The Handmaid’s Tale arriva in Italia su TIMvision il 28 settembre dopo gli Emmy 2017, dove ha vinto il premio come Migliore Serie Drammatica, Migliore Attrice Drammatica (andato a Elisabeth Moss, protagonista nel ruolo di Offred), migliore attrice non protagonista (Ann Dowd), Migliore Sceneggiatura, Migliore Regista, Migliore “Guest Star” femminile (Alexis Bledel), Migliore Design e Fotografia. Un trionfo meritato, per un lavoro che punta sulle donne sia nella storia che nella realizzazione. Il romanzo da cui è tratta, Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood, è stato ripubblicato proprio quest’anno in Italia da Ponte alle Grazie. Ne hanno discusso per il Tascabile Giulia Blasi e Marina Pierri, giornalista e critica televisiva. Prima di iniziare, un’avvertenza: nell’articolo vengono discussi punti nodali della trama della serie e del libro.
Giulia Blasi: Da dove cominciamo, dal fatto che una serie così importante arrivi in Italia con un simile ritardo sulla distribuzione americana, o dall’incredibile assenza del romanzo sul mercato nostrano per tutti questi anni? Cominciamo dal romanzo…
La panoramica sui diritti riproduttivi nella fantascienza è stata il mio primo articolo per il Tascabile. L’idea mi era venuta proprio confrontando le similitudini fra Il racconto dell’Ancella (che avevo letto in lingua originale perché da noi era irreperibile) e Solo per sempre tua di Louise O’Neill. Il mio argomento di base è che il diritto all’autodeterminazione e alla riproduzione entra come punto chiave in larga parte della letteratura distopica, che come sappiamo prende un fenomeno politico e sociale e lo ingigantisce portandolo alle estreme conseguenze.
Il racconto dell’Ancella è un romanzo che non perde mai la sua validità, purtroppo. Non c’è mai stato un momento della storia dell’uomo in cui il potere non sia passato per il controllo del corpo delle donne e della loro autonomia fisica e mentale. Quello che è interessante de Il racconto dell’Ancella è il suo gettare luce sulla rete di complicità femminile necessaria a mantenere in piedi il sistema patriarcale: i Comandanti sono pochi, le Marta e le Ancelle e le Zie e le Mogli sono molte. Se si coalizzassero, potrebbero distruggere il regime in pochi giorni. Invece ognuna conserva le sue posizioni, chi per sopravvivere, chi per mantenere la sua condizione di privilegio. È quello il punto che mi pare più che mai rilevante: il patriarcato si regge sulla nostra disponibilità a tenere le altre in scacco in un modo o nell’altro.
Dal giudizio moralista su Beyoncé (che non può essere femminista se esibisce il suo corpo) al paternalismo con cui si parla delle donne che scelgono di diventare madri surrogate fino al bullismo contro Tiziana Cantone, che avremmo dovuto proteggere, e invece abbiamo spinto al suicidio addossandole la colpa della violazione che ha subito. La serie, mi pare, è ancora più chiara e dettagliata in questo senso: lo spostamento dall’implacabile prima persona singolare di Offred (Difred, nella versione nostrana) al punto di vista plurale di Offred/June, Serena Joy, Emily e via dicendo, ingrandisce la questione del collaborazionismo femminile.
Marina Pierri: In tema di distopia, esiste un’intervista molto interessante apparsa su Time dove Elisabeth Moss e Margaret Atwood raccontano la serie e il libro. Per chi l’ha letto fino in fondo non è una sorpresa scoprire che l’autrice abbia deciso di utilizzare e mescolare elementi di società realmente esistite in vari momenti della storia. Quel che accade a Gilead non è un’invenzione nelle sue parti, ma nella sua totalità. Nel romanzo non c’è chiarezza sulla genesi del totalitarismo nel quale vivono le Ancelle, ma nella serie – che amplia la vicenda sotto vari punti di vista, fornendo anche contesto – viene fatto capire che a stilare le norme della nuova nazione sia stata Serena Joy assieme al marito, il Comandante Fred Waterford, di cui Offred è legittima proprietà.
