I l mondo del fumetto è una sfera gigantesca, che si sviluppa in ogni direzione, spaziale e temporale. Anche se sappiamo perfettamente quando è stato dato alla stampe Yellow Kid, universalmente riconosciuto come il primo fumetto occidentale, o addirittura che con Contratto con Dio di Will Eisner nasce la “scuola” del fumetto d’autore, quali siano le scaturigini del fumetto è quasi impossibile stabilirlo. Se ci spingiamo più indietro degli ultimi 150 anni possiamo trovare avvisaglie del fumetto in tempi e situazioni del tutto insospettabili. Basta pensare agli affreschi o ai mosaici che, narrando le storie del Vangelo, decoravano le chiese medioevali, oppure ai geroglifici dell’antico Egitto, i quali univano immagine a significato, se non addirittura a certe pitture rupestri di epoca preistorica, nuclei di una proto-narrazione precedenti all’idea di narrazione stessa. Tutti questi sporadici ma concretissimi indizi ci suggeriscono che se raccontare una storia è un istinto innato nell’uomo, raccontarla tramite l’uso di immagini lo è forse ancora di più.
Il fumetto inteso come una vignetta con una battuta, secondo molti, ha il suo antenato con quel leggendario “Fili de le pute traite”, seminale iscrizione (databile intorno alla fine del secolo XI) che appare nell’affresco adornante il chiostro di San Clemente al Laterano a Roma, in cui il patrizio Sisinnio ordina ai suoi servi Gosmario, Albertello e Carboncello di trascinare San Clemente, il quale nel frattempo si è tramutato in una pesantissima colonna di marmo. Con questo meraviglioso scherzo del Santo, nasce il fumetto, non solo perché la battuta sopracitata (per essere precisi ce ne sono anche altre) appare al fianco del personaggio che idealmente la pronuncia, ma anche perché siamo davanti ad una scena dai tempi perfetti (l’incitamento di Sisinnio è contemporaneo all’immagine degli sforzi dei tre servi che cercano di spostare l’irremovibile colonna) che avrà suscitato per certo ilarità nei suoi antichi fruitori (che potremmo tranquillamente chiamare lettori). Questo avveniva in un’Italia che vedeva il passaggio dall’Alto al Basso medioevo. Dopo, anzi molto dopo, sarebbero arrivati i fumetti di carta pubblicati sui quotidiani, fino al giorno d’oggi in cui il fumetto è considerato pacificamente la nona arte.
Il lentissimo ma inesorabile percorso di formazione del mondo delle vignette verso questo status di disciplina artistica, è avvenuto in un ping pong esclusivo tra Europa e Stati Uniti d’America, in quel reticolo ridotto e decadente che chiamiamo comunemente Occidente Industrializzato. Secondo un miope radicamento tutto quello che proveniva da oltre gli Urali veniva considerato o un incomprensibile enigma o un curioso esotismo. Il fumetto asiatico e i suoi particolarissimi sviluppi non sfuggirono ad un tale atteggiamento di sufficienza. Fumetti giapponesi a parte, di cui in Italia abbiamo avuto sostanziose testimonianze solo con la pubblicazione dei primi esemplari targati Glénat all’inizio degli anni novanta, conosciamo pochissimo se non niente della storia del del racconto sequenziale in quell’area dell’Asia che va dal Pakistan al Giappone, dalla Mongolia all’India, alle isole di Hong Kong e Singapore, al Bangladesh, alle Filippine, alla Cina.
Ma andiamo con ordine. Impossibile computare una storia del fumetto orientale senza tirare subito in ballo il manga, ovvero il fumetto nella sua accezione nipponica. Anche perché “manga” è un termine che è praticamente uguale in Cina, Corea e Giappone, i territori più importanti per nascita e fioritura dei comics del levante. Rispettivamente i termini usati sono manhua, manhwa e, appunto, manga. Ed anche perché il manga ha fatto qualcosa che il Giappone Imperiale con il pallino della Grande Asia Orientale, quello per intenderci della seconda guerra mondiale, non era riuscito a fare: costruire e comporre sinergicamente i differenti paesi dell’Asia per creare una federazione di stati orientali sotto l’egida di una singola bandiera, quella del soft power del manga. Per il paese il cui famelico espansionismo è stato severamente punito con due bombardamenti atomici, riuscire nel suo intento primario, alla fine dei conti, con uno strumento morbido come il fumetto, è qualcosa di doloroso.
