I l 3 novembre 1957 una cagnetta randagia nata e cresciuta per le strade di Mosca diventò il primo essere vivente a orbitare la Terra. La chiamavano in tanti modi: Kudryavka (“ricciolina”), Zhuchka (“bacherozzo”), Limonchik (“limoncino”) ma divenne famosa come Laika. Non avrebbe mai rivisto il suo pianeta.
Laika non fu il primo organismo vivente a raggiungere lo spazio. A parte la possibilità, remota ma non impossibile, che qualche batterio terrestre scagliato dall’impatto di un asteroide abbia percorso gli spazi interplanetari, vari animali erano stati lanciati nello spazio, a volte riuscendo a recuperarli sani e salvi. I primi furono dei moscerini della frutta lanciati – e recuperati vivi – dagli USA nel 1947 a bordo di un razzo che raggiunse i 109 chilometri di altitudine (100 chilometri sono considerati il limite formale oltre il quale si parla di “spazio”). Ma si trattava di voli sub-orbitali: fondamentalmente razzi sparati come proiettili che arrivavano in alto, molto in alto prima di tornare giù. Laika fu la prima in orbita: a giungere nello spazio e a rimanerci, almeno finché la sua traiettoria non decadde naturalmente a Terra.
Ventiquattro giorni per l’eternità
Per noi, che viviamo in un’epoca di cautela a volta forse ossessiva, è difficile concepire la frenesia dell’inizio della corsa allo Spazio. Il primo Sputnik venne lanciato il 4 ottobre 1957. Sei giorni dopo, il 10 ottobre, al ricevimento ufficiale in onore del satellite, Nikita Krusciov decise che sarebbe stato opportuno avere un nuovo lancio che coincidesse con il 40° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, quindi entro il 6 novembre – meno di un mese dopo. Non poteva essere un’altra palla di metallo capace al massimo di un bip bip via radio, però: serviva qualcosa di spettacolare. Un altro pugno allo stomaco dell’orgoglio statunitense. Il salto di qualità più immediato era quello di inviare un animale in orbita: ma andava fatto in quattro settimane, partendo quasi da zero. L’11 ottobre il personale coinvolto nel lancio dello Sputnik 1 venne precipitosamente richiamato dalle ferie per lavorare a tempo pieno alla nuova missione, Sputnik 2.
Recuperare il passeggero era fuori discussione: non c’era ancora nessuna idea su come riportare giù qualcosa da un volo orbitale. I lanci sub-orbitali con animali potevano dare una dritta su come organizzare la cabina, ma il resto era da inventare. Il volo aveva senso se si dimostrava che l’ospite della capsula poteva sopravvivere nello spazio: bisognava quindi trovare il modo di riciclare l’aria, di provvedere a cibo e acqua, di mantenere la temperatura costante, di gestire i reflui. Bisognava inoltre trasmettere a terra dati in modo continuo. Non c’era nemmeno il tempo di buttare giù dei veri progetti: lo Sputnik 2 venne costruito sulla base di semplici schizzi disegnati in fretta e furia dagli ingegneri, che poi seguivano di persona i lavori nell’officina.
Laika subì un addestramento cruento, fatto di centrifughe per simulare l’accelerazione del lancio, rumori assordanti a cui abituarsi e adattamento a gabbie sempre più strette, per venti giorni.
E venne scelta Laika. Per il suo carattere particolarmente docile, si dice. I cani usati per i test spaziali sovietici venivano scelti tra i celebri (e tuttora numerosi) randagi di Mosca, di cui scrisse anche Cechov, ritenuti particolarmente robusti e capaci di reggere lo stress e la fame. Laika fu costretta a subire un addestramento cruento, fatto di centrifughe per simulare l’accelerazione del lancio, rumori assordanti a cui abituarsi e adattamento a gabbie sempre più strette, per venti giorni. Altre due cagnette, Albina e Mushka, facevano da backup e da “controllo” a Terra rispettivamente, e vennero addestrate allo stesso modo. Erano tutte femmine: era più facile farle urinare, nello spazio minuscolo della capsula orbitale.
