Q uando scema il giorno su Buenos Aires si distende una luce da emisfero australe cha ha strutture di calore e malinconia sconosciute a un “boreale” come me. Si riflette in un laghetto vicino a Plaza Italia dove placidi vagheggiano i cigni sotto tetti di imponenti palmizi, spolvera gli spigoli dei palazzi da trenta piani che frastagliano il profilo di Baires, dall’Avenida più elegante fino al barrio più diroccato. Tutto qui appare molto vivido, la natura in particolare: i ficus sono giganti e stiracchiano ombre attorcigliate, generose, di cui decine di bimbi approfittano per giocare a pallone. Strane specie di pini “pelosi” e ricurvi e altri tipi di alberelli, per il resto essenziali e minutissimi, sfoggiano gradazioni di un verde così luminoso da rubare la scena a tutto il resto. Tra le loro fronde, grossi volatili si rimbalzano richiami d’amore acuti e policromi a cui mai mi aveva abituato l’Europa. Dopo il tramonto passeggio per un Giardino Botanico: sprigiona un aroma agrodolce di primavera che in parte mi riporta con le narici al nostro maggio, soltanto molto più umido e pregno. È l’odore, mi pare, di una minuscola giungla.
Abituati dalla nascita a questa fioritura di vita subtropicale, i porteños – come si definiscono gli abitanti di qui – ci convivono con una certa noncuranza. Vanno e vengono tra i loro impegni, entrano ed escono da banche e uffici, chiacchierano nei caffè e nei ristoranti, vendono oggetti per strada estraendoli da sacchi di cianfrusaglie, quasi tutti portando visibilmente con sé fattezze e costumi del pezzo d’Europa di provenienza dei loro avi. A dispetto di un orgoglio ostentato e a differenza dei corrispettivi nordamericani divenuti intimamente “Nuovo Mondo”, a volte gli argentini danno infatti la sensazione di essere rimasti molto europei, finiti loro malgrado in questa parte di pianeta un tempo faunesca. Come se da secoli fossero in attesa che all’orizzonte appaia un galeone per riportarli indietro. Dato che il galeone ha ormai accumulato un cospicuo ritardo, pare che infine si siano rassegnati ad arredare la giungla con le cose di casa, ognuno le proprie: e quindi un’Avenida come Madrid, un’enorme rotonda come Charlottenburg, un quartiere popolare come Napoli, uno spicchio di “Rue de” come Parigi, insegne in Yiddish come Praga. E poi ancora: ecco lì un busto di Pirandello, ecco qui una Plaza Alemania con la sua bandiera gialla rossa e nera piantata nel centro, ecco lì una bottega di prodotti tipici andalusi, ecco là un memoriale del ghetto di Varsavia. Le Avenida portano i nomi e i cognomi di generali e colonnelli a me ignoti, eroi di battaglie contro invasori stranieri e tribù di nativi, rivoluzioni e controrivoluzioni remote e recenti, in alcuni casi oscure anche a molti argentini: vestigia di una città “eterna come l’acqua e l’aria” (Borges), fluida e inafferrabile come entrambe.
Gli ingressi dei condomini “di pregio” qui sono quasi tutti piccoli, stretti, rigorosamente con le porte in vetro e gli infissi in legno smaltato chiaro e leggero, quasi friabile. Lasciano intravedere un lusso modesto e immaginare appartamenti in cui si custodiscono gelosamente idiomi, ricette, nomi, oggetti, modi di dire e pensare non solo della nazione lasciata dai padri, dai nonni, dai bisnonni, dai trisavoli ma persino della regione, della città, del paesino, della casa, del cortile, della stanza da letto. Nel palazzo in cui alloggio dalle pareti pendono stampe delle rovine di Roma, vedute settecentesche di Verona, piantine medievali di Saragozza, foto in bianco e nero di Amburgo: souvenir d’Oltreoceano che dividono gli stessi muri con immagini di pampas, gauchos e puma.