Chi ha usato per la prima volta il termine manga è stato Katsushika Hokusai, arcinoto come Hokusai il pazzo, maestro impareggiabile dell’arte giapponese.
Osamu Tezuka, il leggendario senpai di tutti i mangaka (i fumettisti giapponesi) creatore di personaggi indimenticabili come Astroboy o la Principessa Zaffiro, aveva già in qualche maniera compreso le potenzialità della sua professione, quando definì il manga (ed ovviamente di conseguenza il fumetto in generale) “un ponte tra tutte le culture”, evidenziando così il valore politico di quella specialità che da noi spesso viene presa più per un frivolo intrattenimento che per il più incredibile modo di raccontare le storie. La parola manga è composta da due ideogrammi (kanji in Giappone), rispettivamente Man e Ga. Tra i due kanji, Ga è quello che al traduttore crea meno problemi, dato che vuol dire semplicemente “immagine”. Da qui nascono parole come Cinema, che si dice Ei-Ga. È la particella Man il vero cruccio, essendo infatti un termine dagli svariati significati che vanno da “casuale” a “selvaggio”, a “indiscriminato”, a “capriccioso”. Un intreccio che nasconde tutta la potenzialità e l’energia del fumetto giapponese.
Chi ha usato per la prima volta il termine manga è stato Katsushika Hokusai, arcinoto come Hokusai il pazzo. Il maestro impareggiabile dell’arte giapponese ha usato il termine manga per appellare una raccolta di schizzi (casuali? indiscriminati?) che pubblicò nel 1812. Questa pubblicazione, che Hokusai definì come l’opera di “un pennello impazzito” (e perché non selvaggio o capriccioso?) venne pensata principalmente allo scopo di fare soldi: il successo fu talmente clamoroso che ce ne sarebbero stati altri quindici, di questi arguti sketchbook. Tuttavia le cose non sono così semplici dato che il termine manga era stato usato quindici anni prima da Santo Kyoden, blasonato scrittore ed amico dello stesso Hokusai, il quale regolarmente illustrava la sua opera.
È quindi Kyoden il padre del termine manga? Probabilmente, ma lo scrittore, con la parola “manga” intendeva, in un’accezione del tutto originale e personale, disegno comico. È probabile che Hokusai abbia preso in prestito al suo sodale la denominazione man-ga ma che poi l’abbia scientemente applicata a degli schizzi più che a dei disegni comici. Oppure chissà ad Hokusai l’ispirazione è venuta dalla parola cinese mangachuko, che indica una specie di anatra che raccoglieva ogni sorta di cosetta, frugando nei fondali del fiume proprio come Hokusai ha raccolto il maggior numero di soggetti dei suoi volumetti frugando nel panorama del quotidiano.
Paul Gravett, uno dei più affermati esperti del fumetto mondiale, questo casino ha cercato di sbrogliarlo nel 2004 compilando e dando alle stampe il volume Manga: Sixty Years of Japanese Comics. Chi meglio di lui allora, poteva curare una mostra che parlasse proprio del fumetto giapponese e più in generale svelasse tutti i segreti del fumetto orientale? Ed è esattamente come è andata per Mangasia, wonderlands of asian comics, un viaggio a tappe nelle regioni inesplorate del fumetto asiatico.
Nei primi metri dell’esposizione, cesellata con tendaggi rossi nei grandiosi spazi del Palazzo delle Esposizioni di Roma, non potevano mancare alcune aperture dei libretti di Hokusai (pubblicati tra il 1812 e il 1849), che ci rivelano chiaramente come all’epoca i suoi manga fossero più una singola immagine dal gusto bizzarro che una serie di disegni consecutivi uniti a formare una narrazione che mantenesse una coerenza.
