Chi era Adolf Eichmann? Per Hannah Arendt, il gerarca nazista era simbolo della “banalità del male”, un burocrate spinto da un destino più grande di lui, autore di un male che non ha compreso. Per Bettina Stangneth, autrice di La verità del male – Eichmann prima di Gerusalemme (LUISS), Eichmann non fu né inconsapevole né burocrate, ma un vero e proprio architetto della Shoah, alle cui conseguenze si sottrasse per quanto possibile.
Per gentile concessione dell’autrice, Il Tascabile ripubblica un estratto dal libro di Stangneth, che fotografa la vita di Eichmann durante la sua latitanza nella Landa di Luneburgo, prima della fuga in Argentina.
A un primo sguardo, nella Landa di Luneburgo non c’è più nulla che faccia pensare alla brillante carriera nelle fila delle SS. Le condizioni di vita di Adolf Eichmann e di Otto Heninger non avrebbero potuto essere più diverse. Niente più divisa tagliata su misura e stivali lucidi, niente più ufficio e attendente. Al loro posto solo una giacca della Wehrmacht riadattata e una baita nel bosco. Addio “ponte di comando”, niente più carta bianca, basta scorrazzare per mezza Europa con la macchina di servizio personale, bando ai capricci assassini. Nel giro di pochi mesi il mondo di Eichmann si era notevolmente ristretto, fino a diventare quasi un’oasi di tranquillità. Da prigioniero di guerra e da profugo la sua esistenza era disseminata di pericoli, così tutti i suoi sforzi erano orientati alla mera sopravvivenza. La tranquillità del bosco, un vitto sufficiente, la routine quotidiana – tutto questo non solo dava una certa sicurezza, ma lasciava anche inevitabilmente spazio all’introspezione. In Argentina Eichmann avrebbe detto: “Nel 1946 feci il mio primo tentativo di mettere per iscritto le mie memorie e usai anche i dati che allora erano ancora freschi nella mia mente”.
Se si osservano la sua situazione del momento e le sue successive produzioni scritte, questo è plausibile, anche se non bisogna figurarsi che si trattasse di un’attività contemplativa. Eichmann poteva anche aver perso la sua scrivania, ma la sua mentalità era rimasta invariata. Inoltre quello che lo spingeva a scrivere non era la volontà di capire il suo operato, ma quella di difendersi dall’unanime condanna delle azioni che aveva compiuto nell’esercizio delle sue funzioni. Eichmann non era alla ricerca della verità, ma di una giustificazione plausibile a cui appigliarsi in caso di necessità.
Probabilmente già ai tempi della prigionia, quando veniva sottoposto a continui interrogatori, aveva riflettuto sul modo di presentare la sua anomala carriera per mondarla di quante più colpe possibile. Le notizie dei numerosi processi intentati contro i suoi superiori e colleghi gli fecero supporre che sarebbe finito anche lui in tribunale, se non come accusato, almeno come testimone. Eichmann aveva condotto abbastanza interrogatori da sapere che non se la sarebbe cavata con una semplice bugia. Tuttavia la verità era così mostruosa che non si poteva dire, nemmeno indorando un po’ la pillola. Forse ci si poteva lasciare andare a concordare con i comandanti di Auschwitz, davanti a un bicchiere di vino rosso, che lo sterminio di milioni di ebrei non era nient’altro che “una mattanza di cui non si sarebbero più dovute macchiare le generazioni future”, ma Eichmann era abbastanza intelligente da capire che la maggioranza dei contemporanei non avrebbe capito quel punto di vista. Mentre i più in quel periodo storico volevano solo dimenticare e rimuovere a chi e a cosa erano andati dietro per dodici lunghi anni, per il convinto nazionalsocialista, ricercato per crimini contro l’umanità, la guerra non era affatto finita.