Laika venne sottoposta a una piccola operazione chirurgica per facilitare l’inserzione dei sensori della respirazione, della pressione sanguigna e del battito cardiaco. Poi venne trasportata a Tashkent, e infine al cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan. Il colonnello Vladimir Yazdovsky, medico militare responsabile della selezione e addestramento dell’equipaggio, raccontò che una sera pochi giorni prima del lancio portò Laika a casa, a giocare con i suoi bambini. “Laika era calma e incantevole. Volevo fare qualcosa di buono per lei. Aveva così poco ancora da vivere.” Il 31 ottobre 1957, tre giorni prima della missione, Laika entrò nella capsula del satellite da cui non sarebbe più uscita.
Space Oddity
Il mattino del 3 novembre – ventiquattro giorni dopo il diktat di Krusciov – un razzo portò in orbita con successo lo Sputnik 2 con Laika a bordo. Il quarantennale della Rivoluzione era salvo. I sensori indicavano chiaramente che Laika era terrorizzata – respirava affannosamente e il suo battito cardiaco arrivò a 240 battiti al minuto durante l’accelerazione iniziale: ma era viva. Una volta in orbita i suoi parametri vitali tornarono lentamente verso la norma, e riuscì a nutrirsi. I sovietici avevano dimostrato che un essere vivente poteva raggiungere l’orbita terrestre e, in linea di principio, sopravvivere. Può sembrare banale per noi oggi, ma all’epoca si avevano idee solo vaghe degli effetti dell’assenza di gravità o dell’ambiente spaziale su un organismo.
Quando l’agenzia sovietica TASS annunciò il successo della missione, a terra le reazioni furono miste. Da un lato gli americani furono veramente umiliati. Mentre il loro programma satellitare Vanguard languiva, i sovietici non solo avevano lanciato due satelliti nel giro di un mese, ma avevano anche chiaramente fatto il primo passo concreto verso una missione con uomini a bordo. La capacità dei russi di mettere a punto missili balistici intercontinentali era stabilita. Le parole del presidente Eisenhower, riportate dal New York Times, anche lette oggi sembrano sibilate tra un digrignar di denti: “Questo lancio non aumenta la mia preoccupazione, nemmeno di una virgola.”
Quando si annunciò il successo della missione, le reazioni furono miste. Da un lato gli americani furono umiliati. Dall’altro lato ci si domandava se avesse senso sacrificare un animale per una questione di propaganda.
Dall’altro lato, anche all’epoca, ci si domandava se avesse senso sacrificare un animale per una questione fondamentalmente di propaganda. Sì, il volo di Laika era scientificamente importante, ma tutto sommato valeva la pena di condannarla a morte solo per approfittare di un anniversario, invece di trovare il tempo per una missione con ritorno a terra? Ci furono proteste in Occidente,ma anche nel blocco comunista serpeggiava perplessità. Su una rivista di divulgazione scientifica polacca il fisico Krzysztof Boruń criticò apertamente la scelta di non riportare Laika a terra: una mossa quantomeno coraggiosa, visto il clima dell’epoca.
Le ultime ore di Laika
La bagarre era mitigata dal fatto che, a sentir loro, i sovietici avevano fatto le cose per bene. Laika era più o meno in salute, e quando sarebbe stato il momento – qualche giorno dopo il lancio – un boccone avvelenato l’avrebbe addormentata senza farla soffrire. Tutto sommato non un pessimo destino per un cane randagio che altrimenti sarebbe morto probabilmente di fame e freddo alla periferia di Mosca. Purtroppo non è andata così. La vera fine di Laika venne rivelata nel 2002 da uno degli scienziati della missione, Dimitri Malashenkov, a un congresso di scienze spaziali a Houston:
Durante il volo, i canali telemetrici registrarono un aumento graduale di umidità e temperatura in cabina. Dopo circa 5-7 ore di volo il sistema di telemetria andò in avaria. Non era più possibile conoscere lo stato del cane dopo la quarta orbita. Durante la simulazione a terra delle condizioni di volo si arrivò alla conclusione che Laika doveva essersene morta durante la terza o quarta orbita, per surriscaldamento. Divenne chiaro che era praticamente impossibile creare un sistema di controllo della temperatura affidabile nel tempo limitato disponibile.