Questa coerenza inizia ad emergere qualche anno dopo, nel 1862, grazie ad un espatriato inglese a Yokohama. Qui Charles Wirgman fonda Japan Punch, una testata che paradossalmente sarebbe risultata nociva al manga in sé per sé, ancora in fase embrionale, che sembrava condannato a lasciare il passo al grande successo dei fumetti ponchi-e, ovvero fumetti alla Japan Punch. A riparare in extremis la situazione interviene Rakuten Kitazawa il quale, dopo l’esperienza a Jiji Manga, fonda nel 1905 la rivista a fumetti Tokyo Puck, contribuendo a creare una sicura piattaforma per la diffusione di manga “certificati” in grandissima quantità sul territorio nipponico.
Questa nuova linfa vitale salvò il fumetto territoriale perché: 1) diede spazio ad autori giapponesi; 2) proiettò il fumetto giapponese verso la modernità; 3) permise la nascita e lo sviluppo di un immaginario originale. Trent’anni dopo infatti, il Giappone potrà fregiarsi del suo primo grande eroe mascherato, ovvero il Pipistrello d’Oro (Ogon Batto), da noi conosciuto come Fantaman, smargiasso mezzo morto dallo svolazzante mantello nero e dal corpo dorato. Il suo autore Takeo Nagamatsu lo ideò sotto forma di teatrino di strada – il kamishibai era una specie di teatrino ambulante dei pupi dove al posto dei pupi c’erano grandi stendardi colorati con le effigi dei personaggi e delle loro imprese – e solo in seguito, negli anni quaranta, Osamu Tezuka (ancora lui!), lo avrebbe trasformato in un fumetto da sfogliare.
Il resto dell’Asia non può che riecheggiare ed amplificare quel nuovo segnale che proviene dal Giappone. La qualità di stampa e di produzione è molto inferiore ma non si può dire che manchi l’inventiva. La Corea del Sud segue passo passo lo sviluppo dei fumetti in Giappone e già nel 1945 ha la sua rivista chiamata Manhwa Haengjin, ovvero Sfilata di Fumetti. Nelle Filippine, nel 1950, nascono le storie di Dobol Trobol, in cui i protagonisti sono due gemelli siamesi, e quelle di Darna, supereroina (ovviamente) sexy che tratteggia l’americana Wonder Woman – in entrambi i casi l’autore è Mars Ravelo. In Cina, dopo che il partito comunista ha preso il potere, i fumetti divengono lo strumento ideale della propaganda. E a Taiwan, per tutta risposta, l’accademia militare addestra vignettisti per la creazione di fumetti anti-comunisti. Il Bangladesh scopre il fumetto negli anni cinquanta, così come la Thailandia. Nel 1963 è la volta della Cambogia. Il Bengala vede nascere il suo primo eroe alla fine degli anni settanta. Per la fine degli anni settanta tutta l’Asia è colonizzata dall’idea del racconto sequenziale. Poi nel 1990 in Cina sbarca, seppur in una versione taroccata, I Cavalieri dello Zodiaco del giapponese Masami Kurumada, che non lascia scampo e sbanca le edicole più e più volte. Da quel momento il Giappone diventa il capofila di un mercato multiforme ed assolutamente originale, che può rivaleggiare tranquillamente con i campioni dell’Occidente.
Sono i gusti, lo stile, le tematiche l’aspetto che veramente colpisce e lascia senza fiato delle storie a fumetti dell’Asia. Come se non fosse cambiato molto da quanto riportato ne Il Milione di Marco Polo, dove l’Oriente era covo di meraviglie e barbarie, ci perviene un arcipelago di fumetti tutto costellato di perle di raro fascino o di innegabile brutalità.
In Giappone l’autore di successo, il mangaka, può creare una scuola, un filone artistico, una bottega come un Bernini.