Quindi torniamo a quanto dici, Giulia: il mondo de Il racconto dell’Ancella è, a quanto sappiamo, il mondo che una donna ha costruito per altre donne. Di nuovo tocca dire che non c’è precisazione sulle ragioni da cui persone come Joy siano state mosse – possiamo immaginare che si tratti di semplice ottusità, bigottismo, o desiderio di accrescimento del privilegio – ma sappiamo che grande attenzione è stata posta nell’ideazione di un sistema rassicurante, se non altro quanto alla facciata, per le procreatrici: viene menzionato che le Zie abbiano appositamente nomi di prodotti intimi del tempo che fu, come lo definisce Atwood, e che momenti come la Partecipazione – una cerimonia barbarica in cui le Ancelle sono spinte a linciare uomini accusati di reati sessuali – siano stati istituiti per dare modo alle Ancelle di “sfogarsi”. Non è un caso che proprio nella serie l’atto di ribellione che originerà la seconda stagione si consumi nel corso di una di queste cerimonie; e non stupisce che quell’atto di ribellione sia basato sulla sorellanza.
Per dire che è come se fosse improvvisamente emerso, e in maniera cristallina, che gran parte dei meccanismi di controllo del patriarcato poggino sulla non meglio identificata competizione femminile: parlando di televisione basti citare Feud, lo show di Ryan Murphy dove viene mostrato come le due star esuberanti Joan Crawford e Bette Davis siano state messe con coscienza (maschile) una contro l’altra; ma potrei anche citare Glow, la serie Netflix sul wrestling femminile, dove al centro dell’azione c’è ancora lo scontro tra due donne posizionate sul ring come rivali per compiacere lo sguardo maschile. Ci si limita a rilevare un cambiamento molto forte nella rappresentazione: in ciascuno di questi prodotti illuminati, la cui testa d’ariete è proprio The Handmaid’s Tale, viene mostrato che la trama asfittica di inimicizia tessuta attorno a due o più femmine non è spontanea, ma creata. È un dispositivo di controllo messo in atto, né più né più meno, attraverso meccanismi plateali o sotterranei. Questi ultimi, come nel caso di Serena Joy, possono avere a che fare con stereotipi interiorizzati, con la percezione del “ruolo che compete”, con lo stare al proprio posto. Perché il doppio legame della maternità, come illustrato da Atwood con le Ancelle, si basa sul paradosso della gravidanza come orgoglio e vergogna allo stesso tempo. Benedetto sia il frutto, meno benedetti siano i piedi gonfi, il ventre sformato, la vagina sulla quale spesso occorre agire con interventi veri e propri di sutura.
A questo proposito proprio ieri ho letto un articolo che tracciava la storia del legame (controverso) tra maternità e celebrità; dalla copertina di Demi Moore su Vanity Fair al riserbo di Kate Middleton in contrapposizione con il meme che paragonava Kim Kardashian incinta a una balena, si discuteva dei toni con il quale la stampa ha documentato negli ultimi anni il prima e il dopo del parto. La sequenza, così come identificata dalla giornalista e scrittrice Anne Helen Petersen, è sempre la stessa: tra il fortunato momento del concepimento, la cosiddetta “baby bump” (un termine contegnoso per definire la pancia che contiene il feto) e il recupero elogiatissimo della forma dopo l’evento si allarga un cono d’ombra cortese, nel quale la donna ideale secondo il canone corrente si sottrae ai riflettori in maniera modesta.
GB: Quello della perdita dell’avvenenza è un punto che nel libro, da quello che mi è sembrato di capire, è esplorato meglio: le Ancelle fanno di tutto per mantenere un aspetto giovane e sano (spalmandosi in faccia il burro o l’olio d’oliva, quando riescono a metterci le mani), nel timore di essere cacciate di casa. La perdita del bell’aspetto è un terrore per le donne di ogni epoca: nel mondo tracciato da Atwood, l’indesiderabile viene bandita e finisce i suoi giorni raccogliendo rifiuti tossici. Nel nostro mondo, l’indesiderabile – la non più giovane, l’ingrassata, la sformata – diventa invisibile. Viene bandita emotivamente. Nella serie, la mutilazione delle ancelle è all’ordine del giorno, e Zia Lydia, in uno dei primi episodi, dice chiaramente che la bellezza non conta, che si può essere fecondate anche senza un occhio o un dito. Sembra quasi che l’indesiderabilità delle Ancelle sia un punto a loro favore. A proposito: forse me lo sono perso, ma è già partita la strumentalizzazione de Il racconto dell’Ancella contro la gravidanza per altri? Mi pare che il testo si presti a meraviglia a una lettura che sottragga volontariamente dall’equazione la questione della volontà della donna.
