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udmundur Thorarinsson è un uomo molto alto, ma la sua stazza quasi non si percepisce, controbilanciata com’è da una voce gentile e accogliente, dai toni bassi ma decisi. Mi apre la porta della sua casa di Reykjavík, dove ci siamo dati appuntamento, e mi invita a entrare. La giornata è piovosa e devo stare attento a non sporcare il pavimento di legno, il materiale predominante in questa casa bella e ampia con il tetto a spiovente, dove Thorarinsson vive solo. Questo signore alto dai modi gentili oggi è in pensione, dopo aver lavorato come ingegnere civile e aver ricoperto anche diverse cariche pubbliche. Quello che mi porta oggi da lui è un’altra delle passioni della sua vita: gli scacchi. Guðmundur Thorarinsson è stato Presidente della Federazione Scacchistica Islandese negli anni Settanta ed è grazie a lui che l’Islanda, questa piccola e fredda isola dell’Atlantico settentrionale, ha ospitato quello che è stato ribattezzato “il match del secolo”, la sfida tra Bobby Fischer e Boris Spassky. Erano i campionati del mondo del 1972, in piena guerra fredda, e l’idea che uno scacchista geniale per quanto eccentrico come Fischer potesse insidiare il primato sovietico suscitava l’entusiasmo di molti. Non era affatto scontata, ma andò proprio così: Fischer vinse il titolo nell’incontro più celebre di tutti i tempi per questa disciplina, quello che proiettò gli scacchi, un gioco considerato di nicchia e seguito solo dagli amatori, verso il grande pubblico. Garry Kasparov, campione del mondo dal 1985 al 2000, disse che se gli scacchi hanno la rispettabilità e il riconoscimento economico che hanno oggi, è dovuto in larga parte a Fischer, che con i suoi modi bizzarri e le sue pretese all’epoca ritenute assurde, contribuì non poco a rendere il campionato di Reykjavík un evento epico, raccontato dai giornali di tutto il mondo. Lo scontro tra Usa e Urss sullo sfondo fece il resto.
Guðmundur mi fa sedere in salotto, una sala con grandi vetrate e stracolma di libri. Dalla cucina una radio diffonde musica classica a basso volume. Mi offre del the e cominciamo a parlare. I suoi occhi, di un celeste intenso e limpido, si illuminano quando rievoca quegli eventi. “È molto pericoloso chiedermi di raccontare questa storia. Solitamente parto con un discorso di 45 minuti e poi proseguo per un’altra ora a braccio”, mi dice ridendo. In effetti i ricordi sono tanti: le difficoltà organizzative, il carattere impossibile di Fischer, l’ossessione dei sovietici per il sabotaggio che li portò a verificare che durante l’incontro non fossero state piazzate strumentazioni elettroniche in grado di far perdere la concentrazione al campione russo. E poi le pressioni politiche sia da Mosca che da Washington. Gli ingredienti per una spy story ci sono tutti, ma in realtà quello che a distanza di quarantacinque anni affascina ancora il mondo è la storia di Fischer, il grande irregolare che ha finito per conquistare una fama che va ben oltre il mondo degli scacchi.
Irascibile, ossessionato dallo studio degli scacchi e fortemente misantropo, Bobby Fischer ha ispirato centinaia di volumi incentrati sul match del 1972 o sulla sua biografia. Una storia che non smette di stupire nemmeno dopo l’incontro che incoronerà per la prima volta uno statunitense come re degli scacchi, strappando il primato a un giocatore dell’Unione Sovietica, riconosciuta universalmente come la patria di questa disciplina. Fischer nel 1975 si rifiutò di giocare con Karpov, che avrebbe dovuto sfidarlo per il titolo mondiale, perché la Federazione Internazionale non accettò le condizioni regolamentari che voleva imporre. Karpov vinse a tavolino e Fischer si eclissò per quasi vent’anni, durante i quali vagabondò per l’Europa. Riemerse nel 1992, per la rivincita contro Spassky giocata tra Belgrado e Sveti Stefan, in una Jugoslavia in via di disfacimento. La scelta causò la rottura definitiva con gli Stati Uniti, che gli intimarono di non giocare in un paese sotto embargo per via del conflitto in corso: Bobby sputò sul cablogramma e, per tutta risposta, le autorità americane emisero un mandato di cattura nei suoi confronti.
