S iamo un paese in emergenza, da qualsiasi punto di vista lo si osservi. Un’Italia da cui scappano volentieri gli italiani e quelli che ci sono passano sopra gli ostacoli, come quando ai grandi concerti si compie lo slalom tra gli accampati, cercando di raggiungere un’oasi di pace da cui poter partecipare a qualcosa di meglio, più in là. Un paese che pensa di imparare qualcosa guardando programmi televisivi come Le Iene o Striscia la Notizia, e che da quei programmi pretende ascolto, conforto, addirittura giustizia. A volte sicuro di riceverla, testimoniando quindi un cortocircuito rovinoso e diseducativo.
Un paese senza, diceva Arbasino. Senza cosa? Senza niente. Volevamo tutto, Nanni Balestrini? Abbiamo niente. Immerso tuttora in uno spirito vittimistico e furbesco, cafone e malandrino, tale e quale a una canzone di Toto Cutugno. Il vero manifesto italiano è diventato il rimpianto per quando si era peggiori. Eppure probabilmente contenti, perché il vestito era quello giusto. Dalla recente storia e delle recenti storie raccogliamo i trofei o le rovine. Riemergono come fantasmi alcuni rimpianti, come statue greche adatte adesso ai musei. Ora invece spettacolo atroce per chi si trova a dover fare i conti con il presente.Il presente è di chi lo vive, poco, ma soprattutto di chi lo ha prodotto. L’occasione per sentirsi migliori è rappresentata dall’azione verso il futuro: ne siamo (ancora) capaci?
Un insegnante insegna soprattutto quello che è lui. Quindi la qualità di se stessi.
Nel 1946 Alberto Manzi, nato a Roma nel novembre del 1924, accetta di insegnare in un istituto correttivo, l’Aristide Gabelli di Roma. Accetta perché altre cattedre più pulite e decenti erano state già assegnate, e altri prima di lui avevano rifiutato quella del carcere. È un inizio perfetto per la sua carriera, la parabola di un ragazzo subito diventato uomo giusto. Dentro l’ambiente intasato e faticoso degli imperfetti impara e comprendere da dove vuole cominciare, da dove si deve cominciare. Tutto è da riprendere da capo, un paese intero, e Alberto Manzi ha in mente il gesto migliore per rialzarsi: l’istruzione. Saper leggere e scrivere come fuga dalla schiavitù perpetua – sarai schiavo di chi conoscerà una parola in più di te.
Nel 1960 inizia la sua avventura più luminosa e conosciuta, quella dentro la RAI. Viene scelto per la trasmissione Non è mai troppo tardi, che si impegnerà a insegnare ai tanti italiani analfabeti le basi della comprensione. Una trasmissione fortunata che consente, narra una leggenda incredibilmente veritiera, a più di un milione di persone l’accesso alla licenza elementare. Il niente, che è tanto. Nelle immagini in bianco e nero si vedono nonnine sdentate capaci di scrivere finalmente il proprio nome, persone che imparano a leggere un giornale, uomini che prendono in mano un contratto e lo fanno loro. Alberto Manzi con il gesso carezza una lavagna, coinvolge il pubblico da casa facendolo sentire uno di quegli alunni presenti lì davanti, nella classe. Uno a uno, milioni.
Fa quel che può. Quel che non può, non fa.
Un uomo dalla faccia gentile e dalle maniere decise e dolci, uno da cui farsi adottare e prendere per mano. Un maestro efficace e perciò diventato poi scomodo: è nota la sua rinuncia a compilare le schede di valutazione ufficiali, che avrebbero secondo lui impedito a un ragazzo di avere un futuro. Perché riteneva il futuro non definibile in una firma immobile che ne pregiudicasse ogni altro afflato. Allontanato dall’insegnamento, ci rimase aggrappato inventando un timbro uguale per tutti: Fa quel che può. Quel che non può, non fa. E quando gli si fece notare che il timbro non era gradito, si impegnò per la messa per iscritto a penna di quella sua valutazione, così lontana dalla volontà del Ministero.
Autore di romanzi, il più famoso dei quali rimane Orzowei (1955, portato anche in una trasposizione televisiva nel 1970), impegnato in viaggi nel Sudamerica per conoscere altre difficoltà e imparare a insegnare altrove. Ma sempre fermo e deciso su una questione importante: era un maestro. Uno strumento. Capì poi le nuove esigenze dei nuovi italiani e si mise negli anni novanta a replicare Non è mai troppo tardi su Rai 3. Un’operazione in favore della nuova immigrazione, di altri analfabeti, di altri ultimi che si aggiungevano ai penultimi ormai smemorati. Muore, il ribelle composto, il 4 dicembre del 1997 a Pitigliano.
La televisione ha deciso di non essere maestra.
Vedo Alberto Manzi come una di quelle poche persone che fanno andare avanti il mondo. È una mia visione individualistica, anarchica, sconfitta. Il suo lavoro, come quello di altri, non può essere leva fondamentale per l’andare avanti. Non deve. Perché il suo insegnamento, e altri insegnamenti meno affiorati alla storia, bisogna che raggiunga la pelle, le vene, i capillari, di quello che siamo diventati. Probabilmente Alberto Manzi oggi verrebbe ridicolizzato, nella migliore delle ipotesi. Magari spintonato, preso a ceffoni, allontanato, inibito. Non abbiamo più molta voglia di qualcuno che ci dica e insegni cosa imparare: vogliamo qualcuno da offendere, o compatire. Niente nel mezzo, perché in quel mezzo c’è quella decenza con cui si deve fare le cose, che costano fatica e non hanno premi.
Sull’analfabetismo contemporaneo iniziano ad esserci per fortuna studi importanti e statistiche deprimenti, la certificazione di una caduta verso il basso che facilita la presunzione di innocenza. Ha guardato, Alberto Manzi, ai bambini e ai ragazzi sempre come una speranza. Sentendosi di passaggio. Utile adesso, mentre ci sono ed esisto – mai nell’intento speculatorio con cui ci proponiamo troppo spesso nell’attualità , lontano dal definire i suoi studenti indegni, o persi, o sdraiati. Il passaggio generazionale inizia a diventare un fastidio. Ci stanno antipatici i giovani? Forse gli altri, forse quello che non siamo più noi. A, B, C. Ricominciare da.