U n titolo evocativo e un corredo testuale quasi inesistente, salvo una breve nota di chiusura: Cesare Fabbri lascia esclusivamente alle sue fotografie il compito di illustrare il cammino, o meglio il vagabondare, di The Flying Carpet, il suo ultimo lavoro pubblicato la scorsa primavera dall’editore inglese MACK. A prima vista si lo si potrebbe etichettare come un libro di fotografia di paesaggio, fermandosi al dato visibile che le immagini mostrano: strade di campagna, cortili, esterni di botteghe perse in una provincia imprecisata. Ma più che paesaggi le fotografie di Fabbri andrebbero descritte come delle scene, teatri minimi dove anche se in apparenza nulla accade, l’apparente riconoscibilità delle cose viene messa in discussione da una moltitudine di piccole dissonanze che rendono il familiare improvvisamente estraneo.
Una tubatura abbandonata sta ritta su un paletto come fosse un serpente destato dallo sguardo che lo osserva, un birillo da segnalazione stradale abbandonato sembra il copricapo di un mago, la porta di una capanna ha un grande occhio dipinto, trasformandosi in un volto: Fabbri gioca con il senso di familiarità di luoghi dati per scontati, trasformandoli in degli indovinelli visivi. Porta sulla scena il paesaggio che siamo abituati a percorrere ma che non visitiamo mai, lo spazio attraversato che viene visto ma non osservato. Luoghi dati per scontati, che poi sono gli stessi cercati da quella che forse è stata la più importante scuola di fotografia di paesaggio italiana: nelle sue fotografie vediamo la stessa campagna emiliana visitata dallo sguardo di Luigi Ghirri, di Guido Guidi, visitiamo lo stesso paesaggio marginale di cui scriveva Arturo Carlo Quintavalle nell’introduzione a Viaggio in Italia, lavoro collettivo del 1984 curato dallo stesso Ghirri che ha introdotto in Italia una fotografia in cerca del non visto, dei luoghi anonimi e dimenticati della nostra esistenza quotidiana. Scriveva Quintavalle nell’introduzione al volume che accompagnava la mostra del Viaggio:
Così il problema era di porsi di fronte al paesaggio come luogo ignorato e quindi emarginato, escluso. Una ricerca dell’Italia dei margini, dell’ambiguità, del finto, del doppio, dell’Italia sostanzialmente esclusa, dell’Italia che però è anche la sola che noi conosciamo, comprendiamo, viviamo perché è la sola che possiamo considerare in diretto rapporto con la nostra dissociata esistenza.
Mentre Quintavalle invitava a esplorare i margini per contenere le derive solipsiste del pensiero moderno, Fabbri porta invece l’accento sulla capacità di scoperta e di sorpresa che ritiene intrinseca alla fotografia: “A volte le cose possono diventare invisibili perché troppo familiari”, scrive nel brevissimo testo alla fine del libro. “Le fotografie ci permettono di riscoprire e di vedere per la prima volta qualcosa che stava davanti ai nostri occhi.”
Molte sono le differenze tra le varie ricerche fotografiche di trent’anni fa e lo sguardo di Fabbri: Ghirri fotografava per riflettere su quanto il già visto e il già fotografato potessero condizionare la nostra esperienza dei luoghi, quanto la nostra memoria fosse fatta di rappresentazioni costruite, piuttosto che delle scoperte fatte dal nostro sguardo; le immagini di Guidi schiudono la complessità di luoghi apparentemente semplicissimi, portando in una dimensione metafisica un immaginario spesso relegato a un’idea sempre uguale della piccola provincia. Fabbri invita a perdersi, come se la fotografie fossero il nascondersi ludico delle cose, va a confrontarsi ironicamente con un canone fotografico proprio nella stessa geografia in cui questo canone ha posto le sue basi storiche.
The Flying Carpet diventa così un’occasione per ripensare a certe esperienze fondative dell’idea di modernità fotografica in Italia, applicando agli stessi scenari una visione stilisticamente affine a quella dei suoi predecessori, ma proponendo un’ulteriore scarto nel ruolo dell’immagine fotografica: non documento ma piuttosto possibilità di perdersi nel reale per sperimentare nuovi modi di osservare, rivendicando così la libertà di giocare col senso di ciò che vediamo fotografato.