Fischer era noto anche per le sue idee antisemite, per una spiccata tendenza alla solitudine e per alcune altre manie che, unite alla sua indole geniale, hanno portato diversi psicologi a sospettare che soffrisse della sindrome di Asperger. Il mandato di cattura lo sfiorò anni più tardi, quando si trovava in Giappone, e si salvò dall’estradizione grazie all’Islanda, che gli concesse la cittadinanza e lo accolse fino alla sua morte, avvenuta il 17 gennaio del 2008. Anche in questo caso c’è di mezzo lo zampino di Guðmundur Thorarinsson, ma questa è un’altra storia. La nostra chiacchierata parte dal suo primo incontro con Bobby, avvenuto quando entrambi erano poco più che ragazzi.
Quando ha incontrato Bobby Fischer per la prima volta?
La nostra federazione aveva conosciuto Fischer già nel 1960, quando era molto giovane. Venne per partecipare a un piccolo torneo. Era un genio, studiava gli scacchi di notte e dormiva di giorno. Gli riusciva molto difficile cooperare con gli altri e persino mantenere un atteggiamento amichevole. Bobby è stato allevato da una madre single che non aveva soldi sufficienti a mandarlo all’asilo; cominciò a muovere i pezzi sulla scacchiera per passare il tempo, apprese le mosse dalla sorella ma poi sostanzialmente imparò giocando da solo. A 13 anni divenne campione junior degli Stati Uniti e successivamente vinse il torneo nazionale e divenne Grande Maestro a 15 anni. Risultava sicuramente eccentrico, perché non era abituato a parlare con gli altri: la sua vita era tutta dentro le sessantaquattro caselle della scacchiera. A quel tempo all’infuori degli scacchi non gli interessava praticamente nulla. Me lo ricordo, durante il Match del ’72, in quello che potremmo chiamare un momento di debolezza, che guarda fuori dalla finestra del suo albergo e mi dice: “Guðmundur, io non so fare nient’altro che giocare a scacchi’. Dopo qualche attimo la sua espressione cambia, si allarga in un sorriso e aggiunge: “Però lo so fare abbastanza bene”.
Ad ogni modo continuò a giocare e i suoi progressi, al pari dei suoi successi, erano incredibili. Nel 1972 si ritrovò a giocare contro Boris Spassky, campione del mondo e campione sovietico. Non era un titolo da poco: a quel tempo nessuno poteva competere con l’Unione Sovietica nell’ambito degli scacchi. In Russia erano lo sport nazionale, quello sul quale la nazione sovietica giocava il proprio orgoglio per dimostrare al mondo occidentale la superiorità del comunismo. E, al di là di questo, Spassky voleva difendere il suo titolo. Era un vero gentleman e un incredibile giocatore. Arrivò in Islanda con tre Grandi Maestri nella sua squadra che avevano il compito di supportarlo. Fischer invece giungeva alla finale dopo aver battuto Tigran Petrosjan, un giocatore sovietico tra i più bravi di tutti i tempi, che aveva fama di essere invincibile. Fischer lo sconfisse vincendo ben quattro partite.
Si cominciò a parlare di Fischer come di un uomo che stava sfidando un intero sistema. Veniva da una nazione dove gli scacchi non erano particolarmente popolari. Gli Usa avevano alcuni ottimi maestri, ma gli americani non sapevano nemmeno chi fossero. Spassky invece veniva dalla grande scuola sovietica: fu reclutato a scuola quando non aveva nemmeno sei anni, perché gli riconobbero un talento inusuale. Ebbe i migliori maestri, i migliori manuali, frequentò i migliori tornei, tutto attorno a lui era studiato per farne un campione.
Come si è arrivati all’idea di ospitare la finale del campionato del mondo di scacchi in Islanda?
Nel nostro paese l’interesse per gli scacchi è sempre stato molto alto. All’epoca la FIDE, la Federazione Internazionale Degli Scacchi, lanciò una competizione per chi avesse voluto ospitare la finale. In Islanda in molti pensarono che fosse il caso di partecipare. All’epoca ero Presidente della Federazione Nazionale, ma avevo anche il mio lavoro di ingegnere che mi assorbiva molto. Non ero tentato dall’idea di partecipare, soprattutto perché pensavo che non avremmo mai potuto competere con nazioni molto più grandi e ricche di noi, che potevano fare offerte più allettanti. Non avevamo connessione satellitare, quindi non potevamo riprendere il torneo mossa per mossa. Le nostre possibilità erano davvero scarse – all’epoca eravamo una nazione di appena 250.000 persone! – e così dissi che secondo me non dovevamo partecipare.