Tornando alla questione di Serena Joy, la sua storyline – che nel libro non esiste – è interessantissima. Anche senza aver cercato conferma, è chiaro il parallelismo con figure come la conservatrice Phyllis Schlafly (da noi sarebbe Costanza Miriano, pur avendo Miriano neanche un millesimo dell’influenza di Schlafly), donne che propagandano il ritorno a valori antichi senza dar segno di accorgersi che lo stesso predellino da cui propagandano il silenzio e la sottomissione è una negazione di quel silenzio e di quella sottomissione. La loro libertà di chiedere la schiavitù è figlia delle lotte delle loro madri e nonne per i propri diritti, e paradossalmente loro stanno facendo campagna per non avere più diritto di parola in pubblico. Questo paradosso diventa evidente nella frustrazione di Serena Joy, figlia del privilegio, che pensava di avere un posto assicurato accanto ai potenti del nuovo mondo, e invece si vede chiudere letteralmente le porte in faccia. A prescindere dalla distribuzione dei meritatissimi Emmy, trovo che Yvonne Strahovski nel ruolo di Serena Joy sia la grande rivelazione della serie. Deve fare una cosa difficilissima, renderci partecipi del suo dolore e della sua frustrazione e allo stesso tempo ricordarci che lei è il nemico, non un’alleata, fare in modo che lo spettatore oscilli di continuo fra empatia e odio.
MP: No, in effetti non mi risulta che il romanzo sia stato già strumentalizzato da chi si oppone alla GPA per motivi politici o ideologici. Per quanto riguarda Strahovski, posso dirti che nel quadro di una serie magnificamente recitata da chiunque mi sembra che lei offra la performance più vivida di tutte. Ed è faccenda documentata che interpretare Serena Joy non sia stata una passeggiata: leggevo che l’attrice si è scusata con Elisabeth Moss in seguito ad alcune scene, in particolare quella dell’episodio finale che – senza rivelare troppo – nell’intervista viene chiamata “la sequenza dell’automobile”. Su Serena Joy, come giustamente dici, è stato fatto un lavoro particolare di adattamento. Nel romanzo di Atwood ha un bastone, e si presume che non sia giovane; la sua cattiveria è meno subdola e le sue motivazioni sono più trasparenti.
Nello show, al contrario, mi sono trovata spesso a compatirla o a immaginarla mossa almeno in qualche circostanza da pietà: la sensazione è che la Offred televisiva talvolta sia persino tentata di cedere a una Sindrome di Stoccolma. Ed è comunque interessante una sottigliezza: se è vero che essere bella per un’Ancella non è necessario (anzi), è anche vero che la Moglie del Comandante è sempre connotata da un’attenzione all’estetica. Sappiamo che chi appartiene al suo rango indossa abiti blu petrolio in contrasto con quelli grigioverdi delle Marta e ovviamente quelli rosso sangue delle procreatrici, ma mentre la palandrana propria delle ultime due categorie è un’uniforme, gli abiti di Serena Joy cambiano quanto a taglio e forma: sono casti, naturalmente, ma sartoriali. Simbolo di status ma anche di una desiderabilità che sembra essere vissuta come l’unico legame con una femminilità negata perché associata alla sola fecondità.
Qui vorrei agganciarmi alle Jezebel (Gezabele in traduzione), che appaiono tanto nel libro quanto nella serie: sono prostitute, costituiscono un’eccezione alla regola nella misura in cui possono truccarsi e bere o fumare e viene suggerito che il pregiudizio che esiste nei loro confronti a Gilead sia privo di senso. Il sesso per il sesso, con i vantaggi che comporta, in quella società è un’alternativa più che valida perché anche travestirsi da conigliette di Playboy reca dei benefici. Ed è a quelli che bisogna pensare. La sfumatura de Il racconto dell’Ancella che – tra le tante – mi sta a cuore, infatti, è la riflessione sulla materialità della libertà. Tutto comincia quando alle donne viene impedito di guadagnarsi da vivere. Il momento in cui le carte di credito vengono annullate, i fondi congelati e le impiegate licenziate mi dà letteralmente i brividi.
GB: A me ha fatto impressione il dettaglio del packaging dei cibi con le immagini e senza parole, perché nonostante le donne sappiano ancora leggere ci si prepara a un futuro in cui non saranno più in grado di farlo, perché i libri sono proibiti e così la loro istruzione. Sembra una cosa assurda finché non ci si ferma a pensare che nel manifesto del Fertility Day, l’iniziativa per la fertilità lanciata l’anno scorso dalla Ministra della Salute Lorenzin, l’istruzione e l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro erano riportati esplicitamente come cause della denatalità: le donne studiano, vanno a lavorare, rimandano la maternità, poi non riescono a concepire.
