N ella sua autobiografia rimasta incompiuta, Smile Please, Jean Rhys racconta di come ha iniziato a scrivere. Si trova a Londra, all’inizio degli anni ’20, sola e senza un lavoro. Viene mantenuta da un ex amante, un uomo molto più grande di lei, e si sposta da una pensione all’altra, vivendo in spoglie stanze in affitto indistinguibili l’una dall’altra: un letto, un armadio, un tavolo. Per rimediare a questo deprimente anonimato, un giorno compra delle penne a inchiostro e dei quaderni neri, spessi e con la copertina lucida. Quella sera il tavolo sembra meno nudo e brutto, Jean apre un quaderno e scrive Questo è il mio diario. “Ma non era un diario. Ricordavo tutto ciò che mi era accaduto. Ricordavo quello che mi aveva detto e come m’ero sentita. Scrissi fino a tardi, fino a che fui così stanca da non poter più continuare e mi buttai sul letto a dormire”. Una volta riempiti tre quaderni, li mette sul fondo della sua valigia. La accompagneranno in Francia, Austria, Olanda e poi ancora Inghilterra, ma passeranno sette anni prima di essere aperti di nuovo. Raccontano di una ballerina di fila originaria delle Indie Occidentali, emarginata e umiliata in una Londra ostile, e diventeranno il nucleo di Voyage in the Dark (1934). Come tutti i successivi romanzi e racconti, fino al più famoso Wide Sargasso Sea, raccontano la storia di donne ai margini della società, spaesate, dall’identità confusa, spesso rinnegate. La storia della loro autrice.
Nata in Dominica nel 1890, Ella Gwendoline Rees William (il vero nome di Jean Rhys) è figlia di padre inglese e madre creola di origine scozzese. Cresce circondata dalla servitù di colore e dal suono delle filastrocche in patois; dalla comunità di coloni bianchi che ricordano con nostalgia i tempi in cui la schiavitù non era ancora stata abolita, e organizzano balli eleganti per scacciare la noia e la sensazione di estraneità. Sono anni irrequieti nelle Indie Occidentali, in cui i bianchi sono una minoranza assediata dalla vegetazione lussureggiante e dal risentimento della popolazione locale; anni in cui le piantagioni prendono fuoco e le risate della servitù hanno un’eco sinistra.
Nei suoi racconti e romanzi, Rhys torna spesso a questo ambiente che a tratti sconfina nell’irrealtà. In particolare ne Il grande mare dei Sargassi, il libro in cui narra il prequel di Jane Eyre, immagina l’infanzia caraibica di Antoinette Cosway Mason – quella che diventerà la mad woman in the attic nel romanzo di Charlotte Bronte. È un’infanzia che assomiglia alla sua, trascorsa nella tenuta romanzata di Coulibri, con una madre assente e un sentimento ambiguo nei confronti della gente di colore, che oscilla tra la circospezione e la fascinazione. Se questo ambiente in fondo indomabile delle Indie Occidentali è per lei casa, l’effetto che fa al giovane Mr. Rochester venuto dall’Inghilterra per sposarla e arricchirsi con la sua dote, è impressionante.
Nella seconda parte del romanzo, raccontata dal suo punto di vista, la luna di miele in Giamaica si trasforma in uno scontro tra natura e cultura che ricorda a tratti il cuore di tenebra di Conrad. Lì tutto è semplicemente troppo: “Tutto è eccessivo, pensai mentre cavalcavo stancamente dietro di lei. Troppo azzurro, troppo porpora, troppo verde. I fiori troppo rossi, i monti troppo alti, i colli troppo vicini. E questa donna è un’estranea”. Per Mr. Rochester, questa terra conquistata dai suoi antenati e dominata per secoli è incomprensibile e affascinante al tempo stesso. Lo attira con i profumi dei fiori notturni e lo respinge con i riti voodoo della servitù, con la follia che si insinua nei pensieri della moglie e gliela rende sempre più estranea:
Odiavo le montagne e le colline, i fiumi e la pioggia. Odiavo i suoi tramonti qualunque colore avessero, odiavo la sua bellezza e la sua magia e il segreto che non avrei mai conosciuto. Odiavo la sua indifferenza e la crudeltà che faceva parte del suo incanto. Soprattutto odiavo lei. Perché lei apparteneva a quella magia e a quell’incanto. Mi aveva lasciato assetato e tutta la mia vita sarebbe stata sete e desiderio di ciò che avevo perduto prima ancora di trovarlo.
L’essenza di questo luogo inafferrabile ha un effetto diverso su chi ci è cresciuto. Nella sua autobiografia, Rhys nota che “È strano crescere in un posto molto bello e rendersene conto. Era vivo, ne ero sicura. Dietro i colori brillanti la morbidezza: le isole come nuvole e le nuvole come colline immaginarie”. A sedici anni deve lasciare questo posto molto bello per andare a studiare in Inghilterra: leggendo “Ouverture e principianti, prego”, uno dei racconti contenuti nella raccolta Io una volta abitavo qui (Adelphi, 2017), si capisce quanto in fretta la sua vita cambi da questo momento in poi. La prosa vivida con cui descriveva l’ambiente delle Indie Occidentali lascia il passo a frasi più scarne, e la sensazione di disagio che prova al collegio assume dimensioni fisiche: “Era una giornata giallastra. Non così tremenda come quelle bianche e splendenti di gelo e di vento, ma brutta. Il cielo aveva il colore della disperazione; ma loro non se ne accorgono, pensai, ci sono abituate, si aspettano che mi ci abitui anch’io. […] Restai ferma accanto alla finestra, al freddo, e pensai: «Che cosa sarà di me? Che cosa ci faccio, io, qui?»”.
È una sensazione di spaesamento che non l’abbandonerà più. Alla mancanza di casa si può rispondere in due modi: tornando con la mente ai luoghi del passato, oppure cercandone una nuova. Jean Rhys li prova entrambi, ma la via del ricordo non sembra percorribile: “Ricordavo le stelle, ma non la luna. Era una luna diversa, ma come? Non lo sapevo, ricordavo le ombre degli alberi con più chiarezza degli alberi stessi, il rumore della pioggia ma non il suono della voce di mia madre. Solo vagamente. Ricordavo l’odore della polvere e del caldo, la frescura delle felci ma non il profumo dei fiori. Le montagne, poi, le colline e il mare, non erano lontani migliaia di miglia, ma anni luce”.
L’immagine di casa è composta da assenze più che da presenze, ci sono buchi nel ricordo da cui entrano la nebbia, il grigiore e il freddo londinesi. Non le resta allora che cercare un altro posto. Lascia il collegio dopo sei mesi per iscriversi a una scuola di recitazione, la abbandona, diventa ballerina di fila e parte per una tournée. A questo punto non ci sarà più niente di simile a una casa, ma solo pensioni, case in affitto, camere d’albergo. “Spostandomi di stanza in stanza in questo scuro, freddo paese che era l’Inghilterra, non seppi mai cosa mi spronasse e mi desse l’assoluta certezza che ci sarebbe stato sicuramente qualcosa per me tra poco”, ricorda nella sua autobiografia. Vive alla giornata, cercando di procurarsi i soldi per dormire e mangiare. Quando non riesce, chiede aiuto a qualche uomo. È a questo punto della sua vita che la troviamo a Londra, in una stanza spoglia, intenta a scrivere sui quaderni neri dalla copertina lucida. Il trasferimento a Parigi con il primo marito sembra un nuovo inizio. Le piacciono i café all’aperto, il cielo azzurro e il senso di libertà che prova in questa città.
Eppure c’erano momenti in cui si rendeva conto che la sua esistenza, per quanto fosse gradevole, era scombinata. Mancava, per così dire, di una base; mancava della necessaria solidità. Una camera con balcone e cabinet de toilette in una pensioncina di Montmartre non poteva sicuramente dirsi una solida base.
Riassume così nel suo primo romanzo, Quartetto (1928), la sensazione di provvisorietà di questa vita. Qualche anno dopo il loro arrivo a Parigi, il marito è in carcere per truffa, e Rhys si ritrova ancora una volta sola e senza un soldo. Entra a far parte dell’ambiente bohémien e del circolo di artisti anglosassoni; conosce Ford Madox Ford che a quel tempo dirigeva a Parigi la Transatlantic Review su cui pubblicava gli scritti di Hemingway, Joyce e Stein. In poco tempo diventa la sua protégé e si ritrova a dipendere completamente da lui, economicamente e affettivamente. Sarà lui a darle il nome Jean Rhys, a incoraggiarla a trasformare le sue esperienze in racconti pubblicabili e a coinvolgerla in un soffocante ménage à trois. “Mi sembra adesso che l’intero affare di sesso e denaro sia mescolato a qualcosa di molto profondo e primitivo. Quando si prendono direttamente dei soldi da qualcuno che si ama diventano non denaro, ma un simbolo” scrive la Rhys ottantenne nella sua autobiografia, ma al tempo del suo primo romanzo lascia commentare la faccenda a Mrs Heiden, la versione romanzata della compagna di Ford: “Le donne non devono dare fastidio. Io non do fastidio; sorrido e sopporto, e penso che anche le altre dovrebbero sorridere e sopportare”.
Se gli anni a Londra sono dominati da una sensazione di freddo, quelli parigini sono scanditi dalla fame, da passeggiate in strade buie e malfamate, da pastis bevuti in sordidi café tra le vie di Montparnasse. Sono anni che sembrano trascinarsi a fatica, spesso uguali, e anche la sua narrazione riflette questo girare in tondo della mente, la sensazione di mancanza di vie d’uscita. I racconti si somigliano tra loro e hanno titoli come “Fame” e “Discorso di una signora che offre la cena a un’amica spiantata”, le protagoniste sono donne indolenti e al limite della nevrosi, ma incapaci di rassegnarsi, con una quantità minima di spirito di rivolta che le costringe a vivere ai margini. Nelle camere che frequentano “aleggiava un’atmosfera di amori ormai svaniti ed effimeri, simile a una fragranza stantia, perché l’albergo offriva ospitalità senza riserve, alla stregua di quasi tutti gli alberghi vicini, ancorché tranquilla e discreta”; gli uomini con cui si incontrano danno loro appuntamento
in qualche caffè, ovvio. Lo scenario di sempre. Camerieri amabili, nuvole di fumo, odore di alcolici. Lei si sarebbe seduta tutta tremante e lui sarebbe stato freddo, un po’ impaziente, forse un po’ nervoso. Poi lei avrebbe cercato di spiegare e lui di ascoltare con espressione calma. Da padrone. «Certo che vuoi dei soldi» avrebbe pensato lui.
Dopo essere tornata in Inghilterra e aver pubblicato dei romanzi e raccolte, Jean Rhys sparisce per vent’anni. La ritroviamo in Devon, ormai settantenne, alla pubblicazione de Il grande mare dei Sargassi (1966) che le varrà dei premi letterari e la consacrerà come scrittrice. “Un successo arrivato troppo tardi”, commenta l’autrice. Ma con quest’ultimo libro Rhys può tornare alle origini e cercare un compromesso, o una rivincita, con la cultura inglese ufficiale. Ricostruendo l’infanzia di Antoinette, la tenuta selvaggia nella foresta, quella bellezza estrema ed esasperante in cui è cresciuta, dà al lettore la possibilità di sentire la sua voce. Crea un contrappunto alla versione di Mr. Rochester, a quell’idea che prende forma nella sua mente e determinerà il futuro di Antoinette: “Bevvi ancora un po’ di rum e, mentre bevevo, disegnai una casa in mezzo agli alberi. Divisi in stanze il terzo piano e in una di queste disegnai una donna in piedi – uno scarabocchio infantile: un punto per la testa, un punto più grosso per il corpo, un triangolo per la gonna, delle linee oblique per le braccia e i piedi. Ma era una casa inglese”.
L’immaginazione di Rochester ha già creato un luogo per la matta in soffitta, e a quel punto non serve molto prima che si trasformi in realtà. Porta la moglie – che ha rinominato Bertha, sottraendo alla sua mente incerta l’ultimo legame con l’identità passata – in Inghilterra e la chiude al terzo piano di Thornfield Hall. Il resto è storia di Jane Eyre, ma almeno Antoinette ha trovato una voce.