E perché poi ha scelto di tentare lo stesso?
Da più parti ricevevo pressioni per fare almeno una proposta, per non lasciare andare questa possibilità, e così lo feci, anche se a me sembrava un completo nonsense. Mandammo la lettera e, quando uscirono i risultati, scoprii con grande stupore che ci eravamo classificati terzi. La proposta più alta venne dall’Argentina, che aveva offerto 152.000 dollari per l’organizzazione; seconda la Jugoslavia, con 150.000; e terza l’Islanda, che mise sul piatto 125.000 dollari. Mi rilassai, perché eravamo terzi e quindi fuori dai giochi. Ma la Federazione rifiutò l’offerta dell’Argentina, perché aveva già ospitato l’incontro tra Fischer e Petrosjan, e con l’ottica di diffondere gli scacchi il più possibile nel mondo si preferì optare per una nazione dove non si erano ancora tenute grandi sfide internazionali: la Jugoslavia, presumibilmente, ma anche l’Islanda. La Federazione lasciò scegliere gli sfidanti, perché avevano il diritto di non giocare in un posto che non fosse loro congeniale. Fischer rispose immediatamente che avrebbe voluto giocare a Belgrado. Ma, con enorme sorpresa, apprendemmo che Spassky preferiva giocare in Islanda. Come uscirne? La Federazione propose che il match fosse organizzato in due diverse sessioni, la prima in Jugoslavia e la seconda a Reykjavík. La Jugoslavia, che aveva fatto l’offerta più alta, voleva ospitare le prime 12 partite del torneo, lasciando a noi le successive 12; ma eravamo convinti che non ci sarebbero state così tante partite, e che quindi in realtà il campionato del mondo non sarebbe mai davvero approdato da noi. Cominciammo a cercare un accordo con la Jugoslavia. Il loro rappresentante era una persona importante, il direttore della Banca di Credito ed Esportazione di Belgrado. Lo incontrammo ad Amsterdam e in altre città, cercando di capire come gestire la cosa. Noi eravamo disponibili ad accettare la seconda parte del match, perché eravamo secondi. Ma mentre discutevamo sorgevano sempre maggiori ostacoli. Incontrammo più volte gli avvocati di Fischer, che faceva di volta in volta richieste maggiori, e cominciammo a preoccuparci. Penso che molte altre organizzazioni si sarebbero tirate indietro a causa degli oneri, ma noi rispondevamo “ok, faremo del nostro meglio”. A un certo punto, il direttore della Banca di Belgrado disse che la Jugoslavia non avrebbe più partecipato. Ci ritrovammo da soli. La FIDE non aveva molta fiducia nell’Islanda, un paese piccolo che non aveva mai organizzato una competizione di livello prima d’ora, così volle verificare se tra le altre federazioni nazionali ce ne fosse qualcuna in grado di prendere il posto della Jugoslavia. Ma nessuna si fece avanti: tutti erano preoccupati dalle troppe richieste di Bobby Fischer.
Ma alla fine fu l’Islanda a ospitare il match per intero. Come convinse la FIDE?
Mi feci avanti col Presidente della Federazione Internazionale – un ex campione e matematico – dicendo: “ci siamo preparati per ospitare metà del match, possiamo fare lo stesso con l’altra metà”. Lui si convinse. Così cominciammo a trattare con gli avvocati di Bobby Fischer, che vennero a Reykjavík per discutere con noi. Gli avvocati chiesero una percentuale sugli incassi, l’aumento del compenso di partecipazione e molte altre cose ancora. Riuscimmo a trovare delle soluzioni, ma l’accordo con Fischer non era ancora stato raggiunto.
