“D a Oriente a Occidente in ogni punto è divisione”. Ivo Andrić esitò un momento, poi con chiara grafia scrisse in italiano questa citazione del Codice atlantico di Leonardo da Vinci come dedica sul frontespizio di un suo romanzo per l’allora giovane studente, e in seguito noto intellettuale e letterato italo-croato, Predrag Matvejevic. Di lì a poco, nel 1961, lo scrittore bosniaco avrebbe vinto il premio Nobel per la letteratura.
Andrić è noto come cantore della multiculturalità per Il ponte sulla Drina, dove racconta la convivenza secolare di musulmani, ortodossi e cattolici nella Bosnia della dominazione ottomana dal 1500 fino alla Prima Guerra Mondiale. “L’uomo multiculturale costruirà il mondo” è inciso sul piedistallo di una statua nel centro della capitale bosniaca, Sarajevo. Se il buon auspicio si riferisce a un uomo generico, non è difficile immaginarsi Andrić scolpito lì nel bronzo. Il ponte sulla Drina è stato scritto durante la Seconda Guerra Mondiale mentre l’autore viveva in un appartamento modesto del centro di Belgrado in isolamento totale, immerso nel lavoro letterario. Viene considerato, a una interpretazione di superficie, il racconto di una serie di vicende storiche che hanno portato in via diretta allo scoppio del conflitto fratricida nella ex Jugoslavia degli anni Novanta, e letto quasi esclusivamente come un’epica regionale balcanica.
Il romanzo si svolge tutto nella verde cittadina di Višegrad, lungo il fiume Drina, che oggi segna il confine fra Bosnia e Serbia. Qui Andrić ha trascorso l’infanzia, affidato dalla madre, rimasta vedova e troppo povera per accudire un figlio, agli zii paterni. La città era abitata all’epoca da uomini di tutte le etnie e religioni e nota per il suo ponte, massiccio e lunghissimo, dalle undici arcate. Il racconto del Nobel bosniaco si muove attorno a questa architettura. Un dignitario di alto rango dell’Impero Ottomano, Mehmed Pascià Sokolovi, decise di costruire il ponte verso la metà del 15° secolo: quando aveva dieci anni, il futuro funzionario era stato rapito dalla sua casa in Bosnia e portato a Istanbul per essere educato alla corte del sultano. Di questa tragica pratica storica chiamata devscirme, allora molto comune, Andrić descrive il lato umano. Arrivato alla vecchiaia, Sokolovi continuava a provare un senso di fastidio, una striscia nera che gli attraversava il petto quando ripensava al suo passato. Ansia mista a depressione:
In uno di quei momenti gli venne di pensare che avrebbe potuto liberarsi da quel fastidio se avesse cancellato il traghetto sulla lontana Drina, sul quale si ammucchiavano e si depositavano ininterrottamente miserie e disgrazie di ogni specie, gettando un ponte fra le sponde scoscese e sulla cattiva acqua che scorreva in mezzo a esse, congiungendo i due capi della strada là interrotta, e legando in tal modo per sempre e saldamente la Bosnia con l’Oriente, il luogo della sua origine coi luoghi della sua vita.
Proprio sulle rive del fiume, il pascià si era separato per sempre da sua madre. Il ponte sulla Drina continua poi fra visir, principi orientali, frati cattolici, ufficiali turchi e austriaci, mercanti ebrei che vivono accanto al ponte in una ordinaria armonia. Con qualche scontro: quando un operaio cristiano si ribella alla costruzione del ponte, viene condannato all’impalamento. Trenta pagine sono dedicate al racconto di questo metodo di punizione usato dai turchi, che uccide lentamente senza danneggiare gli organi vitali. “L’uomo era stato infilzato al palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, e non era stato leso in modo grave né all’intestino, né al cuore, né ai polmoni”, scrive Andrić. Dettagli che non sfociano nel truculento ma rendono l’idea delle crudeltà talvolta applicate nei rapporti fra le etnie.
Nonostante episodi del genere, il romanzo restituisce l’idea di un’epica tutto sommato positiva. Se non si può parlare di melting pot di sicuro si può definire coesistenza quella delle tre religioni durante i cinquecento anni di dominio ottomano. Il ponte sulla Drina non è di nessuna delle etnie e quando persone di origine e credo diverso si incontrano passando da una parte all’altra abbandonano ogni rivalità; è un posto dove tutti si fermano a discutere o a contemplare il fiume è la “porta”, la parte centrale dell’architettura, più larga, dove c’è una specie di salotto in pietra su cui sedersi. I cittadini di Višegrad sono fratelli perché hanno condiviso la stessa storia, provato le stesse gioie e sofferenze. Quello che unisce degli individui va oltre le ideologie, sembra dire Andrić.
