunale di NY ad assistere alle letture dei reati penali durante la vigilia di Natale. Lì ha fatto conoscenza di un fotografo del Daily News: un’occasione per ribadire l’influenza del fotogiornalismo – Helen Levitt, Walker Evans, Robert Frank, Bruce Davidson, l’impronta del realismo sociale nel sostrato urbano raffigurato dai Safdie. I diners zozzi e affollati, le persone stipate nelle cabine telefoniche, la Broadway luminescente: immagini a cui film come Shadows, Un uomo da marciapiede, Panic in Needle Park regaleranno il movimento e che che nei Safdie altro non sono che i White Castle aperti 24/7, i giardini pubblici come Tompkins Square Park, le luci di Adventureland.
Guardando online il lavoro di questo reporter, ex-fotografo per la NYPD, Safdie scova del materiale che sarà poi cruciale per la costruzione del personaggio di Connie: la storia di un “con man”, un genio della truffa, che per anni si è travestito dai personaggi più impensabili. La foto del suo zaino rivela un libricino logoro dal titolo quasi esoterico: Disguise Techniques: Fool All Of The People Some Of The Time, che diventerà una sorta di manuale di recitazione per Pattinson e la base per la creazione dei costumi. Se per la colonna sonora è stato coinvolto Onethrix Point Never con una traccia cantata da Iggy Pop, per i costumi i Safdie si sono fatti affiancare da Mordechai Rubenstein. Conosciuto come Mister Mort, piuttosto che diventare rabbino come auspicato dalla famiglia, Rubenstein ha cominciato a collezionare sul suo blog ritratti e abiti non solo provenienti dalla cultura ebreo-ortodossa di New York, ma anche dal mondo del lavoro. Con l’hashtag #beautyintheeverydayuniform ha restituito allo street style la creatività e l’orgoglio di chi, pur vivendo sulla strada o facendo lavori umili e fisicamente provanti, incarna un profondo (ed economico) senso dell’eleganza.
La nostra idea di Robert Pattinson viene stravolta dal personaggio di Connie, coi suoi capelli ossigenati e il respingente pizzetto. Intanto, totalmente inadatto alla vita di prigione a Rikers Island – luogo mitico tra Queens e Bronx, in cui è stato girato un episodio formidabile di Mozart in The Jungle – il fratello Nick viene riempito di botte e ricoverato in ospedale. Per un equivoco dei più classici, Connie libera invece del fratello un altro detenuto ricoverato. È Ray, cioè Buddy Duress, che in prigione è stato davvero. Duress fu scoperto dai Safdie durante la produzione di Heaven Knows What, storia d’amore tra due tossici adolescenti che vivono sulla strada. Definito dai Safdie una “sudden star” – un talento cinematografico che si trova per caso, fuori dai percorsi battuti dai casting convenzionali – Duress è una specie di Ninetto Davoli, che si presta alla commedia, oggi cocco dell’art-house newyorchese. Se seguissimo la storia dal punto di vista di Ray vedremmo un moderno Wile E. Coyote, dove però lo svolgimento beffardo degli eventi non produce alcun comic relief. Mentre il motore originale (farla franca dopo il furto in banca) si perde con l’emergenza (liberare il fratello) e si trasforma in assurdo (recuperare una bottiglia di Sprite piena di LSD), il tunnel narrativo e visivo diventa sempre più stretto e insistito su primi piani, chiaroscuri e una musica acida, cattiva. Un inseguimento claustrofobico lungo un’intera notte, che improvvisamente si apre sul mondo immenso, albeggiante, del Queens. Ma l’apertura non ha nulla di umano, il chiarore non porta alcuna redenzione né catarsi emotiva.
E difatti è vero, Good Time è un film “freddo”. Come scrive Roberto Manassero, “nei film dei fratelli Safdie la traiettoria narrativa inscena sempre un depistaggio, è artificiosa e ingannevole anche quando sospesa”. Nei loro film precedenti l’apice è letteralmente rappresentato da un’altura (la funivia di Daddy Longlegs), da un lancio (il cellulare che si tramuta in fuoco d’artificio in Heaven Knows What), da un tuffo (il bagno con l’orso polare in The Pleasure of Being Robbed). Prima di quell’apice, il loro cinema mantiene un realismo da millennial iper consapevole, lucidissimo nella mimesi del contemporaneo come nelle ideosincrasie dei personaggi. Lo scarto emotivo che viene prodotto dopo è davvero uno scarto nel doppio senso della termine: un’improvvisa deviazione o sbalzo verso qualcosa di sorprendente; ma anche un “rifiuto”, cioè un elemento estraneo nell’economia dominante del film. Non è un caso che ciò prenda le forme del fantastico. La trasformazione, il furto o l’inanimato che prende vita (come la zanzara gigante al museo di scienze naturali in Daddy Longlegs), sono aspetti di una poetica che pone al centro due elementi base del cinema classico: raccontare la realtà e truccarla con il linguaggio cinematografico.
Per i Safdie la fonte inesauribile è John Cassavetes, padre dell’indie americano, creatore di uno sguardo tanto umano verso il milieu disastrato che rappresenta, quanto ambizioso ed estremo dal punto di vista formale.