“A quattro cuadras (isolati, ndA) da qua, para exemplo, ce sta un barrio de calabreses”, mi racconta Silvano, quattro nonni tutti italiani equamente divisi tra nord e sud: Piacenza, Salerno, Matera, e, incredibile coincidenza, Assago, cittadina dell’hinterland milanese a meno di tre chilometri da dove sono cresciuto. Come mai tutti qui – gli domando – tutti in cerca di lavoro? “Uhm, non proprio”. E allora per cosa? “Eh – sospira – tenevan problemi”. Anche se in Italia non c’è mai stato, Silvano parla abbastanza bene la lingua proprio grazie a questi nonni, con un vago accento meridionale e le sibilanti dello spagnolo “argentinato”. Gli piace molto dire “minghia” e “vafangoolo” e trasuda amore per questa città, per questo paese, per questo continente popolato di fuggiaschi. “Il Sudamerica è così: tanti sono venuti de qua para problemi de là.” Problemi di ogni tipo, a volte speculari. Con tempismo un po’ sospetto, a metà ‘900 da queste parti è apparsa per esempio una certa comunità di tedeschi. Meno di dieci anni prima era stata preceduta da un’imponente ondata di arrivi di ebrei europei che, rimpolpando una presenza già nutrita, ha reso quella di Baires una delle comunità ebraiche più numerose al mondo. “Qui diciamo che in Argentina abbiamo dato l’afterparty della Seconda Guerra Mondiale”, ridacchia Silvano mentre mi racconta queste cose e beviamo un tè in un “bar notable” – cioè un “bar storico”, istituzione a cui il porteño è molto legato – di Palermo, il quartiere più celebre, esteso e centrale di Baires.
Come mi spiega un tassista, a Palermo Nord vivono i “burgués”, “la gente que tiene muchissima plata”, quella che in questo periodo dell’anno fa “shopping en Parìs, en Milàn, en Suiza” e in inverno fa “vacaciones en Majemi (Miami, ndA), en Bajamas”. Insomma l’alta borghesia che compra appartamenti “en Nueva Jork o en Londra”; una mosca bianca in un paese ancora convalescente dalla bancarotta di inizio anni zero. Proseguendo verso sud questo relativo lusso si screma però in un barrio più povero: una di quelle zone in cui, mi avverte, la notte è meglio stare cuidado, cioè attento. E ancora più cuidado – cuidadissimo! – devi stare se ti avventuri nella sconfinata periferia di Buenos Aires. Lì vivono undici dei quattordici milioni di abitanti che rendono la “Gran Buenos Aires” il secondo agglomerato urbano delle Americhe, subito dietro Sao Paulo, e l’area dove abita un terzo della popolazione argentina. Una umanità traboccante e disseminata tra architetture brutaliste, fabbriche fallite da tempo, shanty town e vecchie haciendas di fronte a cui riposano gli scheletri di pick-up bassi, larghi e coi rimorchi fatti come enormi cassette per gli ortaggi. Sono le zone dove, secondo gli intenditori, si cucina “el mejor” e più autentico “asado de Baires” (confermo), ma anche quelle in cui, al forestiero non accompagnato, può capitare di svegliarsi con un rene in volo verso il mercato nero europeo o nordamericano. Qui le chiamano Villas Miseria e non potrebbero essere più puntuali. In ogni caso, secondo l’amico tassista, Buenos Aires “no es periglosa como Bogotà o Caracas” ma è pur “siempre Sudamerica”. E la morale pare essere che, dovunque ti trovi, in Sudamerica è comunque bene stare “siempre un poquito cuidado”.
Il quartiere calabrese a cui accennava Silvano rappresenta solo una delle tantissime comunità spontanee di Baires: capitale di una nazione in cui la forza e la legittimazione dello Stato può andare e venire e quindi ci si affida molto alla micro-mutualità basata sul senso di appartenenza e su legami antecedenti l’arrivo da queste parti. Come mi spiega Paz, un’amica cresciuta qui e tornata da pochissimo dopo sedici anni tra Barcellona e Berlino: “queste comunità sono nate per sopperire alle debolezze o, a seconda del periodo storico, resistere alle angherie dello Stato”. Nel caso dei calabresi, per esempio, l’associazione non si attiva solo per festeggiare qualche Santo Patrono regionale o condividere i piaceri della ‘nduja: un tempo provvedeva anche a risolvere questioni assolutamente vitali come la gestione di scuole e ospedali della sua zona.