Quando nella serie Serena Joy parla con il marito della sua tesi sulla natalità e la fertilità come “bene comune” mi è venuto in mente il manifesto del Fertility Day con il rubinetto che gocciola e quelle stesse parole. Siamo sempre a rischio di questi sbilanciamenti, sempre costrette a tenere la guardia alta: in America la frammentazione fra Stati consente di trovare costantemente modi per aggirare gli effetti della sentenza Roe vs Wade, che è l’unica garanzia per le donne americane che vogliono abortire. Una garanzia veramente troppo fragile, anche considerato che abortire in una struttura pubblica non è possibile e bisogna rivolgersi a cliniche private, e che queste ultime non possono destinare i fondi che ricevono alle interruzioni di gravidanza. Qui da noi si utilizza la scappatoia dell’obiezione di coscienza per negare alle donne un servizio sanitario essenziale. I nostri uteri contano qualcosa solo quando sono pieni o siamo disposte o in grado di riempirli.
Una cosa che invece ho trovato interessante, rivelatrice e a suo modo divertente è che Margaret Atwood è canadese, e che anche nell’universo della serie il Canada rimane un posto sicuro dove rifugiarsi, un luogo a vocazione laica. Con tutto che il loro capo di Stato è tecnicamente una regina dall’altra parte del globo.
MP: La verità è che da quando è uscita The Handmaid’s Tale torno spesso con il pensiero al Fertility Day. Quanti cortei con tanto di cosplay abbiamo perso la possibilità di organizzare, quanti fotomontaggi non abbiamo potuto costruire ad arte e quanti sberleffi a tema ci sono stati sottratti dalla cattiva tempistica? Certo, il libro esisteva ma è stata la serie a riportarlo in auge, a piazzarlo di nuovo nel dibattito collettivo. E scherzi a parte, più penso alla campagna della ministra Lorenzin alla luce del romanzo di Atwood e più appare grottesca tanto nella forma quanto nel contenuto. Del resto definire Il racconto dell’Ancella contemporaneo – nonostante sia stato scritto nel 1984 – non è particolarmente originale. I parallelismi con quanto accade anche negli Stati Uniti oggi sono palesi. Il Canada che i protagonisti della storia vivono come un paradiso lontano è lo stesso nel quale tanta gente ha detto di voler emigrare all’indomani della vittoria del pussygrabber Trump, così come le Colonie dove vengono spedite le Nondonne (ossia le femmine non sposate e non fertili o che abbiano commesso talmente tanti reati da non servire più a nulla) echeggiano quelle russe.
Nulla è inventato, come si diceva. Come ogni buona distopia, la storia di Offred ha radici molto lunghe e molto profonde nella realtà, ma esiste un’anomalia nel romanzo rispetto a prodotti simili. È molto interessante come sia sottinteso che gli Stati Uniti nei quali è stata innestata Gilead attraverso un colpo di stato non siano gli Stati Uniti di domani. Mi spiego. Se penso a Hunger Games, a Black Mirror, a Children of Men, Mad Max, L’esercito delle 12 scimmie o Ready Player One immagino un presente che ha luogo in seguito a particolari condizioni del futuro: guerre nucleari, carestie, epidemie, depauperamento completo delle risorse naturali. Ne Il racconto dell’Ancella il disastro naturale è sottinteso ma i suoi effetti materiali sul mondo circostante sono lontani, confinati alle Colonie. Tolta l’infertilità diffusa, le donne del totalitarismo degli Angeli e degli Occhi siamo noi a tutti gli effetti. Noi, nel 1984 o nel 2017. Questo è forte, è allarmante.
Il romanzo gioca con la precarietà percepita delle nostre vittorie civili. E per farlo si serve in modo efficace dello straniamento come espediente narrativo. Uno dei passaggi che mi sono rimasti più impressi riguarda la similitudine tra la stanza assegnata a Offred nella casa di Waterford e una stanza d’albergo del tempo che fu, ossia il nostro: la protagonista dice di aver impiegato molti giorni per perlustrare la sua dimora per fare tesoro di ogni istante, dilazionando il piacere della scoperta del contenuto di un cassetto, dello stipite di una porta al tatto, delle pareti dell’armadio; a questo processo lentissimo di familiarizzazione è contrapposta la velocità con cui si passa normalmente al setaccio una camera d’hotel. Non è che uno degli esempi possibili. Atwood strappa alle Ancelle ogni licenza, anche la più innocente ma, come sottolinei, è la condanna della lettura a fare più effetto.