Eichmann non ha mai negato di aver letto fin dal principio cosa veniva raccontato e scritto sullo sterminio degli ebrei. “Nel fitto della foresta”, raccontò un po’ imprudentemente, “mi fu portata una catasta di vecchi giornali nei quali figuravano articoli su di me. Titolavano ‘lo sterminatore Eichmann’, ‘dove si nasconde lo sterminatore’, ‘dove si nasconde Eichmann’ e via dicendo”. I suoi colloqui e le sue dichiarazioni successive dimostrano che effettivamente conosceva bene i principali testi e avvenimenti del tempo, anche se non è del tutto chiaro a quando risalgano quelle letture. Noi possiamo solo cercare di capire cosa avesse potuto leggere fino a quel momento, senza tuttavia poter escludere che sia entrato in contatto con quelle fonti solo in un secondo tempo. Il primo libro che avrebbe poi citato di continuo è Der SS-Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, un lavoro basato sui racconti del campo di Buchenwald e curato da un gruppo di ex internati incaricati delle autorità militari americane. Il libro, pubblicato nel 1946, avvalorava la tesi che i responsabili fossero un manipolo di sadici perversi e asociali, tesi che Eichmann doveva trovare tanto offensiva quanto provocatoria. Si discostava in pieno dalla sua visione dei vertici del nazionalsocialismo come una nuova élite della quale lui stesso aveva fatto parte con convinzione. Inoltre Eichmann dovette venire ben presto a conoscenza dai giornali e dagli opuscoli delle dichiarazioni di Höttl e Wisliceny*, che ebbero grande risonanza sulla stampa. Stando alle sue dichiarazioni inoltre avrebbe letto Das Urteil von Nürnberg (la Sentenza di Norimberga) quando era ancora nel nord della Germania. Si sarebbe trattato dell’edizione di Robert M.W. Kemper, pubblicata nell’autunno del 1946. Non ci sono motivi per escludere che Eichmann leggesse pubblicazioni di quel tipo mentre faceva il tagliaboschi, perché evidentemente nell’“isola” i discorsi nostalgici di politica erano una consuetudine. Persone che vivevano nei dintorni ricordano ancora oggi che il gruppo di uomini confinati nella foresta, di cui faceva parte anche la crocerossina Ruth, di sera era un punto di ritrovo piacevole se si desiderava bere una birra e chiacchierare dei tempi andati. Brochure di quel tipo oltretutto non comportavano nessuna spesa, perché venivano anche distribuite dalle forze di occupazione inglesi nell’intento di fare chiarezza sui fatti. In ogni caso, nel 1948, quando Eichmann si trasferì dalla foresta nella piccola località di Altensalzkoth e si insediò in una fattoria dove allevava polli, un interesse di quel tipo avrebbe finito per dare nell’occhio. Tuttavia Eichmann, ritornando con la memoria a quel tempo sostenne il contrario: “La vita in quella bella brughiera scorreva tranquilla. Di domenica andavo in bicicletta nella locanda vicino a Celle […] A volte mi scappava da ridere quando l’oste mi raccontava ciò che scrivevano i giornali su Eichmann. ‘Probabilmente sono tutte bugie e invenzioni’,si premurava di dire, – e questo mi rendeva felice e contento”. (Meine Flucht, p. 11 e seguente)
Ma non furono solo gli articoli di giornale e i libri a mettere Eichmann davanti al suo ruolo speciale nella storia, vi contribuì anche l’ambiente circostante. La sua nuova dimora si trovava a pochi chilometri di distanza dall’ex campo di concentramento di Bergen-Belsen, che nel frattempo era diventato un campo per le displaced persons, una sistemazione transitoria per coloro che erano sopravvissuti al terrore nazista e non avevano più né casa né patria. Quindi Eichmann viveva nelle immediate vicinanze delle sue vittime, solo che ora faceva l’allevatore di polli anziché il carnefice. In Argentina avrebbe usato quello scenario spettrale per compiacere Sassen: “Nella Landa di Luneburgo, vicino al campo di concentramento di Bergen-Belsen, si sentiva odore di aglio dappertutto e c’erano solo ebrei in giro, del resto chi altro commerciava in quel periodo? Solo gli ebrei e a quel punto mi sono detto, io che avevo negoziato legno e uova con gli ebrei, sì, mi sono stupito e meravigliato e ho pensato, vedi un po’, porca di quella miseria, dovrebbero essere tutti morti, invece trattano con me, i giovanotti, non è vero?”.
Però, a dispetto di tutte quelle disgustose spacconate da nazista al cospetto di vecchi camerati, la vicinanza del campo di Bergen-Belsen gli poneva un problema ben diverso, anche se ne parlò solo di sfuggita e in modo generico: “in quegli anni non mi abbandonò mai la paura che ci fosse qualcuno alle mie spalle sul punto di urlare ‘Eichmann!’” (Meine Flucht, p. 22). Evidentemente guardarsi allo specchio non gli creava problemi di sorta.
*Ufficiali nazisti, supertestimoni nel corso del Processo di Norimberga [ndr]