Della contrapposizione ormai di senso comune tra ponti e muri, Andrić è forse il primo creatore, il pensatore per antonomasia. Molti dei suoi racconti minori celebrano il ponte, innanzitutto nella sua fisicità. Lo scrittore bosniaco descrive di frequente i grandi ponti di pietra, erosi dal vento e dalla pioggia, quelli sottili di ferro percorsi dai treni, le travi di legno montate l’una accanto all’altra per assicurare l’ingresso nei piccoli paesi di montagna. Descrive con amore persino l’erba che cresce nelle loro fessure, fra le arcate. Quella del ponte per lui non è solo una metafora: senza il ponte le civiltà non si sarebbero mai mischiate, i vicini di stanza sarebbero sempre rimasti separati dalle acque dei fiumi.
Così, ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi…
Il pensiero di Ivo Andrić è in realtà più ambiguo e tormentato di quello che sembra da questa citazione. Tutt’altro che una celebrazione entusiastica del “viviamo qui insieme tutti e due”. Mettere a stretto contatto persone diverse è stimolante e può funzionare, ma l’armonia non è facile, e Andrić lo sa bene. È diviso, incerto e pieno di domande senza risposta. Nella sua vita ha santificato il dubbio e l’indecisione come fonti di saggezza, influenzato dalla filosofia di Søren Kierkegaard. Lesse le opere del filosofo danese mentre era imprigionato dagli austriaci per la sua attività sovversiva nei confronti dell’Impero, e quel pensiero gli fu di grande ispirazione.
Grande è il mondo, il fardello e il tedio. È notte
Fonda. L’uomo è solo
Si legge in una delle Poesie scelte a cura di Stevka Šmitran. Da Kierkegaard Andrić raccolse i temi dell’ansia come esperienza centrale della vita e la malinconia che nasce da un’immaginazione capace di vedere con chiarezza la disparità fra reale e possibile. Da lui fu illuminato sull’importanza della solitudine nel processo di scoperta delle verità sull’esistenza umana e prese l’assunto, sostanziale per i suoi romanzi, secondo cui le condizioni di vita sono fondamentalmente le stesse per gli uomini di tutte le età e i luoghi del mondo.
Di Ivo Andrić sappiamo poco: non scriveva mai di sé, per salvaguardare “l’importante e grave funzione dell’oblio”, indispensabile per la sopravvivenza di ogni uomo e per la sua salute psichica. Per origini e per scelta, Andrić non si ritiene né serbo, né croato, né musulmano. Nato nella Bosnia a maggioranza musulmana, ha avuto un’educazione croata e cattolica e ha lavorato a lungo a Belgrado. Si schiera a volte verso una parte, a volte verso un’altra, a seconda dell’età della storia che attraversa. Scrive nei Racconti di Bosnia:
Nessuno può immaginare che cosa significhi nascere e vivere al confine fra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter fare nulla per riavvicinarli, amarli entrambi e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa ovunque e rimanere estraneo a tutti, in una parola, vivere crocifisso ed essere carnefice e vittima nello stesso tempo.
Frase che richiama le appartenenze frammentarie e le identità migranti del nostro mondo. Andrić visse un periodo in cui le radici delle persone erano messe di continuo in discussione, dalla violenza, dall’aggressività delle Nazioni. Passò due guerre mondiali e il totalitarismo. Negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, come scrittore-militante, partecipò al movimento Giovane Bosnia, legato all’organizzazione dell’attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo. Lo fece in nome della liberazione degli slavi del sud dall’oppressione degli Imperi e non in base a un presunto nazionalismo serbo che talvolta gli viene attribuito dai critici provenienti della ex Jugoslavia. Divenne poi un diplomatico irrequieto e fece una brillante carriera negli affari esteri, una vita sempre in movimento da una città all’altra. Studiò fra Vienna, Cracovia e Graz. Prestò servizio a Roma, Budapest, Berlino, Madrid, Ginevra.
Ogni volta era lui a chiedere di cambiare destinazione, spinto dalla tubercolosi che lo portava a cercare climi miti e non troppo umidi, o dalle circostanze storiche che lo allontanarono dal nazismo. Le sue inquietudini (Nemiri “inquietudini” è proprio il titolo di una sua raccolta in versi) ricordano quelle di un personaggio del suo La corte del diavolo, dilaniato da una piaga sul fianco sinistro che si apriva e richiudeva varie volte durante l’anno e che lo portava a camminare piegato in due. Tahir-Bey era il braccio destro e la penna del Visir, letterato e con una forza d’animo non comune. Forse proprio per questo era destinato a essere straziato da una ferita senza guarigione.