Nel frattempo, una decina di giorni prima del match, Boris Spassky arrivò a Reykjavík. Voleva adattarsi all’atmosfera del posto, al cambio di luce – che d’estate è presente quasi 24 ore al giorno e può provocare problemi al sonno. Il pubblico islandese lo ammirava molto. Era un uomo gentile, amichevole, sicuramente un genio. Fischer invece non si presentava e i giorni passavano. Cominciammo a temere che il match non avrebbe avuto luogo, perché non potevamo certo andare a prendere Fischer di peso e trascinarlo qui. Così parlai con Spassky e gli dissi: “L’unica possibilità è che tu ci parli al telefono”. Erano amici. Spassky – che voleva sicuramente giocare – disse che non era possibile: avrebbe parlato volentieri con Fischer, ma solo se fosse stato lui a chiamare. Ovviamente era una cosa impossibile. Ero disperato al punto che chiamai la compagnia telefonica islandese per capire se fosse tecnicamente possibile fare in modo che i due si ritrovassero connessi in una telefonata senza comporre il numero, ma semplicemente alzando la cornetta, per cercare di metterli comunque in comunicazione. Ma mentre cercavo di escogitare qualcosa il telefono squillò. Era Boris Spassky. Mi disse: “Ci dobbiamo incontrare. È una cosa importante, dobbiamo parlarne in privato”. Lo incontrai al suo hotel. Nel corridoio del suo piano trovai i tre Grandi Maestri sovietici che lo avevano accompagnato che mi aspettavano in piedi e mi condussero nella sua stanza, dicendo che il campione mi stava aspettando. “Guðmundur – mi disse – l’unico modo per uscirne è che la situazione venga risolta a un livello più alto”. “Un livello più alto? – chiesi sbigottito – Non saprei proprio da dove cominciare”. “Beh – mi fece Spassky –, allora non riusciremo ad andare avanti”. Replicai allora che ci avrei provato.
Ora, il primo ministro islandese dell’epoca era un mio amico, eravamo nello stesso partito – perché io ero stato consigliere comunale e, in seguito, parlamentare. Gli raccontai quello che stava succedendo. Considera che la questione era sui giornali di tutto il mondo, c’erano giorni in cui parlavo con più di trenta emittenti in una sola giornata. Così dissi al primo ministro: “Dovresti provare a chiamare la Casa Bianca per risolvere la situazione”. Lui mi guardò e mi disse: “Guðmundur, sei giovane e certe cose non le sai: questa è una cosa che non si può fare!”. Parlammo fitto per una buona mezz’ora e, alla fine, mi concesse un tentativo: avrebbe contattato l’ambasciatore americano per sottoporgli la questione. Quando l’ambasciatore si presentò, il primo ministro non usò mezzi termini: “Abbiamo fatto tutto il possibile per organizzare al meglio la finale del campionato del mondo di scacchi, abbiamo speso moltissime energie, ma il vostro campione non si presenta. A questo punto devo informarvi che l’opinione pubblica islandese sarà molto arrabbiata con gli Usa. Ti chiedo di informare la Casa Bianca per capire se si può risolvere la situazione”. L’ambasciatore contattò il governo americano e tutti sappiamo come è andata: Henry Kissinger chiamò Bobby Fischer. Il resto della storia me la raccontò uno degli avvocati di Bobby. Lui e i suoi colleghi stavano in albergo cercando di convincere Fischer a partecipare, visti anche i tanti vantaggi economici che erano riusciti a ottenere, ma Bobby non si smuoveva. Finché arrivò una telefonata: era Kissinger. “Vogliamo che tu vada in Islanda e che vinca contro il campione sovietico”, gli disse. L’avvocato mi raccontò che l’espressione di Fischer cambiò nel corso della telefonata; probabilmente si sentì come un soldato a cui viene richiesto di andare in guerra. E alla fine accettò. Quando arrivò all’aeroporto di Reykjavík e i giornalisti, dopo questo tira e molla, gli chiesero per quale motivo avesse alla fine accettato di partecipare, rispose: “Perché gli interessi della mia nazione sono più importanti dei miei”.
Nell’apprendere questa notizia che reazione hai avuto?