E se Marco Polo ha viaggiato verso Oriente, esplorandolo ed inventandolo, il Viaggio in Occidente del monaco Sanzang è uno dei miti letterari del levante nonché la produzione più riletta, rimaneggiata, rivisitata nella storia del racconto sequenziale asiatico. Gli eventi di questa epopea ruotano attorno alla peregrinazione di un monaco, il cui viaggio presto prende la forma di una quest impareggiabile per inventiva e senso dell’avventura. Il vero protagonista non è però il monaco Sanzang ma bensì il fortissimo scimmiotto Son Goku, il quale armato di asta telescopica e irriverenza da primate, diventerà il fedele discepolo del santo viaggiatore. Il lungo viaggio dalla Cina all’India si articola in 100 capitoli. In Cina, già negli anni ottanta, per ciascun episodio esisteva un lianhuanhan, che altro non è che un libretto tascabile dalla coloratissima copertina. All’interno domina la forbitezza, per ogni pagina c’è un’illustrazione in bianco e nero e uno stralcio di testo che racconta la storia. Il Giappone, sempre in allerta, non poteva non metterci le zampe sopra e, per dirne una, la storia dello Scimmiotto è all’origine di un best seller a fumetti come Dragon Ball di Akira Toryama. Da allora sono nate tante di quelle versioni che potremmo paragonare Viaggio in Occidente a quei super classici occidentali, eterni proteiformi, come per esempio Amleto o Dracula, che non finiscono mai di fornire il canovaccio per storie, ambientazioni e riflessioni sempre diverse.
La leggenda cinese di Son Goku ha il suo contraltare nel folklore del Giappone, particolarmente orrido. Un micro universo composto praticamente solo da spettri. Otto milioni di spiriti di cui fanno parte gli yokai, strana progenie che vive in mezzo agli esseri umani ma perennemente nascosta. Fonte primaria di questa vision del mondo è il tomo Tono Monogatari, compendio di storie del remoto villaggio di Tono, raccolte dall’etnologo Kunio Yanagita, che potremmo immaginare come un mix tra Alan Lomax e Ernesto De Martino. Questa raccolta è alla base del manga del 1959 Kitaro dei Cimiteri, nel quale un bambino spettro di 350 anni affronta una sequela di peripezie che lo porteranno a scoprire ogni volta nuovi mostri e nuove creature misteriose in uno squadernamento completo del folklore giapponese. Simile a Kitaro è Hell Baby (lo ha firmato nel 2007 Hideishi Hino), storia di un bambino zombie che unisce tematiche cimiteriali ad un tratto morbido e grottescamente infantile. Un capolavoro formidabile, una scheggia lucidissima di follia che perfora il cervello del lettore ad ogni pagina.
In Thailandia l’horror è strettamente collegato alla diffusione del fumetto. Negli anni sessanta l’impatto di questi albi cartastraccia dall’estetica terrorizzante combinato col prezzo di un solo baht (tre centesimi per un occidentale), contribuì alla “fumettizzazione” del paese. Le copertine da brivido, violente, macabre, gli accenni sensuali di certi titoli attraevano l’interesse dei primi lettori e ricordano vagamente le gloriose produzioni italiana di ultima fascia come Terror e Oltretomba. Protagonisti non erano gli yokai giapponesi ma le loro versioni della tradizione thailandese. Gli editori dei komiks filippini scelsero la stessa strategia per diffondere il fumetto sul territori. Qui il folklore locale è affiancato a certe strane deformazioni che derivano dalla durissima dominazione spagnola come i tikbalang, uomini cavallo che andavano in giro di notte a violentare le donne filippine. Mangasia è una mostra che affianca le maschere sorridenti di Doraemon o gli occhioni scintillanti di disperate pallavoliste a questi capolavori di spregevole orrore.
I testi sacri della cultura indù, sono un pozzo di San Patrizio da cui tirar fuori sempre nuovi temi per arricchire la produzione del fumetto e così il Mahabharata e il Ramayana diventano dinamicissime fonti di storie e personaggi. In India ed in Indonesia Krishna, uno degli avatar del dio Visnu, diventa il protagonista di numerose avventure, un mistico super eroe dalla pelle blu che è baluardo imbattibile e al contempo esempio per tutti i lettori.