Quest’idea è incapsulata in un corto del 2012, The Black Balloon: calco e tributo di Le ballon rouge (Pascal Lamorisse, 1956), si apre con una delle scene più emozionanti ed eloquenti del cinema Safdie. Un uomo esce da un edificio con un bouquet di palloncini colorati in una mano e un telefono nell’altra. Sbraita nell’apparecchio che è pericoloso, che non è mai stato solo con così tanti bambini. Lo seguono una ventina di ragazzini. Venditori di hot-dog guardano perplessi la scena, mentre la proverbiale frenata di taxi segnala che siamo nella trafficata New York. L’uomo riesce a trasportare tutti i ragazzini dall’altra parte della strada, promette a tutti una fetta di pizza ma nella foga lascia andare i palloncini. I bambini gridano disperati guardando in alto mentre i palloncini, ormai liberi, prendono ognuno la propria via nel cielo. Attacca un pezzo prog-rock dei Gong, “The Octave Doctors Machine” – che anticipa Oneohtrix Point Never e il compositore Isao Tomita, la cui hit “Snowflakes Are Dancing” accompagna la spirale tragica di Heaven Knows What. Mentre la musica cresce, l’assenza di empatia per l’uomo si scontra con lo stupore della visione. Il corto seguirà poi un palloncino nero in giro per le strade della città, in un susseguirsi di incontri e colpi di scena che acquisterà forma matura in Good Time.
In questo senso è molto utile il confronto con Fuori Orario (1985), il gemello comico di Good Time. Uno dei film meno conosciuti di Scorsese, si svolge anch’esso nel corso di una notte sfruttando equivoci e reazione a catena; ma è una commedia, girata a Soho, con Michael Ballhaus alla fotografia. I Safdie ostentano i loro modelli con una devozione quasi commovente, tanto da replicare nel poster di Good Time la “fonte” del 1985 con accuratezza tanto paracula quanto filologica. Quando si tratta di citare le ispirazioni, inoltre, mostrano una cinefilia nervosa e fuori dal comune. Presso il cinema Metrograph hanno curato una rassegna con i lavori che hanno ispirato Good Time. I film citati sono vari: non solo l’evidente Heat o i due doc Law & Order (1962) di Frederick Wiseman e Lock-up: The Prisoners of Riker Island di Albert e Rosenlbum (1994), ma anche accostamenti non del tutto ovvi come l’iper-machista 48 Ore di Walter Hill (1982), The Running Man con Schwarzenegger e Lo spaventapasseri (1973) con Al Pacino e Gene Hackman.
La fonte assoluta e inesauribile è però John Cassavetes, padre dell’indie americano, creatore di uno sguardo tanto umano verso il milieu disastrato che rappresenta, quanto ambizioso ed estremo dal punto di vista formale. Il suo Ombre del 1959 è per molti versi The Pleasure of Being Robbed. Invece Minnie e Moskowitz, del 1972, è Heaven Knows What. Come scrive ancora Roberto Manassero:
L’uso che Joshua e Ben Safdie fanno di una certa idea decisamente abusata di cinema newyorchese – 16mm, macchina a mano, primi piani ravvicinati, riprese in esterni affollati o degradati, montaggio ellittico, attenzione per dropout e piccoli criminali – cela una consapevolezza che stride volutamente con l’effetto di precarietà trasmesso dalle immagini. Cassavetes non è nemmeno un modello: è un automatismo dell’occhio per chi è cresciuto fra Queens e Manhattan; la vita di strada prima di tutto una forma narrativa ed estetica e solo in un secondo momento anche un luogo d’elezione e uno spazio conosciuto.
Già dagli esordi era tutto scritto. The Pleasure of Being Robbed del 2008 segue il girovagare di una giovane cleptomane per le strade New York. Come ricorda Olivier Pere che lo selezionò alla Quinzaine di Cannes, è uno strano mix tra neorealismo e cinema americano indipendente degli anni Sessanta, impiantato sulla figura dello “slacker”, il perdigiorno. Forse per i legami del genere con capolavori come Meantime (1984) di Mike Leigh e Slacker (1990) di Richard Linklater, venne associato al movimento mumblecore. Ma più di quanto sia stato detto riguardo a Good Time, The Pleasure of Being Robbed è un “instant classic” poiché è lì che si origina la cinematografia dei Safdie come furto: degli oggetti e delle identità dei personaggi, delle citazioni della storia del cinema, della città di New York. Escluso Good Time, i Safdie hanno sempre girato a New York senza permessi, rigorosamente in pellicola, facendosi promotori di un “guerrilla filmmaking” che utilizza lenti molto lunghe – quelle che si usano durante i safari per fotografare gli animali – in grado di registrare le immagini anche a distanza, quando gli attori recitano lontani dalla crew, in mezzo alla folla ignara.
È interessante menzionare quello che nota Josh Safdie a proposito de Il momento della verità (1965) di Francesco Rosi. È un film su un giovane andaluso che cerca la fortuna diventando torero. Monta insieme scene scritte e riprese documentaristiche girate durante le corride e la feria di Pamplona. A sentire Safdie è un film “incredibile per come tratta il cinemascope a mo’ di cinéma-vérité”, cioè per come sposi una tecnica inventata per creare finzione con un genere nato per documentare la realtà. È nella crepa che si crea tra i due mondi che scaturisce il magico, lo stupore. Forse l’emozione. Poco male se ci sentiamo un po’ truffati: tanto non era (quasi) vero niente.