È uno degli artisti più noti e canonici del XX secolo. Eppure Picasso ancora oggi si presta a nuove interpretazioni. Se il senso comune della critica d’arte associa la sua figura al cubismo, una mostra adesso in corso a Roma, che raccoglie le opere dipinte in Italia dal 1915 al 1925, conferma il superamento della lettura di Clement Greenberg secondo la quale quello classicistico sarebbe stato uno dei periodi “meno buoni” della sua creatività. Una delle più interessanti fra le nuove letture di Picasso è quella che Gabriele Guercio propone in Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (Quodlibet 2017).
Guercio gode dello sguardo privilegiato di un outsider che abbina alla ricerca meticolosa un punto di vista sulla contemporaneità, sia quando parte dal lavoro di un singolo artista sia quando affronta temi trasversali. Riflettendo sulla dimensione tra creatività e lavoro, qui rilegge la figura e l’opera di Picasso in modo inedito: gli scritti dell’artista sono confrontati con le letture critiche che lo riguardano e con saggi socioeconomici, dal liberale Richard Florida all’operaismo di Paolo Virno.
Il demone di Picasso inizia sottolineando il carattere “approssimativo” dell’arte contemporanea, la sua perdita di specificità, a fronte di una massiccia diffusione di immagini e competenze nei campi del sapere. Anche se il lettore non può evitare di assumerli come esempi supremi di generico, né Instagram, né Facebook sono nominati una sola volta all’interno del saggio. Più che di “creatività diffusa”, si parla di “Creatività Generica” – con le maiuscole – come di una situazione in cui vita e lavoro si sovrappongono. È cambiata l’idea di creatività, sono saltati gli steccati disciplinari, e prima ancora sono saltati gli steccati che separano il tempo della vita dal tempo del lavoro, creando una dimensione magmatica senza precedenti con cui gli artisti devono fare i conti. Per Guercio è questa forma di “generico” il demone, qualcosa che al tempo stesso minaccia e seduce, e con cui Picasso si intrattiene, prima “liberandolo”, quindi nel tentativo di superarlo.
La genesi, la rivelazione del generico avviene secondo Guercio nel 1913. Picasso è nel suo studio. L’ispirazione non è nota, ma improvvisamente prende alcuni oggetti: una chitarra, dei ritagli di giornali, un tavolino, tazzine da caffè, li dispone con cura. Dietro, come una quinta, una superficie su cui abbozza la sagoma di un uomo: gambe, busto, testa. Al posto delle braccia, incolla due ritagli di giornale, legandoli alla chitarra, e fotografa la composizione; un uomo suona accanto a un tavolino. L’immagine, convergenza tra piano della rappresentazione e piano di realtà, è di immediata lettura per un occhio cresciuto nella seconda metà del Novecento. All’epoca di Picasso invece apriva ancora un terreno tutto da codificare. Soprattutto, ammetteva l’idea che qualsiasi cosa, forma, oggetto potesse entrare nella cornice artistica.
Se l’operazione artistica e il valore delle relazioni hanno prevalso sulle capacità manuali, in arte come nel lavoro, così il valore di scambio ha prevalso sul valore d’uso.
Il secondo momento, quello in cui Picasso recupera un’arte specifica non più generica, è individuato da Guercio in alcuni ritratti come quello a Dora Maar (1937) o la serie di opere sul tema artista con modella. Questa volta le tecniche sono quelle della tradizione: disegni, incisioni, dipinti. I soggetti, artista e modella, ripresi nell’atto della creazione. Dal ciclo realizzato ispirandosi a Raffaello e la Fornarina (1968), a quello per le illustrazioni di Le Chef-d’œuvre inconnu, commissionate da Vollard nel 1937, fino ai più generici realizzati nel corso di tutta la sua attività, Guercio ci spiega passo per passo come queste immagini siano lo specchio della precedente mise-en-scène, come di nuovo Picasso si muova sul confine tra realtà e rappresentazione, avviando un continuo scambio tra le parti, fino a fare dell’opera una “realtà psichica autonoma”.
L’ipotesi è che nel momento in cui il generico ha assorbito l’arte e la vita, il piano del conflitto artistico per Picasso si sia spostato, ed è proprio in ciò che potrebbe essere inteso come un semplice ritorno alla pittura che Guercio invita a leggere invece un gesto di resistenza. Se l’operazione artistica, apripista Duchamp, e il valore delle relazioni hanno prevalso sulle capacità manuali, in arte come nel lavoro, così il valore di scambio ha prevalso sul valore d’uso. Guercio ammette la simmetria in termini marxiani e definisce in questo senso il ritorno al disegno di Picasso come un gesto di resistenza.
In quest’ottica gli echi della lezione picassiana andrebbero ricercati per Guercio in opere come The artist is present (2010), di Marina Abramović, non di certo per lo stile quanto per la sua forma di resistenza allo stato dell’arte. Al termine di un excursus che ripercorre il parallelismo tra la storia dell’arte e quella del lavoro negli ultimi decenni, Guercio conclude la digressione picassiana con un interrogativo, domandandosi se sia possibile o meno interrompere questo parallelismo e soprattutto se non sia il caso di ridefinire il concetto di resistenza in arte. Il gesto artistico di Picasso, sottolinea Guercio, corrisponde a “trovare” non a “cercare” qualcosa ex-nihilo, in alcuni casi contrapponendosi allo stato attuale delle cose, quali esse siano, pur di preservare, rinnovandolo, il carattere erotico dell’arte.