I
ncontrai Giovanni il secondo anno che ero a Parigi, in un momento in cui non avevo soldi. Ci conoscemmo la sera dello stesso giorno in cui al mattino ero stato cacciato dalla mia stanza. Non ero in debito di una spaventosa somma di denaro, seimila franchi al massimo, ma gli albergatori parigini riescono a sentire puzza di povertà, dopodiché fanno quello che fa chiunque percepisca un cattivo odore: indipendentemente da cosa sia a puzzare, la gettano via.
Mio padre aveva del denaro sul suo conto che apparteneva a me, ma era molto restio a inviarmelo perché voleva che tornassi a casa – che tornassi a casa, come diceva, per assestarmi, e ogni volta che lo diceva pensavo ai sedimenti sul fondo di uno stagno. Allora non conoscevo molta gente a Parigi e Hella era in Spagna. La maggior parte delle persone che conoscevo in città erano, come dicevano a volte i parigini, del milieu e, sebbene quelli del “milieu” fossero certamente desiderosi di annoverarmi tra i loro, io ero deciso a provare, a loro e a me stesso, che non facevo parte del giro. Cercavo di provarlo passando molto tempo con loro e ostentando nei confronti di tutti una tolleranza che mi metteva, così credevo, al di sopra di ogni sospetto. Avevo scritto a qualche amico di mandarmi dei soldi, naturalmente, ma l’Oceano Atlantico è profondo e vasto e i soldi non hanno fretta di passare da una sponda all’altra.
Così sfogliai la mia agenda, seduto a bere un caffè tiepido su un boulevard e decisi di chiamare una vecchia conoscenza che mi chiedeva di farmi vivo, un uomo d’affari di una certa età, un americano di origine belga di nome Jacques. Aveva un appartamento grande e accogliente, molto da bere e un sacco di soldi. Come avevo immaginato, fu sorpreso di sentirmi e prima che la sorpresa e il piacere svanissero e gli dessero il tempo di insospettirsi, mi aveva invitato a cena. È probabile che, riagganciando, si cose messo a imprecare e avesse controllato dov’era il portafogli, ma era troppo tardi. Jacques non è poi così male. Forse è stupido e vigliacco, ma quasi tutti sono l’uno o l’altro, e gran parte della gente è tutte e due le cose insieme. In qualche modo mi piaceva. Era sciocco ma così solo; comunque sia, adesso capisco che il disprezzo che provavo per lui era legato al disprezzo che provavo per me stesso. Poteva essere incredibilmente generoso e poteva essere avaro in modo indicibile. Anche se voleva fidarsi di tutti, non riusciva a fidarsi di nessuno; per compensare ciò, sprecava i suoi soldi in compagnia, e inevitabilmente finiva con l’essere sfruttato. A quel punto chiudeva il portafogli, chiudeva la porta a chiave, e si ritirava in quell’intensa autocommiserazione che era forse l’unica cosa che veramente gli appartenesse. Per molto tempo ho pensato che lui, con quel grande appartamento, le sue promesse sincere, il suo whisky, la sua marijuana, le sue orge, avesse contribuito a uccidere Giovanni. E forse è stato proprio così. Ma le mani di Jacques non sono certamente più insanguinate delle mie.
Rincontrai Jacques, per caso, subito dopo che Giovanni era stato condannato a morte. Se ne stava seduto, infagottato nel cappotto, fuori da un bar, e beveva vin chaud. Seduto fuori c’era solo lui. Mi vide passare e mi chiamò.
Non aveva un bell’aspetto, la sua faccia era piena di macchie e lo sguardo, dietro gli occhiali, era quello di un moribondo alla disperata ricerca di una cura.
“Hai sentito”, sussurrò, quando lo raggiunsi, “di Giovanni?”
Annuii. Mi ricordo che brillava un sole invernale e io mi sentivo freddo e distante come il sole.
“È terribile, terribile, terribile”, gemette Jacques. “Terribile.”
“Sì”, dissi. Non riuscii ad aggiungere altro.
“Mi chiedo perché l’abbia fatto”, continuò a dire Jacques, “perché non abbia chiesto una mano agli amici.” Mi guardò.
Sapevamo entrambi che l’ultima volta che Giovanni gli aveva chiesto dei soldi, Jacques glieli aveva negati. Non dissi niente.
“Pare che avesse iniziato con l’oppio”, disse Jacques, “che aveva bisogno di soldi per l’oppio. L’hai sentito anche tu?”
Sì, ne avevo sentito parlare. Era un’illazione dei giornali cui, però, avevo motivo di credere, poiché ricordavo la misura della disperazione di Giovanni, poiché sapevo a cosa l’avesse portato quel terrore tanto vasto da diventare semplicemente vuoto.
“Io, voglio fuggire”, mi aveva detto, “je veuz m’evader – da questo mondo sporco, da questo corpo sporco. Non voglio mai più fare l’amore con nient’altro che con il corpo.”
Jacques aspettava una risposta. Guardai la strada. Stavo cominciando a pensare a Giovanni che moriva – al posto di Giovanni non ci sarebbe stato più nulla, per sempre nulla.
“Spero che non sia colpa mia”, disse Jacques alla fine. “Non gli ho dato i soldi. Se l’avessi saputo, gli avrei dato tutto quello che avevo.”
Ma sapevamo tutti e due che non era vero.
“Voi due, insieme”, insinuò Jacques, “non eravate felici, insieme?”
“No”, gli dissi. Mi alzai. “Forse sarebbe stato meglio”, dissi, “se fosse rimasto laggiù in quel suo paese in Italia e avesse piantato gli ulivi e avesse fatto molti figli e picchiato la moglie. Gli piaceva cantare”, ricordai all’improvviso, “forse sarebbe potuto restare laggiù e passare la vita a cantare e morire nel suo letto”.