Mangasia diventa anche un’occasione più unica che rara per godere con i propri occhi dei gioielli dell’arte kaavad, che crea libri che si aprono e si dipanano come teatrini. Siamo davanti a manufatti che niente hanno a che fare con la carta ma che sono strettamente imparentati con il racconto sequenziale. Questi volumi lignei, che si aprono e squadernano, sono dotati di pannelli dove la storia è raffigurata per mezzo di vignette prive di balloon, le vicende sono infatti raccontate a voce da un sutradhaar, un narratore che sfrutta scompartimenti e cassetti segreti che nascondono colpi di scena per mettere in scena interventi divini. L’estremo maestro di questa raffinatissima carpenteria pazientemente realizzate a mano, è Mangilal Mistri. Ciascun volume può racchiudere (è il caso di dirlo) la storia di Buddha, di Gandhi, ma anche le istruzioni per chiedere un microcredito in una banca etica. Non esattamente un fumetto, ma appunto un’escursione visionaria nel mondo del racconto per immagini.
Grazie alla sezione più istruttiva della mostra scopriamo cosa vuol dire essere un mangaka di successo. Una figura venerata dalla schiera dei fan, da cui viene visto come un individuo che lavora con ardore e sacrificio alla sua professione ed è rispettato dai suoi colleghi per aver raggiunto il traguardo del realizzato senpai. In Giappone, il mangaka può creare una scuola, un filone artistico, può creare una bottega proprio come un Bernini, può affidare il suo personaggio di successo a una pletora di assistenti che gli smaltiscono il lavoro pesante. Gli strumenti, gli indumenti, le tavole originali del realizzatore di fumetti in Giappone sono appannaggio di musei e fondazioni. Dall’immaginario che ha ideato una singola mente creatrice possono nascere giganteschi parchi giochi che danno lavoro a centinaia di persone. Per contro il fumettista di successo in Giappone è legato, se non incatenato, al suo fumetto di punta. Osamu Tezuka per esempio, si era guadagnato grazie ai suoi successi il titolo di “Dio del manga”. Questo maestro dei maestri è morto a sessant’anni, all’apice della carriera ed ancora estremamente produttivo, esaurendosi fino all’ultimo spasmo.
Tezuka produceva i suoi manga in un appartamento di cui solo lui aveva le chiavi e in cui solo lui e la moglie potevano entrare. I suoi assistenti lavoravano pochissimo, giacché il maestro voleva ripassare personalmente le linee dei movimenti e gli omosen, ovvero le espressioni dei personaggi, elementi nel quale probabilmente risiedeva la quintessenza del suo stile. Questo atteggiamento che per i giapponesi è attaccamento al lavoro, mentre per noi occidentali si chiamerebbe stress da super lavoro, nel tempo ha sfiancato il mitologico il dio del manga. “Lavoriamo come bestie. Quarant’anni passati così… bisogna essere degli idioti. È una vita durissima”, sono parole di Tezuka. E anche queste lo sono: “Vorrei sentirmi meglio, così potrei continuare a disegnare per altri quarant’anni. Ho un sacco di idee, così tante che le potrei quasi cedere gratis”. Queste due affermazioni, misteriosamente, nipponicamente contigue tra loro, rendono bene lo spirito non solo di uno dei più venerati mangaka che siano mai vissuti ma, a mio avviso, anche quello dell’ultimo degli esordienti.
È interessante il metodo con cui in Giappone si recuperano nuove leve per il mercato del manga. Le riviste specializzate in fumetti per ragazzi (shonen manga) e per ragazze (shojo manga) indicono veri e proprio concorsi per spingere i propri lettori a diventare autori della rivista stessa, in un continuo ciclo di assimilazione e trasformazione degli utenti, da fruitori a creatori dei contenuti. I premi in palio possono essere consigli su come migliorare oppure corsi di perfezionamento più o meno costosi. Alla fine se si riesce ad essere abbastanza bravi si può vincere il riconoscimento di Premio Nuovo Arrivato e vedere il proprio lavoro pubblicato. Il punto di arrivo si trasforma presto in una nuovo punto di partenza, dato che il principiante comincia così la faticosissima scalata per diventare autore di una serie pubblicata su riviste a tiratura nazionale. Questo percorso, che da noi in Italia spesso è una sequela di accidenti, in Giappone è schematizzato in maniera precisissima. Se non si superano certi numeri non si aprono, direi sbloccano, determinati accessi. Spesso molti autori promettenti si perdono nelle riviste di seconda e terza classe senza mai raggiungere il vero e proprio successo.
