S everino Cesari fu la prima cosa stranissima che scoprii del mondo letterario. Ci ero appena entrato dopo anni di apprendistato chiuso nella mia cameretta, avevo ventisei anni e prima di lui e del suo socio Paolo Repetti avevo solo conosciuto il mondo a me omogeneo di minimum fax: privi di legami con l’editoria “di una volta”, da Cassini a Testa a Raimo a Lagioia erano tutti come appena nati, senza ancora radici.
Poi Christian Raimo mi portò a un appuntamento con Repetti e Cesari: dovevamo vendergli un romanzo a otto mani, da scrivere con Francesco Longo e Nicola Lagioia. All’epoca chiamavamo Repetti e Cesari il gatto e la volpe. Io di loro conoscevo l’opera, avendo comprato fin dal liceo libri Teoria e poi Stile Libero, le loro due invenzioni epocali. Ma i libri loro che possedevo erano cose nuovissime, penso al Nori di Bassotuba non c’è e al Nicola X di Infatti, purtroppo. Dal vivo invece il gatto e la volpe erano due persone antiche, fatte di mogano e di ciliegia: ricordo Cesari come una scorza d’arancia, un gesuita; lo affiancava il suo grande amico mercante-intellettuale Paolo Repetti con la sua fantastica aria da grande psicanalizzato. Parlare con loro sotto i neon della libreria era troppo reale per me. Cesari parlava con la voce da flauto traverso e sembrava rilegato come l’enciclopedia Treccani.
Quando decidevo che doveva essere lui il gatto, perché Repetti era quello che vendeva i libri, che li portava in giro a critici e lettori, una frase completamente astratta di Severino si inarcava e piombava verso il basso per trasformarsi in un ragionamento sul mercato: e proprio allora Repetti mostrava una di quelle sue facce da bambino, e allora forse poteva essere lui il gatto… Non solo era impossibile capire la dinamica tra loro due – troppo facile pensare a Cesari come al santo e a Repetti come allo spiritello, visto che poi di colpo Cesari ci diceva diabolicamente “Ma voi ora dovreste non scrivere i vostri romanzi individuali e consolidarvi come band di scrittori” e noi non ci capivamo più niente – era anche impossibile indovinare come una sola persona, naturalmente Severino, potesse aver pubblicato il suo colloquio con Giulio Einaudi per poi fare da balia all’inclassificabile New Italian Epic.
Cesari era l’anello di congiunzione tra i giovani scrittori cresciuti con i Simpson e DeLillo e l’editoria storica del Novecento.
Questo è stato il mio battesimo letterario. Dopo anni passati su Oscar e BUR di autori modernisti o ottocenteschi, avevo scoperto l’anello di congiunzione tra i giovani scrittori cresciuti con i Simpson e DeLillo e l’editoria storica del Novecento, che avevamo già fatto in tempo a studiare sui libri di storia. L’anello era Severino Cesari, la sua mano che ruotava incerta sul polso per spiegarci dove andassero a parare i Wu Ming. Oggi che i contatti tra i principianti e le redazioni di riviste culturali e case editrici avvengono per lo più via posta elettronica, corrispondo continuamente con persone che non hanno idea di quali esperienze e sintesi umane e culturali si nascondano dietro i brevi messaggi di lavoro. C’è chi collabora per anni con realtà ambigue, vere, geniali e incoerenti, senza mai arrivare a vederle per quello che sono: dei misteri. Gli incontri di persona sono uno choc: ti portano dove leggere i libri comprati in libreria non avrà mai il coraggio di portarti, ti portano all’intuizione scandalosa: dunque sono queste le persone che pubblicano i libri degli scrittori? Sono così fragili, illeggibili, profumano di studi medici e patatine, scivolano dal discorso mercantile a quello più alato, sono stanche, ammalate, smemorate, piene di afflati, esauste a fine giornata durante l’aperitivo nei bar leccati del quartiere Prati…
Ho scritto questo ricordo solamente per unirmi, dal fondo, a tutti i ricordi che verranno scritti dagli amici e i colleghi che hanno lavorato con Severino molto più a lungo e che hanno avuto con lui un rapporto personale e una consuetudine. Sarà bello leggere i ricordi, e cominciare a mettere in prospettiva il lavoro folle, istintivo e insieme finissimo, che Cesari ha fatto con Repetti nel ramo blasfemo di Einaudi che aprì a Roma, lontano dalla seria Torino: io voglio solo ricordare che la cosa bella di Cesari – e di “Cesari e Repetti”, perché oggi purtroppo finisce anche quell’immagine lì, del gatto e la volpe e delle loro paradossali invenzioni editoriali – è stata la sua misteriosa superficie, l’odore di biblioteca, l’occhio calmo sotto il sopracciglio furioso.
Una volta, pochi anni fa, ci ritrovammo a un appuntamento sociale non so dove; a lui nel frattempo sotto il profilo medico gliene erano successe di tutti i colori ed erano passati poco meno di dieci anni dalla nostra unica collaborazione, io cominciavo ad avere molta barba bianca e non sembravo più il giovanotto dabbene e invasato a cui aveva dato lezioni di editing. Severino si avvicinò, mi guardò attraverso quei laghi di montagna che gli si formavano negli occhi ogni momento e mi disse: “Però che bello, Francesco, ritrovarsi qui, dopo tanti anni, con tutte le cose che abbiamo fatto”. Non mi aspettavo niente di intimo da lui e invece mi aveva regalato la cosa che avevo desiderato fin dall’arrivo nella scena letteraria: mi aveva fatto sentire che avevo una storia.