Fu allora che Jacques disse qualcosa che mi sorprese. Le persone sono piene di sorprese, anche per loro stesse, se vengono provocate a sufficienza. “Nessuno può rimanere nel giardino dell’Eden”, disse Jacques. E poi: “Mi chiedo perché”.
Non dissi niente. Lo salutai e me ne andai. Hella era tornata dalla Spagna da un pezzo e ci stavamo già organizzando per prendere in affitto questa casa, avevo un appuntamento con lei.
Da allora penso alla frase di Jacques. La sua domanda era banale, ma uno dei veri problemi della vita è che vivere è così banale. Ognuno di noi, dopotutto, percorre la stessa strada buia – e la strada è ingannevole e di solito è più buia e insidiosa quanto più appare piena di luce – ed è vero che nessuno rimane nel giardino dell’Eden. Certo, il giardino di Jacques non era lo stesso di Giovanni. Certo, il giardino di Jacques era fatto di giocatori di calcio e quello di Giovanni fatto di vergini, ma ha fatto, pare, così poca differenza. Forse ognuno di noi ha un giardino dell’Eden, non lo so; ma a malapena riusciamo a vedere il giardino che già appare la spada fiammeggiante. Dopodiché, forse, la vita dà solo la possibilità di scegliere fra il ricordare il giardino e dimenticarlo. Una cosa o l’altra: ci vuole forza per ricordare, ci vuole un altro tipo di forza per dimenticare, ci vuole un eroe per fare le due cose insieme. Chi ricorda corteggia la pazzia attraverso il dolore, il dolore dell’eterno ritorno alla morte della propria innocenza; chi dimentica corteggia un altro tipo di follia, la follia della negazione del dolore e dell’odio per l’innocenza; e il mondo si divide per lo più tra pazzi che ricordano e pazzi che dimenticano. Gli eroi sono rari.
Jacques non aveva voluto cenare nel suo appartamento perché il cuoco era scappato. I suoi cuochi scappavano sempre.
Riusciva ogni volta a convincere qualche giovane di provincia, Dio sa come, ad andare a fare il cuoco da lui; e loro, ovviamente, non appena cominciavano a orientarsi nella capitale, decidevano che cucinare era l’ultima cosa che avevano voglia di fare. Alla fine, i solito, se ne tornavano in provincia, almeno quelli che non finivano per strada, o in carcere, o in Indocina.
Ci incontrammo in un ristorante abbastanza carino sulla rue de Granelle e riuscii a farmi prestare diecimila franchi prima ancora di finire gli aperitivi. Era di buon umore e anch’io, naturalmente, ero di buon umore, il che significava che saremmo finiti a bere nel bar preferito di Jacques, una specie di tunnel rumoroso, affollato e mal illuminato, di dubbia reputazione, o forse, più che dubbia, esagerata. Ogni tanto la polizia faceva delle retate, apparentemente con la complicità di Guillaume, il patron, che in quelle occasioni usciva sempre ad avvertire i suoi clienti preferiti che, se non erano armati di documenti, avrebbero fatto meglio a starsene alla larga.
Mi ricordo che il bar, quella notte, era più affollato e rumoroso del solito. C’erano tanti habitué e molti sconosciuti, alcuni che guardavano, altri che fissavano con occhio vacuo.
C’erano tre o quattro signore parigine molto chic sedute a un tavolo con i loro gigolò o gli amanti, o forse solo i cugini di campagna, chi lo sa: le signore sembravano estremamente vivaci, i maschi meno a loro agio; sembrava che a bere fossero per lo più le signore. C’erano i soliti signori panciuti con gli occhiali e lo sguardo avido e a volte disperato, e i soliti ragazzi sottili come lame di coltello e con i pantaloni attillati. Di questi ultimi non si poteva mai sapere con certezza se fossero in cerca di soldi, sangue o amore. Giravano senza sosta nel bar, scroccando da fumare e da bere, con negli occhi qualcosa di terribilmente vulnerabile e terribilmente duro al tempo stesso.
C’erano, ovviamente, les folles, sempre vestiti nei modi più improbabili, che urlavano come pappagalli i particolari delle loro ultime avventure amorose – le loro avventure amorose avevano sempre l’aria di essere esilaranti. Ogni tanto ne entrava uno – ma tra loro dicevano sempre “una” – a tarda notte per annunciare che aveva appena trascorso la serata con un famoso divo del cinema o con un pugile. Allora tutti gli altri si stringevano intorno all’ultimo arrivato e sembravano un branco di pavoni starnazzanti in un’aia. Mi era sempre difficile crederete riuscissero ad andare a letto con qualcuno, perché un uomo che voleva una donna ne avrebbe senza dubbio preferita una vera e un uomo che voleva un uomo di sicuro non avrebbe voluto uno di loro. Forse, però, era proprio questo il motivo per cui urlavano tanto. C’era un ragazzo che lavorava tutto il giorno, si diceva, in un ufficio postale, e che la notte usciva truccato con gli orecchini e i folti capelli biondi cotonati. Certe volte portava anche la gonna e i tacchi alti. Di solito se ne stava da solo, a meno che Guillaume non gli si avvicinasse per dargli fastidio. La gente lo trovava molto carino, ma confesso che il suo aspetto così assolutamente grottesco mi metteva a disagio, forse allo stesso modo i cui a certe persone viene il voltastomaco nel vedere le scimmie che mangiano i propri escrementi. Forse non reagirebbero così, se le scimmie non ricordassero loro – in modo tanto grottesco – gli esseri umani.
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