Tirai un sospiro di sollievo. Eravamo in ritardo sul calendario, questo è vero: il primo incontro si sarebbe già dovuto giocare. Ma finalmente la questione si era sbloccata. Se non che, quando incontrai Spassky, mi accorsi che era incredibilmente arrabbiato. Ero sorpreso. Mi disse: “Mi avevi promesso di risolvere la questione a un livello più alto, ma non è stato fatto nulla”. Non capivo perché dicesse così: Bobby Fischer era finalmente in Islanda, la macchina poteva partire. Il fatto è che mi ero concentrato solo sul problema Fischer: di colpo realizzai che c’era un problema altrettanto grosso dall’altra parte. L’Unione Sovietica aveva deciso di richiamare Spassky, sostenendo che il campionato era stato umiliato dal comportamento di Fischer, che era intollerabile. In effetti Spassky lo stava aspettando da ben 12 giorni. Ora la situazione si era fatta davvero complicata e capii di averla mal interpretata. Dissi a Spassky: “Vado oggi stesso dal primo ministro e gli chiederò di contattare l’Unione Sovietica!”. Così feci. Il primo ministro mi guardò e mi disse: “Guðmundur, sei di nuovo qui? Guarda che in questo ufficio abbiamo problemi importanti da risolvere”. Gli spiegai tutto e gli chiesi di chiamare l’ambasciata sovietica per intercedere per la presenza di Spassky. Così fece. Quando si presentò l’ambasciatore russo, il primo ministro disse: “Tutta la nazione islandese ammira il campione Boris Spassky incondizionatamente e vuole vederlo giocare nella finale. Capiamo perfettamente che ci sono state delle complicazioni per voi intollerabili. Ma le chiediamo ufficialmente di intervenire presso il suo governo per permettere a Spassky di partecipare”. L’ambasciatore ci rispose il giorno seguente, spiegando le rimostranze dei sovietici, irritati da tutta la situazione, ma ancora disposti a far giocare Spassky.
A quel punto si poteva cominciare. Se non fosse che non avevamo ancora risolto il negoziato con gli avvocati americani. La cosa andò avanti fino al giorno in cui si doveva aprire il match: l’inaugurazione sarebbe stata alle cinque del pomeriggio presso il Teatro Nazionale. Eravamo in aeroporto e gli avvocati continuavano ad aggiungere richieste e io rispondevo che non c’era altro margine, le nostre offerte restavano in piedi ma più in là non si poteva andare. E così si fece tardi. Mancavano cinque minuti alle cinque e annunciai agli avvocati che dovevo andare; loro risposero: “Bene, dovrai annunciare che non ci sarà alcuna finale, perché le nostre richieste non sono state accettate”. Arrivai al Teatro Nazionale con venti minuti di ritardo. Due ufficiali del Ministero degli Esteri mi raggiunsero: “Che fine hai fatto? Hai smosso il governo, gli ambasciatori e il presidente per questa storia e ora arrivi in ritardo, senza una vestito adatto e senza un discorso?”. Mi spinsero letteralmente sul palco, per avviare l’inaugurazione. Non sapevo cosa fare: è meglio annunciare che il match salta oppure avviarlo in queste condizioni? A un metro dal palco decisi di far partire l’inaugurazione. In fondo qualcosa poteva ancora accadere mentre invece, se avessi annunciato l’annullamento del match, ogni possibilità si sarebbe esaurita lì.
A quel punto Bobby Fischer si materializzò?
In realtà, prima di quello, le cose si complicarono ancora, perché l’Unione Sovietica mandò un telegramma con cui si lamentava del fatto che il giorno fissato per la finale era già passato e la partita non si era ancora tenuta. La Federazione Sovietica chiedeva che venisse attribuita la penalità di una partita a Fischer, perché non si era presentato all’apertura, altrimenti non avrebbe consentito a Spassky di giocare. Sapevamo tutti che Fischer non avrebbe mai accettato. Mentre il comitato e i grandi maestri sovietici discutevano animatamente su questa proposta, restando sostanzialmente su posizioni contrapposte, ebbi una sorta di illuminazione. Mi ricordai di quando ero stato a Londra per negoziare per il governo islandese un progetto di sviluppo energetico. I negoziati erano molto intensi. Una sera tornai in hotel e non riuscivo a dormire, così andai al bar per farmi un doppio cognac. Lì conversai con una donna che mi raccontò di aver lavorato per dieci anni come interprete per i negoziati sul nucleare tra gli Usa e l’Urss. “Lo vuole un consiglio?”, mi disse. “Non bisogna mai dire di ‘no’ all’Unione Sovietica. Deve sempre partire il suo discorso dicendo ‘sì, ma…’. Deve dare l’impressione di approcciare la questione dal loro punto di vista”. Improvvisamente mi ricordai di quella conversazione. Così, mentre gli altri discutevano animatamente battei il pugno sul tavolo e dissi: “Avete ragione. Fischer dovrebbe cominciare con una sconfitta a tavolino. Non si è presentato e questa sarebbe la conseguenza più corretta. Tuttavia non posso avallare un forfait a causa del regolamento, che prevede la sconfitta a tavolino solo se uno dei due sfidanti non si presenta entro un’ora da quando è stato avviato il cronometro. E noi il cronometro non lo abbiamo ancora avviato. Riferite alla federazione sovietica che l’Islanda è d’accordo con lei, ma che non si sente in diritto di infrangere il regolamento”. Nel frattempo si era fatta notte, ma i sovietici mandarono un cablogramma con la mia comunicazione. Incredibilmente la risposta fu: “Capiamo la posizione islandese, giocheremo ma protestiamo ufficialmente”.