GB: I cosplay in effetti qualcuno ha cominciato a farli, solo non qui, in Texas e in Ohio. Il problema è che viviamo ancora in un mondo in cui la parola “femminista” è associata alla violenza, alla sopraffazione, al desiderio di spodestare e nuocere agli uomini, anche se di Valerie Solanas che sparano a Andy Warhol ce n’è una, e il resto non ha certo la misandria come base ideologica, anzi, ci si preoccupa molto di non turbare gli animi degli uomini facendo pensare che il femminismo li porterebbe a essere vittime delle stesse violenze fisiche e psicologiche che le donne subiscono da millenni. Mi ha colpito negativamente il fatto che un’opera come The Handmaid’s Tale non venga descritta come “femminista” nemmeno dalla sua creatrice, quando al cuore della sua vicenda c’è la sottrazione dei diritti delle donne nel nome della rivoluzione.
Nel 1984 la rivolta contro lo Scià e l’instaurazione della teocrazia in Iran era ancora fresca, le donne ricordavano ancora bene come si viveva “prima”. Quando Trump grida “Make America great again!” io mi domando sempre: che cosa sarebbe “again”? Gli anni ’80 in cui Trump è diventato Trump? O ancora prima? Dove si tira la linea del “prima” che è meglio del dopo, e cosa perdiamo noi donne, nel tornarci? Più in generale, le donne che si affiliano a movimenti conservatori o si mettono alla loro testa, sanno cosa significa per loro come esseri umani, rimettere indietro l’orologio dei diritti? Io temo di no. La nostalgia di un passato ideale causa una completa dissociazione dalle implicazioni del ritorno a quel passato. Il Medioevo contemporaneo di The Handmaid’s Tale è completamente realistico, e per alcuni addirittura auspicabile, come se tutto potesse essere ridotto al risultato, e la sofferenza delle persone fosse ininfluente. Dietro ogni rivoluzione totalitaria c’è dolore, disperazione, fuga. Il comunismo ha fallito, la rivoluzione maoista ha distrutto il patrimonio culturale della Cina, dalla DDR si scappava a rischio della vita, eppure c’è ancora qualcuno che trova normale appoggiare ideologie che prevedono il sacrificio della libertà altrui.
Sto divagando. Il punto è: è tutto vero e sta già succedendo. The Handmaid’s Tale si prende cura anche di questo dettaglio: la voce fuori campo di June spiega che la chiusura dei conti correnti e il licenziamento in massa delle donne è solo uno di tanti passi verso la dittatura, e molti di questi passi – la sospensione della privacy, la chiusura delle frontiere – li abbiamo già compiuti. C’è di che non dormire la notte.
MP: Quando Elisabeth Moss, durante il Tribeca Film Festival che si è tenuto lo scorso aprile, ha dichiarato che The Handmaid’s Tale non è una serie femminista ma umanista la reazione di sconcerto è stata abbastanza unanime e giustamente contrita. Il femminismo è un umanismo – c’è ancora bisogno di ripeterlo, a quanto pare – ma preferire un termine all’altro ha implicazioni politiche ben definite. Se una parola designa la ricerca della parità tra sessi ponendo la donna in primo piano, la seconda indica in maniera molto più generica un insieme di discipline, appunto, umane tra le quali la questione femminile è, però, decentrata. Quando Patty Jenkins ha dichiarato che Wonder Woman non è un’eroina femminista (cosa per molti versi vera, peraltro) il senso della presa di posizione non era difficile da intuire.
Voglio dire, in una società dove alle ragazzine è stato negato il diritto di giocare con Rey all’indomani dell’uscita di Star Wars – Il risveglio della Forza o con la Vedova Nera degli Avengers, e in una società che ha regalato un franchise cinematografico a una supereroina per la prima volta nel 2017, è triste ma non necessario che Jenkins motivi il suo intervento. Molto diverso è il discorso in primo luogo per la televisione, dove gli spazi sono molto più ampi grazie al proliferare dei contenuti originali dei servizi di streaming (quali appunto Hulu, che ha prodotto The Handmaid’s Tale) e i budget ormai molto grandi; e in secondo luogo per la serie tratta dal romanzo di Atwood in sé. Definirla non femminista è come dire che la Terra non è rotonda. È negare l’evidenza.