La colpa non fu di chi lavorò al progetto. In quattro settimane gli ingegneri russi dello Sputnik inventarono praticamente da zero il primo sistema di sopravvivenza nello spazio, che nei piani avrebbe potuto tenerla in vita per almeno una settimana. Semmai è sorprendente quanto, della missione, abbia effettivamente funzionato. Laika arrivò viva in orbita e, se non fosse stato per la temperatura, sarebbe sopravvissuta. Sempre Malashenkov riporta che:
L’analisi dell’ambiente della cabina mostrò che l’ossigeno era sufficiente. Il fatto che la pressione in cabina non si fosse ridotta mostrò che era isolata in modo affidabile. […] I dati sperimentali confermarono l’ipotesi iniziale che le condizioni del volo spaziale non causerebbero danno agli esseri viventi, inclusi gli esseri umani. Il livello di sviluppo della medicina spaziale poteva permettere di arrivare molto vicini al compito del volo spaziale umano.
Nel corso dei mesi lo Sputnik 2 decadde lentamente, fino a bruciare a contatto con l’atmosfera. Una scia di fuoco passò sopra New York e infine sparpagliò le ceneri di Laika sopra l’Amazzonia, il 14 aprile 1958.
E dopo?
Sputnik 2 fu la prima e ultima missione spaziale concepita senza ritorno. Beninteso, Laika non fu la prima martire della conquista allo spazio (l’onore, se così vogliamo dire, va alla scimmia Albert, un macaco Rhesus che morì a causa del malfunzionamento del razzo in un volo suborbitale statunitense, nel 1949). Né fu certo l’ultima, umana o animale. Ma non vennero più pianificate missioni in cui il ritorno fosse impossibile. Il 19 agosto 1960 altre due randagie, Belka e Strelka, raggiunsero l’orbita terrestre a bordo del Korabl-Sputnik 2. Il loro destino fu assai più felice: assieme a quaranta topi, due ratti e varie piante, sarebbero atterrate sane e salve il mattino seguente – Strelka ebbe pure dei cuccioli dopo la missione, uno dei quali venne donato dai russi a Jacqueline Kennedy come gesto conciliatorio. Qualche mese dopo, al posto di Belka e Strelka avrebbe volato il primo essere umano, Yuri Gagarin.
Laika è il simbolo dolceamaro di un’epoca in cui tentare l’impossibile era normale: in sole quattro settimane tra il 10 ottobre e il 3 novembre 1957 si gettarono le basi concrete dell’astronautica.
Oggi non c’è più una corsa allo spazio: l’esplorazione spaziale umana del primo Ventunesimo secolo ha un ritmo fin troppo pacato, dove il massimo delle emozioni è vedere Space Oddity di Bowie cantata a bordo della ISS. Non facciamo una retorica dei bei tempi andati: ammazzare bestie senza motivo e arrabattare missioni all’ultimo momento per assurde pretese di marketing o propaganda non è il modo in cui mandare avanti una qualsiasi impresa scientifica. Si dice che il volo di Laika aprì una discussione sull’utilizzo degli animali nella ricerca, ma abbiamo visto che anche all’epoca una missione del genere non era ritenuta granché etica. La ricerca sugli animali non è (non dovrebbe essere, perlomeno) spreco di vite.
Ma Laika è anche il simbolo dolceamaro di un’epoca in cui tentare l’impossibile era normale. Rendiamoci conto che gli Sputnik sono cronologicamente più vicini al primo aeroplano dei fratelli Wright – decollato a Kitty Hawk 54 anni prima – di quanto lo siano ai giorni nostri. Certo c’era il vantaggio di “cogliere i frutti più bassi dell’albero”, è molto più facile mettere in orbita una capsula che mandare una spedizione su Marte. Ma resta il fatto che in sole quattro settimane tra il 10 ottobre e il 3 novembre 1957 si gettarono le basi concrete dell’astronautica. Il volo di Laika fu il primo vero test sulla possibilità della specie umana di attraversare lo spazio. Sessant’anni dopo, perso l’ardore giovanile, non abbiamo ancora preso in mano tutte le possibilità che ci aprì quel sacrificio.