E i negoziati con gli americani come proseguirono?
Volevano a tutti i costi che la finale venisse pubblicizzata come “il match del secolo”. Io ero contrario: non lo sapevamo ancora se sarebbe il match del secolo, doveva essere ancora giocato! Mi sembrava un’esagerazione e a me le esagerazioni non piacciono. Tuttavia alla fine dovemmo cedere. Oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, devo ammettere che mi ero sbagliato e che, incredibilmente, non si trattava di un’esagerazione ma di una sottovalutazione. Credo infatti che il match Spassky-Fischer sia stato “il match di tutti i tempi”. Perché, oltre al fatto che si sono sfidati due grandi campioni, fu incredibile il clima in cui si tenne la finale, sullo sfondo della guerra fredda, con i governi delle due più potenti nazioni del mondo direttamente impegnati sul campo di questo avvenimento. È una cosa che non si è più ripetuta e che probabilmente non avverrà mai più. E poi c’era il racconto epico dell’uomo geniale, Fischer, che sfidava un sistema potentissimo come il mondo degli scacchi sovietico. Insomma, al di là della partita in sé, la situazione era incredibile. Tanto è vero che ancora oggi si scrivono libri su questi eventi: io, personalmente, ne ho contati oltre 160 in tutto il mondo. Dal 1972 non passa anno che qualcuno – televisioni, radio, giornali – mi chiami per raccontare qualche particolare di quella finale.
Insomma, con tutte queste complicazioni sulla strada del match, sembra un miracolo che siate riusciti a farlo disputare. Qual è stato l’elemento decisivo? La fortuna?
Rispondo con una frase che mi disse Fischer a proposito degli scacchi, quando gli chiesi quanto è importante il ruolo della psicologia nell’esito di una partita: “Non credo nella psicologia. Credo nelle buone mosse”.
Torniamo a Fischer. Qual è stata la prima impressione che ha avuto di lui?
Dobbiamo tornare agli anni Sessanta, quando arrivò qui che era un teenager. Pensai che poteva tranquillamente diventare un Premio Nobel per la fisica, con le sue potenzialità intellettive. Se non fosse che tutto il suo mondo si esauriva nella scacchiera. Completamente. Ricordo che una volta lo portarono a fare un giro per Reykjavík e dintorni e il gruppo si imbatté in un cartello che segnalava la strada per una fattoria che il proprietario aveva ribattezzato “Alaska”. Sai cosa chiese il grande genio degli scacchi? “Ah, quella è la strada per l’Alaska”?
Ma al di là di questi episodi, la cosa che mi colpì fu la sua memoria. Una grande memoria fotografica e anche fonetica: ricordo che una volta discutemmo perché era convinto di aver ricevuto da me un numero di telefono sbagliato mentre io gli assicuravo che si trattava del numero giusto. Lui, per tutta risposta, mi ripeté per filo e per segno la frase in islandese che aveva ascoltato dall’altra parte della cornetta. Una frase complessa, di cui lui non capiva nulla ma che sapeva riprodurre interamente.
Sono note le stranezze di Fischer, che hanno contribuito alla sua fama di persona eccentrica. Solo per restare al match, faceva continuamente delle richieste. Pensa che fossero parte di una strategia?
