L’
albero genealogico dell’umanità è più simile a un cespuglio che a una pianta ad alto fusto. Ogni anno, nuove scoperte nel campo della paleoantropologia portano alla luce fossili e reperti che arricchiscono le nostre conoscenze sull’arco di tempo, durato all’incirca sei milioni di anni, in cui, parafrasando l’antropologo Ian Tattersall, sono esistiti e hanno convissuto numerosi modi di essere umani. La nostra storia, più o meno profonda che sia, è ricca e intricata. Spesso non è possibile ricostruirla con esattezza, proprio a causa della complessità delle ramificazioni e delle incertezze su snodi e parentele. È difficile individuare un filo evolutivo che colleghi fra loro forme antiche e moderne in un racconto fluido e completo dell’evoluzione umana. Per questo il quadro è appassionante e istruttivo: essendo il cespuglio una rappresentazione che comunica immagini composite, un’occhiata alla storia delle nostre origini fuga ogni ipotesi che contempli concezioni finalistiche sull’evoluzione delle specie.
A molte domande non è ancora possibile rispondere con esattezza. Quanto è antico il genere Homo? In quale regione africana ebbe origine? Quali specie che mantennero caratteri arcaici sopravvissero fino a “tempi recenti”? Il periodo di transizione che vide la progressiva scomparsa delle australopitecine e dei parantropi e l’affermarsi del genere Homo è un affascinante mosaico da ricostruire. Ricerche recenti hanno restituito fossili e resti di industrie litiche che rendono il quadro ancor più complesso: è il caso di Australopithecus sediba, di Homo naledi e del “modo Lomekwiano”. L’alba del genere Homo, se così possiamo definire un momento della storia dell’evoluzione umana che ha inizio con il Pleistocene almeno 2,6 milioni di anni fa (ma che forse si spinge ancor più indietro nel tempo), fu in principio una questione puramente africana e, nel complesso, portò all’evoluzione di almeno dodici specie, Homo sapiens compreso.
Per raccontare quel che successe in Africa al principio della storia del nostro genere, Il Tascabile ha intervistato il paleoantropologo Giorgio Manzi, autore del recente saggio Ultime notizie sull’evoluzione umana (Il Mulino) e Telmo Pievani filosofo della scienza, storico della biologia e scrittore.
Tentiamo, come prima mossa, di identificare temporalmente il periodo di cui stiamo parlando. Rispetto alle stime precedenti, alcune evidenze fossili (i ritrovamenti del 2015 nella regione dell’Afar, in Etiopia) sembrano anticipare l’alba del genere Homo a un periodo che si avvicina più ai 3 milioni di anni fa che alla soglia d’inizio del Pleistocene (circa 2,6 milioni da oggi). Apparteniamo forse a un genere più antico di quanto credessimo fino a ora?
Giorgio Manzi: Le nostre conoscenze sull’evoluzione umana sono in continua… evoluzione e non c’è da stupirsi se arretriamo sempre più nel tempo profondo. Tuttavia, bisogna intendersi su cosa sia il genere Homo: vi sono infatti alcune caratteristiche morfologiche – e, più in generale, biologiche – che avvicinano i primi rappresentanti del genere Homo alla varietà di scimmie antropomorfe bipedi dalle quali deriviamo, mentre ve ne sono altre, come la produzione di manufatti in pietra, che anticipano un comportamento tipicamente umano. Ma i primi “toolmaker”, al di là della loro antichità, erano davvero già Homo?
Fino ad almeno 2 milioni di anni fa l’evoluzione umana è una questione puramente africana.
Telmo Pievani: Esatto, per due terzi del suo intero arco temporale l’evoluzione umana si è svolta esclusivamente in Africa, principalmente in due aree critiche: l’Africa orientale (dalla Dancalia scendendo lungo Etiopia, Kenya e Tanzania attuali) e l’Africa meridionale. Tanto che al momento non sappiamo se il genere Homo sia nato nella culla africana centro-orientale o in quella meridionale. È possibile poi che già anticamente piccoli gruppi di Homo si siano spinti più a occidente lungo la fascia sub-sahariana e più a nord verso il Mediterraneo. Si muovevano nei paesaggi frammentati di savana, macchie di foresta e praterie erbose, lungo i corsi d’acqua. Ma i cambiamenti climatici iniziati con il Pleistocene li porteranno presto a estendere il loro areale di distribuzione anche fuori dal continente africano.
Rispetto alle specie più arcaiche (australopitecine e parantropi), con alcune delle quali comunque convissero, gli “early Homo” iniziarono a occupare nicchie ecologiche differenti.
Telmo Pievani: Nelle prime fasi ci furono l’acquisizione di una postura eretta completa e obbligata, senza più i compromessi locomotori “ibridi” che ancora notiamo nelle australopitecine, e un modesto incremento nell’encefalizzazione. Sicuramente maneggiavano strumenti di pietra in modo sistematico e non occasionale, spostandosi efficacemente sul territorio. Rubavano carne e midollo alle carcasse di animali abbattuti da predatori ben più abili di loro, contendendoli ad altri spazzini come iene e avvoltoi. Per il resto adottavano una dieta frugivora e vegetale, ma ben presto qualcosa cambierà, con l’avvento del fuoco e della cottura. Diciamo che agli inizi la nostra evoluzione fu una questione di buoni piedi. Per l’Africa cominciò ad aggirarsi un ominide bipede, slanciato, mobile e flessibile.
Quali specie possiamo definire come “early Homo”?