Secondo Božidar Stanišić, poeta e traduttore bosniaco, la sua Lettera del 1920 è uno dei racconti più strumentalizzati della letteratura mondiale. In questo breve testo, il solitario Andrić descrive la Bosnia come terra dell’odio: dietro il suono delle campane che si mischia alla chiamata del muezzin tipico di una città come Sarajevo, lo scrittore intravede, in una lettura d’improvviso intimista e psicologica, l’odio di persone che non vogliono più vivere l’una accanto all’altra. “Questa differenza, talvolta visibilmente e apertamente, talvolta in maniera sotterranea e subdola, è sempre simile all’odio, col quale spesso si identifica”, scrive e continua:
Io so che l’odio come l’ira hanno la loro funzione nello sviluppo della società, perché l’odio dà la forza e l’ira sprona al mutamento. […] Ma ciò che ho visto in Bosnia è un’altra cosa: è l’odio che nasce come forza autonoma, che trova in se stesso il proprio fine. L’odio che fa scontrare l’uomo contro il proprio simile e che poi rigetta entrambi nella miseria e nella disgrazia poiché tale odio è solo l’arma dell’istinto di devastazione e di autodistruzione.
Andrić non giudica questo odio, si limita a constatarlo senza nessun intento moralistico. È un potere irrazionale, una malattia pericolosa; si tratta per lui di capirlo, definirlo e analizzarlo. È convinto che il primo passo per rendere possibile la convivenza interetnica sia ammettere che è difficile e problematica. Il racconto comincia con due amici originari di Sarajevo che, in una notte di marzo del 1920, si incontrano alla stazione di Slavonski Brod. Uno dei due, Max, nato in città da padre austriaco e madre triestina, ha deciso di andarsene e di lasciare per sempre la Bosnia. L’altro gli chiede da cosa stia fuggendo e Max, prima di prendere la valigia e sparire fra la folla, risponde “dall’odio”. Venti giorni dopo, il protagonista riceve una lettera dall’amico che prova a spiegargli meglio i motivi della sua scelta. La Bosnia è un Paese dai forti valori morali, dalle ricchezze inaspettate ma insieme a questi sentimenti profondi si consumano gli uragani dell’odio che potrebbero scoppiare in ogni momento.
L’amico Max fugge dalle sue origini e muore combattendo come volontario nella Guerra Civile spagnola. “Così finì la vita dell’uomo che era fuggito all’odio”, conclude il racconto Andrić. Terra dell’odio non è solo la Bosnia, insomma: l’odio si contagia in Spagna e poi in tutta Europa con la Seconda Guerra Mondiale fino alla Guerra Fredda e alla contemporaneità. Proprio al momento dell’attribuzione del Nobel per la letteratura, Andrić ha sottolineato l’importanza dello “spirito a cui si ispira un racconto”, per cui è poco rilevante se un narratore “descriva il presente o il passato o si libri audacemente nel futuro”. Nella sua Bosnia si trova una parabola delle contraddizioni del mondo postmoderno. Da una zona provinciale dell’Europa, da un’epoca giocata sotto la solidità del dominio imperiale, Andrić parla alle diaspore, a chi si sposta, alla globalizzazione dell’immigrazione e del lavoro. All’uomo al di là del tempo e dello spazio in cui le vicende sono circoscritte.
Critici francesi hanno definito Ivo Andrić il Tolstoj jugoslavo. Autore di due opere, Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik, che possono essere classificate come “romanzo storico”, lo scrittore rifiuta di appartenere agli schemi narrativi classici del genere per preferire la definizione di romanzo della storia. Unito a un che di favola orientale in stile Le mille e una notte, che traspare fra i caffè, le pipe e i continui termini turchi usati nella narrazione. Andrić mischia di continuo aspetti societari e psicologia degli individui e sposta costantemente l’attenzione dalla realtà interna a quella esterna. Nei suoi libri, la storia si fa nelle piccole storie, come quella dell’incipit di La cronaca di Travnik:
In fondo al mercato di Travnik, sotto la sorgente fresca e gorgogliante del fiume Šumeć, è sempre esistito, da che mondo è mondo, il piccolo Caffè di Lutvo. Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo, il suo proprietario; da almeno cento anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio.