E sistono due tipi di ferrovia sotterranea. La prima è una ferrovia vera e propria, un tunnel di sei metri di diametro che si insinua in profondità, attraversando le viscere di un’America sull’orlo della Guerra Civile. L’altra è una ferrovia senza binari o treni che li percorrano, è il nome in codice di un’infrastruttura invisibile fatta di uomini, messaggi in codice, nascondigli precari e stazioni di posta improvvisate, un corridoio invisibile che consentiva agli schiavi liberati di scappare dal sud schiavista e inoltrarsi nel Nord abolizionista, nei territori dell’Ovest o, meglio ancora, in Canada. La prima ferrovia appartiene alla mitologia, la seconda appartiene alla Storia. Ne La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead si concentra sul mito per raccontare la Storia: la ferrovia sotterranea che la sua protagonista utilizza per scappare da una piantagione in Georgia è pura invenzione, ma il paese che attraversa è drammaticamente simile a quello reale.
I binari del mito
Siamo negli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti non hanno ancora compiuto cent’anni e già sono spaccati lungo la linea Mason-Dixon che separa la Pennsylvania dal Maryland, dal Delaware e dalla Virginia Occidentale. A nord ci sono i cosiddetti “stati liberi”, in cui la schiavitù è stata ufficialmente abolita; a sud ci sono gli stati schiavisti, che basano la propria economia in massima parte sulla produzione di cotone e sulla tratta interna degli schiavi afroamericani. I primi tentativi di organizzare una rete deputata al salvataggio dei fuggitivi risalgono già alla fine del diciassettesimo secolo, ma è nella prima metà dell’Ottocento che il flusso di schiavi in fuga diventa regolare.
Abolizionisti e schiavi liberati hanno sviluppato un sistema sofisticato per consentire a migliaia di schiavi di trovare riparo lontano dalle piantagioni dei loro padroni: i fuggitivi si preparano cantando sibilline canzoni i cui testi nascondono informazioni sui percorsi di fuga, trovano riparo in dormitori, chiese, magazzini, fienili, trasmettono messaggi in codice sfruttando i giornali, i portalettere e i marinai neri, e lungo il percorso trovano volontari abolizionisti che forniscono loro cibo e mezzi di trasporto. Questa “ferrovia sotterranea” (che nel romanzo di Whitehead si estende fino a raggiungere la Georgia e altri stati del Sud) si dirama quasi unicamente nei territori del Nord, e questo la dice lunga su quanto effettivamente “liberi” fossero gli stati abolizionisti.
Nella prima metà del XVII la tensione tra schiavisti e abolizionisti ha già raggiunto il limite, ma è solo nel 1850 che le crepe si fanno strutturali. A settembre il Congresso ha approvato una serie di misure, note come il Compromesso del 1850, volte a stemperare la tensione tra Nord e Sud. La fine della Guerra Messico – Stati Uniti, nel 1848, aveva portato all’annessione di territori (come il New Mexico, lo Utah e la California) che non avevano terreni adatti alle piantagioni e dunque avevano meno interesse nel mantenimento delle leggi schiaviste: per rassicurare gli stati schiavisti, il Compromesso introduce un nuovo provvedimento che consente ai padroni del sud di “recuperare” più facilmente gli schiavi fuggiti. Il nuovo Fugitive Slave Act impone agli ufficiali giudiziari federali di tutti gli stati e i territori americani, compresi quelli in cui la schiavitù era stata abolita, di cooperare nella cattura dei fuggitivi. Questo significa che, anche se uno schiavo riesce a raggiungere gli stati del Nord, la legge consente a qualunque cacciatore di taglie di arrestarlo, riportarlo al suo padrone e ricevere un lauta ricompensa. E poiché non èrichiesta una vera documentazione per dimostrare che quella persona sia effettivamente uno schiavo, questa legge da vita a un business tutto nuovo: nel giro di poco tempo il paese comincia a brulicare di cacciatori di schiavi che non si fanno troppi problemi a catturare liberi cittadini, sapendo che poi comunque, in un tribunale di bianchi, nessuno vorrà ascoltare la loro versione.
È questa la congiuntura storica in cui è ambientato La ferrovia sotterranea, settimo romanzo dello scrittore americano Colson Whitehead e prima opera da vent’anni a questa parte a vincere contemporaneamente Premio Pulitzer e National Book Award. Il libro, in uscita il nella collana Big Sur (traduzione di Martina Testa), racconta la storia di una ragazza nata schiava in una piantagione della Georgia. Cora è orfana: quando era ancora bambina sua madre Mabel è fuggita dalla piantagione, lasciandola completamente sola. Crescendo, la ragazza ha dovuto imparare a badare a se stessa, a farsi rispettare dagli altri schiavi, a sopportare in silenzio gli incessanti soprusi dei suoi padroni. Un giorno uno schiavo di nome Caesar la convince a fuggire: se seguono le giuste indicazioni, con qualche giorno di cammino e tanta fortuna, possono raggiungere la più vicina stazione della leggendaria Ferrovia Sotterranea.
Comincia così una storia di evasioni e nascondigli, di orrori e speranze, una fuga che segue il percorso buio di un treno sotterraneo, alimentata tanto dal miraggio della libertà quanto dalla necessità di allontanarsi da uno spietato cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, che dopo aver fallito con la madre di Cora, ha fatto della cattura della figlia una questione personale. Sulla carta, dovrebbe essere una storia di fantasia, dal momento che come abbiamo detto la Ferrovia Sotterranea non ha mai avuto dei binari reali; eppure il romanzo ha un valore storico innegabile. Nonostante l’impostazione dichiaratamente allegorica, a muovere la penna di Whitehead è infatti la volontà di cristallizzare una verità storica che ancora oggi, a 152 anni di distanza dalla firma del XIII emendamento, alcuni hanno interesse a mantenere liquida.
L’embrione del razzismo a venire
C’è una scena, nel quarto capitolo, in cui Cora raggiunge la Carolina del Sud e si ritrova in una situazione inaspettatamente tranquilla. In paese i bianchi e gli schiavi liberati condividono parte della vita sociale: ai neri sono riservate delle abitazioni dignitose, delle posizioni lavorative e persino regolari visite mediche. Frastornata da questo repentino cambio di vita, Cora inizia a lavorare in un museo dove la tratta degli schiavi è stata ricostruita in tre diversi allestimenti tematici, dalla vita in Africa, al viaggio sulle navi per arrivare alla quotidianità delle piantagioni. Cora, ormai tecnicamente una cittadina libera (seppur sotto falso nome), per lavoro deve indossare vestiti da schiava e recitare il ruolo che ha ricoperto suo malgrado per tutta la vita. La versione della verità che il museo offre ai bianchi che lo visitano, tuttavia, è assai più edulcorata di quella che la ragazza ha conosciuto.
Non c’erano mai stati ragazzini rapiti che strofinavano il ponte con lo straccio e si guadagnavano pacche sulla testa dai rapitori bianchi. L’intraprendente ragazzino africano di cui lei portava ai piedi i begli scarponcini di cuoio sarebbe stato in catene sotto coperta, a rivoltarsi nelle sue stesse feci. […] La verità era la vetrina di un negozio in perenne cambiamento, manipolata da mani altrui mentre non guardavi, seducente e mai davvero a portata di mano.
Alcune pagine dopo, Cora viene a scoprire che il limbo in cui si sta abituando a vivere è in realtà l’anticamera di un altro tipo di inferno. Le visite mediche a cui gli ex-schiavi sono periodicamente sottoposti hanno un secondo fine: i neri vengono utilizzati come cavie per lo studio della sifilide. Il dettaglio storico è già di per sé atroce, poiché, descrivendo una vessazione subdola e sistematica in una situazione di sbandierata “uguaglianza”, si pone come anticipazione delle prevaricazioni che avrebbero continuato ad avvelenare l’america post-schiavista; ma assume una rilevanza maggiore se posto in relazione a quanto accadeva negli Stati Uniti ancora nel ‘900.
Il riferimento alla sifilide non è casuale, chiama implicitamente in causa gli esperimenti condotti negli anni ’30 a Tuskegee, in Alabama. Nel 1932, i ricercatori dello U.S. Public Health Service reclutarono 600 mezzadri di colore della zona (399 avevano già la sifilide, i restanti invece erano sani), offrendo loro pasti gratuiti e assistenza medica a patto che accettassero di partecipare allo studio. I pazienti non erano stati informati della propria condizione clinica, gli era stato solamente detto che il “trattamento” sarebbe durato sei mesi. L’esperimento andò avanti per quarant’anni. A partire dagli anni ’40, grazie all’utilizzo della penicillina, la sifilide finalmente poteva essere trattata: nessuno dei partecipanti però venne informato dell’esistenza del nuovo trattamento; di fatto, vennero tutti sfruttati come cavie inconsapevoli di un esperimento a lunghissimo termine, senza preoccuparsi che la malattia potesse diffondersi o che alcuni dei pazienti ne stessero morendo. Lo studio proseguì finché la stampa non cominciò a interessarsi alla questione portando a galla lo scandalo. Era il 1972: meno di cinquant’anni fa.
La violenza della paura, l’illusione della libertà
Questo gioco di specchi temporali continua in tutto il libro: Cora attraversa gli Stati Uniti pre-Guerra di Secessione, ma anche l’America delle leggi Jim Crow (che implementarono una vera e propria segregazione fino al 1965), quella dell’American Colonization society (composta da abolizionisti che sognavano di trasferire tutti gli afroamericani nel neonato stato della Liberia), l’America del redlining e del racial steering, delle carceri sovraffollate e dei lavori forzati, un paese in cui oggi la quota di afroamericani uccisi ad opera di agenti di polizia è ai massimi storici.
E allora ecco che l’allegoria di Whitehead assume una portata storica più ampia degli anni in cui è ambientata: la Ferrovia Sotterranea non è solo una metafora del formidabile impegno collettivo che, a fronte di enormi rischi, garantì la salvezza a circa 50.000 schiavi; è anche una metafora del percorso storico compiuto dagli USA dalla Guerra Civile ad oggi: quella che doveva essere una transizione dallo schiavismo all’emancipazione fu in realtà un passaggio da una schiavitù esplicitamente sancita dalla legge a un diverso tipo di subalternità, più subdolo, consentito dalle lacune legislative e alimentato dall’insopprimibile convinzione bianca che i neri vadano amministrati, controllati e, soprattutto, temuti:
Era gente spinta dalla paura, più ancora che dai soldi del cotone. L’ombra della mano nera che viene a restituire ciò che le è stato dato. […] E per via di quella paura avevano eretto una nuova struttura di oppressione sulle fondamenta crudeli poste centinaia di anni prima.
Nel corso del libro, Cora passa un tempo relativamente breve in catene, la sensazione però è che ovunque si trovi debba rannicchiarsi, rimpicciolirsi, rendersi invisibile. Il tunnel buio e basso della ferrovia sotterranea non è che il riflesso di una condizione claustrofobica in cui la fuga è l’unica opzione ma la libertà sembra più un miraggio che un traguardo. Quello che nelle speranze di Cora dovrebbe essere un passaggio graduale verso la libertà, si rivela ben presto un’illusione: in Georgia c’erano le piantagioni, in Sud Carolina gli esperimenti di eugenetica, in Nord Carolina una sistematica epurazione etnica, in Indiana il Sogno dei bianchi contagia i neri mettendoli uno contro l’altro.
Il razzismo palese del sud andando a nord cambia colore, attraversa differenti processi di cosmesi, ma il suo nucleo rimane intatto. A un certo punto Cora chiede a Ridgeway, il cacciatore di schiavi che la tiene in catene, come mai abbia con sé un bambino di colore che gli fa da cocchiere. Ridgeway le confida di non aver mai posseduto uno schiavo, e che Homer l’ha comprato e liberato dopo poche ore. A quel punto, Cora domanda:
“Se lui è libero, perché non se ne va?”“E dove?”, chiese Ridgeway. “Ha visto abbastanza per capire che un ragazzino nero non ha futuro, con o senza le carte dell’emancipazione. In questo paese, è impossibile. Qualche poco di buono lo rapirebbe e lo rimetterebbe in vendita in quattro e quattr’otto. Con me, se non altro può conoscere il mondo. Trovare uno scopo nella vita.”
Ogni sera, con cura meticolosa, Homer apriva la sua tracolla e tirava fuori delle manette. Si legava al sedile del guidatore, si metteva la chiave in tasca e chiudeva gli occhi.
Ridgeway si accorse che Cora lo guardava. “Dice che riesce a dormire solo così.”
Un treno che deve ancora raggiungere destinazione
La pressione claustrofobica sperimentata da Cora evoca da lontano quella che oggi affligge la popolazione afroamericana negli States, e ricorda da vicino quella che impedì ad Harriet Tubman di accontarsi dell’angolo di libertà che la fuga le aveva concesso. Nata schiava nel 1820, Araminta Ross crebbe insieme ai genitori e ai fratelli in una piantagione del Maryland. Dopo aver subito (come Cora) un violento trauma cranico da parte del padrone , la sua salute cominciò a deperire e il suo valore di schiava diminuì. Per evitare di essere venduta, la donna assunse il nome di Harriet Tubman e fuggì a Philadelphia grazie al supporto della Ferrovia Sotterranea.
Negli anni seguenti tornò ben diciannove volte a sud della linea Mason-Dixon: non si limitò a salvare la propria famiglia, si spese in prima persona per portare in salvo circa 300 fuggitivi. Oggi, insieme a Frederick Douglass, John Brown e William Still, Tubman è considerata una delle più importanti “conducenti” della Ferrovia Sottterranea. Nel 2015 Barack Obama ha proposto di introdurre il suo volto sulle nuove banconote da 20 dollari; difficilmente però l’amministrazione Trump darà corso al progetto.
La storia di Harriet Tubman, così come quella di William M. Mitchell (l’unico ad aver scritto esplicitamente della Ferrovia Sotterranea mentre questa era ancora illegale), rappresenta una delle rare testimonianze di un sistema che, per ovvie ragioni, doveva essere mantenuto nella segretezza più totale. Negli anni, la finzione è intervenuta a riempire le lacune storiche. Parlo di opere come La capanna dello Zio Tom di Harriet Beecher Stowe (1854), ma anche di serie televisive come la recente Underground di Misha Green e Joe Pokaski (2016). Il romanzo di Whitehead si inserisce in questo solco, ma la sua impostazione allegorica ha consentito all’autore di utilizzare la storia di Cora come prisma per scomporre e rendere visibili le declinazioni contemporanee di un razzismo che non ha mai veramente cambiato natura.
Oggi, a 160 anni dagli eventi narrati nel romanzo, negli USA il divario tra la popolazione bianca e quella afroamericana negli ultimi 25 anni è addirittura andato peggiorando: il patrimonio di una famiglia bianca è in media 13 volte superiore a quello di una famiglia nera, solo il 42% degli afroamericani ha una casa di proprietà (contro il 72% dei bianchi) e la disoccupazione della comunità nera è al 9,2% (tra i bianchi non supera il 4,4%). Stando alla leggenda, i tunnel della ferrovia sotterranea si spingevano fino a toccare il confine con il Canada. Nella realtà, il treno dell’emancipazione si è fermato alle prime stazioni: a Nord ci deve ancora arrivare. Concettualmente parlando, quella stazione al momento nemmeno esiste.