La stragrande maggioranza dei mangaka fa la fame (lo stipendio medio di un autore è pari a quello di un commesso part-time), e solo un esiguo numero di determinatissimi fortunati riesce ad accedere alle stanze del successo e a vivere degnamente della sua sudata attività. Nel 2012 è uscito La Miseria dei Manga di Shuho Sato, fumetto nel quale la vita del mangaka è descritta con coraggio, dove capiamo che si tratta tutt’altro di un’esistenza da romantico bohémien, dato che fin dall’inizio bisogna affrontare investimenti, sostenere spese di gestione e contrattualizzare una piccola schiera di assistenti per sostenere i ritmi di produzione. Se gli episodi di un fumetto dell’esordiente, raccolto in specifici tankobon, non riescono a superare il concretissimo traguardo di diecimila yen di incasso, i proventi dalla pubblicazione sono talmente bassi che non permettono agli autori di rientrare nelle spese e quindi diventa difficile continuare senza intaccare le proprie risorse personali.
Anche nell’accuratissima area vietata ai minori della sezione Censura e Sensibilità si apprendono molte cose interessanti. Dietro una tenda da peep show troviamo grandi bacheche che contengono una vasta documentazione dedicata alle più estreme visioni dei fumettisti giapponesi e di altri paesi. Tra sorridenti sacerdotesse del piacere, capezzoli iperreali, cetrioli di mare che nascondono donzelle promiscue, cervelli penetrati tramite vagine applicate sulla nuca, smembramenti vari conditi da pioggia di sangue, attrae l’attenzione del visitatore una favolosa ukiyo-e (letteralmente “immagine dal mondo flottante”, giapponesissimo prodromo del manga) che rappresenta l’omicidio di una nobildonna da parte di un spietato ladro mascherato. Dal collo della bella damigella, immobilizzata dal suo brutalizzatore in una posa maliziosamente erotica, sprizza un rosso fiume di sangue. L’effetto morboso è assicurato, e si rimane a sostenere la scena per molto tempo, per goderne i dettagli. Il lato oscuro e macabro del fumetto giapponese, reso esplicito da lavori come Midori, la Ragazza delle Camelie di Suehiro Maruo, manga datato 2003 dalla rutilante carica violenta che non risparmia niente al lettore, ha qui il suo antenato.
Quanti tipi di manga esistono? È lecito chiederselo (probabilmente se lo è chiesto anche Paul Gravett), mentre, circondati da così tanti input, ci si avvia alla fine di questa lunga promenade di quasi tre ore. Ed è lecito pensare che i generi di manga siano davvero innumerevoli come innumerevoli sono le sfumature con cui i loro autori riescono a rendere indimenticabile il racconto degli scarni stereotipi che offrono i generi. Troviamo l’eroico fumetto di guerra (kamikaze che si fanno a pezzi sulle portaerei americane), il fumetto dedicato ai disabili (giocatori di basket su carrozzelle), il fumetto horror, quello di fantascienza, quello dedicato al medioevo del Giappone (ah le grandi dinastie del passato!), il fumetto per ragazzi (il più delle volte si tratta di cazzotti), il fumetto per ragazze (il più delle volte si tratta di storie d’amore), il fumetto in cui le ragazze amano altre ragazze, il fumetto in cui i ragazzi amano altri ragazzi, il fumetto di ragazze che amano altre ragazze fatto per ragazzi e il fumetto di ragazzi che amano altri ragazzi fatto per ragazze. E via discorrendo.
L’esperienza di questa mostra è necessaria per comprendere da dove viene e dove sta andando il fumetto (non solo quello orientale) nel mondo. Scrivendo questo articolo mi sono sentito microscopico. Abbracciare in 20.000 battute spazi inclusi la vastità dell’indagine di questa mostra è un’impresa quasi impossibile, come era impossibile, sulla carta, inscatolare tutta la realtà del fumetto dell’Asia dentro una singola esposizione. Mangasia però riesce a farcela, sotto la guida di un accanitissimo Paul Gravett, che ha scelto accuratamente cosa tenere in primo e cosa tenere in secondo piano, senza mai sacrificare lo stupore del visitatore.
Illustrazione e tributo di Gio Pistone.