Giorgio Manzi: I cosiddetti “early Homo” sono riferibili a più di una specie, in base alle correnti ipotesi di lavoro di noi paleoantropologi, ma enunciare nomi in latino serve relativamente a poco e rischia di confondere le idee. Ciò che conta è che intorno a due milioni di anni fa (a partire da almeno 2,6) si sviluppò una varietà di ominidi bipedi che iniziarono il percorso che ha poi portato fino a noi. Quale sia la varietà di Australopithecus che va collocata all’origine del nostro genere non è ancora facile a dirsi, ma ritengo assai più probabile che l’antenato vada cercato in Africa orientale, ma il Sudafrica non è poi così distante.
Tenendo presente che la comparsa del genere Homo fu complessa, ramificata e comprensiva di tentativi “falliti”, ha ancora senso oggi parlare di “rivoluzione paleolitica”?
Telmo Pievani: La rivoluzione paleolitica fu molto più recente e riguardò, nelle forme di Homo più tarde come noi, l’acquisizione dell’intelligenza simbolica moderna. In realtà non fu nemmeno una “rivoluzione”, ma una transizione complessa, portata avanti peraltro da una molteplicità di specie e non da una soltanto. Mi pare interessante questa evidenza secondo cui i maggiori adattamenti tipici del nostro gruppo si siano realizzati sempre attraverso sperimentazioni plurali, “a mosaico”, e non grazie a singole specie innovatrici in marcia verso il progresso una dietro l’altra, fino al culmine in Homo sapiens. Fu tutto molto più complesso e intricato.
Nuove scoperte rendono l’albero evolutivo degli ominini sempre più ricco e la sua storia più complessa. I fossili rinvenuti nel sistema carsico sudafricano di Rising Star nel 2015 – appartenenti a una nuova specie, Homo naledi, caratterizzata da una mescolanza di tratti arcaici e moderni – hanno ricevuto una sorprendente datazione; che cosa ci racconta dell’evoluzione del genere Homo il caso di H. naledi?
Giorgio Manzi: Ritengo che i fossili attribuiti nel 2015 alla nuova specie Homo naledi siano uno straordinario esempio di evoluzione “a mosaico” nella quale si combinano caratteri di Australopithecus e di Homo, alcuni anche piuttosto derivati. Da questo punto di vista, si sarebbe potuto pensare a una datazione di Homo naledi prossima a 1,5 milioni di anni fa, ma la sorprendente cronologia che è stata recentemente attribuita a quei resti (circa 300.000 anni fa), ci suggerisce una qualche forma di “attardamento evolutivo”, ovvero la sopravvivenza di una forma umana arcaica nel tardo Pleistocene Medio, quando nuove varietà del genere Homo si erano ormai da tempo affermate e diffuse.
Altre scoperte del 2015, sulle sponde del lago Turkana, in Kenya, retrodatano di circa 700.000 anni l’apparizione della prima industria litica, fissandola a 3,3 milioni di anni fa. Che cosa sappiamo oggi di questi ancestrali toolmaker e del nuovo “modo” proposto dai loro scopritori, il Lomekwiano?
Telmo Pievani: Capiamo che prima della Storia ufficiale c’erano tante altre piccole storie con la minuscola! Nel senso che la capacità di produrre strumenti di pietra (e chissà quali altri di osso e di legno che non si sono fossilizzati) era evidentemente già appannaggio di specie pre-Homo, che magari li hanno realizzati sporadicamente, in alcuni gruppi e non in altri. O magari quegli innovatori si sono poi estinti portandosi dietro le loro invenzioni, anche perché il Lomekwiano non sembra molto imparentato con il Modo 1 dei primi Homo. Nel cespuglio degli ominini ci sono stati molti tentativi ed errori, e chissà quanti altri esperimenti falliti sono nascosti nei sedimenti. L’unica ipotesi alternativa è che il genere Homo sia nato già ben prima di 3 milioni di anni fa, ma è alquanto improbabile perché dovremmo trovarne anche tracce paleontologiche.
Ormai praticamente ogni anno dobbiamo riscrivere il nostro scenario evolutivo a causa di qualche nuova scoperta.
Giorgio Manzi: Sì, quello della paleoantropologia è un campo davvero molto dinamico. Questa scienza gode ormai di grandi potenzialità, che vengono garantite da una varietà di competenze, spesso di eccellenza, in diversi campi disciplinari, che si combinano con nuovi e potenti strumenti di analisi e di studio. Da tutto ciò deriva la frequente comparsa di notizie sull’evoluzione umana, pubblicate sulle più importanti riviste scientifiche interdisciplinari e diffuse da giornali e siti web. Ne consegue che negli ultimi decenni sia aumentata in modo straordinario la nostra capacità di comprendere le nostre origini, la nostra evoluzione e il nostro posto nella natura. Può servire anche questo per aiutarci a gestire al meglio il ruolo che ormai ci è proprio di dominatori (incontrastati) del pianeta?
Quali sono gli errori più ricorrenti che si fanno nella divulgazione e nell’insegnamento dell’evoluzione umana?
Telmo Pievani: L’errore principale è insegnare l’evoluzione come se fosse un progresso lineare, un’avventura eroica che doveva portare necessariamente a noi. Si è trattato invece di un lungo processo condizionato da innumerevoli contingenze storiche e ambientali. Un altro errore secondo me è quello di dimenticare la geografia: l’evoluzione si snoda nel tempo, d’accordo, ma è anche un fenomeno che interessa lo spostamento fisico di popolazioni nello spazio ecologico e geografico del pianeta. Spazio e tempo, insieme.