Non credo, spesso erano cose improvvisate sul momento. Ma c’è da dire che Fischer aveva una sensibilità particolare. Gli assegnammo un’abitazione durante il match e lui si lamentava in continuazione del troppo rumore che non lo faceva dormire. Così andammo a fare un sopralluogo, ma nessuno sentiva alcun rumore e glielo facemmo notare. Poi realizzammo che in una stanza della casa, nell’ala opposta a quella in cui dormiva lui, c’era un orologio che faceva un minimo rumore: se ne accorse uno di noi, mentre gli altri non lo sentivano nemmeno.
Parliamo di Spassky. Quando lo ha incontrato per la prima volta?
Credo fosse nel 1954, quando lui era il campione junior. E poi in altri tornei. Boris Spassky è sempre stato un vero gentleman e lo fu particolarmente nel 1972. Quando venne per disputare la finale gli chiedemmo se avesse qualche richiesta particolare. “Vista la situazione e il contesto, per me è tutto a posto così”. Dopo tutte le strane richieste a cui avevamo dovuto fare fronte fu un vero sollievo. Una volta mi confessò che, dopo la terza partita, aveva capito di aver perso la finale. Com’è possibile? – replicai – Le prime tre partite sono state due vittorie per te e solo una per Fischer. Lui però disse che aveva intuito che, psicologicamente, per lui non era possibile andare avanti e vincere. E in effetti fu così. “Era incredibile anche per me, quella consapevolezza”, mi disse. E me lo confermò anni dopo, durante una celebrazione del Match del 1972, in cui mi disse che gli sembrava incredibile che avesse giocato così male. Considera che oltre a essere il campione del mondo, Spassky aveva vinto il torneo russo, che era il più difficile del pianeta, e lo vinse ancora l’anno dopo aver perso contro Fischer. Sicuramente la pressione che hanno vissuto quei due durante la finale fu incredibile e io sono abbastanza sicuro che entrambi hanno avuto qualche ripercussione psicologica. Fischer ha vagato da solo per l’Europa, senza famiglia e senza amici, per anni. E anche l’astro di Spassky, dopo quell’evento, si spense pian piano. Quando Spassky tornò in Unione Sovietica dopo aver perso la finale subì pesati ripercussioni. L’Unione Sovietica era considerata la patria degli scacchi e lui aveva perso il titolo del mondo contro il loro peggior nemico, gli Stati Uniti. Come prima cosa gli abbassarono il salario – visto che i professionisti in Russia erano stipendiati. E poi gli proibirono di giocare fuori dall’URSS per diversi anni. Dopo che nel 1992 venne disputata la rivincita del match in Jugoslavia – in quel che ne restava – a Sveti Stefan, Fischer non poté più rientrare negli Usa e non poté neppure presenziare ai funerali della sorella e della madre. Insomma, tutto quello che avvenne dopo la finale fu molto strano e impegnativo per loro.
Prima di salutarci, Guðmundur Thorarinsson mi fa vedere una cartolina che ritrae Bobby Fischer di spalle, mentre si avvia per uno dei tanti sentieri deserti dell’Islanda. È l’immagine che meglio lo rappresenta, secondo Guðmundur. La solitudine restò la sua migliore compagna anche a Reykjavík, dove risiedeva da quando il mandato di cattura degli Stati Uniti lo aveva raggiunto in Giappone, nel 2004, e fece diversi mesi di carcere preventivo. Fu Thorarinsson assieme ad altri amici a convincere il governo islandese a concedergli la cittadinanza, trovando così una scappatoia per evitare il carcere a Bobby. La piccola isola che, come dicono a Reykjavík, apparve sulle mappe internazionali solo grazie all’incontro tra Fischer e Spassky, ringraziò il campione americano in questo modo. E legò per sempre il suo nome a quello di Bobby, che oggi riposa in un minuscolo cimitero di una piccola chiesa di provincia, a Selfoss, a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Morì per una complicazione renale, forse perché la sua misantropia lo portò a non curarsi in tempo. Passò gli ultimi anni in solitudine, con l’unica compagnia dei suoi libri. Nel centro di Reykjavík c’è una libreria dell’usato, con un’ampia sezione di libri in inglese, dove passava buona parte delle sue giornate. Nell’angolo dove si metteva a leggere, dietro un alto scaffale e di fronte a una delle vetrate, ci sono una sedia vuota e una scacchiera in suo ricordo, e un quadro con scritto “Bobby Fischer, king of chess. Rest in peace”.