C’è poi un altro genere di porteño, i cui antenati abitavano il continente molto prima dei conquistadores: il nativo. Viene dalla Bolivia, dalla Colombia, dall’Ecuador, dal Perù, dal Paraguay, scende dalle Ande, si mette in marcia dalle regioni più povere del Brasile, in altri casi vive in quest’area da millenni. Nel centro lo si incontra di rado e bisogna cercarlo tra i milioni che risiedono nelle periferie. Spesso fa i lavori che nessuno ha più voglia di fare, ingrossa le file della criminalità o, all’opposto, di una polizia paramilitare. Come mi racconta Paz, ancora oggi il nativo è oggetto di un razzismo talvolta strisciante e talvolta esplicitato tramite appellativi derisori come bolita (palletta, riservato ai boliviani) o paragua (ombrellino, per i paraguayani). Un razzismo che, tendenzialmente, varia di intensità a seconda del colore della sua pelle e della spigolosità degli zigomi. Insomma, vive una situazione di “integrazione emarginata” paragonabile a quella degli immigrati di seconda o terza generazione in Europa. Con il paradosso ulteriore che nel suo caso gli immigrati sono gli altri.
Tra le occupazioni a lui quasi esclusivamente “riservate” si annovera anche il conducente di questi incredibili autobus che girano per le strade, ognuno con una propria livrea coloratissima a seconda del percorso, e il numero di linea scritto enorme in una font che ricorda i numeri sulle maglie da calcio o le cifre di una slot machine. Ed è proprio compiendo lunghi tragitti su di essi che si coglie davvero quanto aggrovigliata sia la matassa di storie, connotati, vite, costumi, fini più o molto meno liete che si condensano nel cuore di Buenos Aires.
Un cuore che, urbanisticamente parlando, batte al centro dell’impressionante rotonda di Avenida 9 Julio, snodo di una delle vie più larghe al mondo: venti corsie brutalmente trafficate a qualunque ora del giorno. Lì si trova il famoso Obelisco: uno dei simboli della città – forse il simbolo per eccellenza – amato e odiato dai locali in egual misura, il destino dei monumenti a cui si chiede di sintetizzare un luogo variegato come una megalopoli. Fu costruito nel 1936, in meno di un mese, da una compagnia edilizia tedesca. Celebra il quattrocentesimo anniversario della prima fondazione della città da parte di Pedro de Mendoza, un nobile andaluso molto nelle grazie di Carlo V. Si parla di prima fondazione perché nel giro di quarant’anni i primi insediamenti spagnoli furono spazzati via dagli indiani Mapuche, che li assaltarono con una tecnica di attacco chiamata maloca o malòn, due espressioni rimaste nella gergalità di qui, un po’ come da noi si dice “fare un quarantotto”. La città fu quindi rifondata nel 1580 da Juan de Garay, un altro conquistador, anch’egli nobile ma di origine basca, e anch’egli molto nelle grazie di un re spagnolo: Filippo II.
Proseguendo a piedi dall’Obelisco, dopo circa mezz’ora verso ovest si incontra finalmente il porto, il luogo che segna Buenos Aires fin nel nome degli abitanti e che – se l’Avenida 9 Julio è il cuore – rappresenta quantomeno la pancia della città.
Una volta arrivati all’arenile avrete bisogno di qualcuno che vi rassicuri che ciò che avete di fronte è effettivamente acqua dolce – peraltro tra le più inquinate al mondo, per la prolungata cattiva gestione degli scarichi industriali. Ma non vi preoccupate: pensare che quello che state guardando sia in realtà un mare è un abbaglio comune. Persino i geografi ancora dibattono la vera natura di quest’acqua: se si tratti di un fiume o di un “mare marginale”, tanta è la vastità di orizzonte che occupa. È l’estuario del Rio de La Plata, un bacino idrico enorme in cui sfociano ben sei fiumi provenienti da mezzo Sud America. Una vastità misurabile in ore: quattro, quelle che impiegherebbe un traghetto a sbarcarvi a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, città “rivale” e speculare a Buenos Aires, invisibile da qui ma da qualche parte laggiù in fondo, come un corrugamento sull’opposto labbro di terra della baia de La Plata dove cinque secoli fa hanno attraccato i galeoni e non sono più tornati indietro.