L’unica a essersi espressa chiaramente sul tema contraddicendo Moss, e da subito, è stata Samira Wiley ossia la Poussey di Orange Is the New Black che qui interpreta Moira), ma va detto che la stessa Moss non ha fatto altro che echeggiare Atwood, la quale più volte ha preferito esprimersi in termini non esplicitamente femministi. C’è un tweet nel quale usa la dicitura F Word. Successivamente il “malinteso” è stato chiarito da protagonista e scrittrice: è “anche” una storia umanista oltre che femminista, avete capito male, hanno detto. D’accordo. Rimane il problema: femminismo è una parola scomoda. Pesante. Ricca, come dicevi, di sfumature aggressive agli occhi di troppi. Siamo ancora lontani dal trovare una soluzione.
GB: Mi ha colpito un articolo di Angela Nagle su Jacobin, che sostiene che The Handmaid’s Tale è una storia confortante perché rafforza l’idea che stiamo ancora combattendo per la libertà di non avere figli, quando la vera libertà è quella di averli o non averli, e la società basata sul mercato, il capitale e il sogno di realizzazione sta rendendo sempre più difficile per le donne avere figli quando li desiderano. A me pare che questa visione sia in parte giustificata e in parte molto distorta, oserei dire metropolitana e middle-class: gli Stati Uniti hanno un problema grave di scarso accesso alla contraccezione legato alle inefficienze di un sistema sanitario interamente privatizzato. Il problema di “non sentirsi di avere figli” o di “non sentire di poterli avere” esiste solo per le donne di classe sociale medio-alta, con un’istruzione universitaria e assicurazione sanitaria.
Tutte le altre sono esposte al rischio di una gravidanza precoce e finiscono per avere più figli di quanti ne possano mantenere. È comunque una mancanza di scelta, e su questo siamo d’accordo, ma sono facce del problema molto diverse: da un lato una società priva di una legislazione federale sui congedi di maternità (che sono lasciati ai singoli datori di lavoro) e dall’altra vaste fette di popolazione che non hanno accesso a metodi di pianificazione familiare e vivono in un ambiente che per mancanza di alternativa normalizza e accetta le gravidanze delle adolescenti. Il problema della mancanza di scelta è molto più ampio di quello che indica Nagle, e non è sicuramente limitato alla difficoltà di avere figli da giovani.
Il che ci porta a un’altra faccia del problema di cui la serie sembra avere più contezza rispetto al libro, vale a dire il problema della diversità. Gli oppressori della serie sono tutti bianchi, maschi, eterosessuali (gli omosessuali vengono soppressi), le mogli parimenti bianche, bionde, ariane, tutte uguali. (Una rappresentazione plastica dell’amministrazione Trump, si potrebbe dire, pur sapendo che la serie è stata girata prima.) Il mezzo visivo rende più chiara la divisione fra la composizione etnica dei dominatori e quella degli oppressi: la difficoltà di trovare donne fertili costringe Gilead a utilizzare tutti gli uteri disponibili a prescindere dall’etnia, ma da quello che possiamo vedere il meglio che si può aspettare una donna di colore in questo assetto sociale è lo stupro rituale a scopo fecondativo e una maternità spezzata dalla separazione forzata.
Ancora una volta mi tocca tornare sulla questione della GPA, e voglio farlo prima che lo facciano le femministe della differenza: c’è un abisso fra la scelta libera di una donna di portare avanti una gravidanza per qualcun altro, con le tutele del caso e alla luce del sole, e l’esproprio dell’autonomia fisica di una persona che non può scegliere a chi destinare quel dono. La sofferenza delle Ancelle, che partoriscono come hanno concepito, fra le gambe delle Mogli – perché sono uteri, e nulla più – non può essere accostata alla libera scelta delle madri surrogate. L’onestà intellettuale mi obbligava a prendere in considerazione anche questo lato della questione, e come sempre si ritorna all’autodeterminazione. Le Ancelle non possono scegliere e non c’è alcun dibattito, né legale né etico, su cosa succede dopo la nascita del bambino. Allo stesso modo, Serena Joy vive la presenza di Offred nel suo matrimonio come una violazione che non ha il permesso di esprimere a parole: neanche lei ha più scelta.
MP: Neanche io riesco a vedere un’affinità tra la violenza subita dalle madri di Atwood e la maternità surrogata; almeno quando quest’ultima è una scelta. Viene detto a chiare lettere che ciascuna delle Ancelle è una prigioniera cui è preclusa qualsiasi scelta. Il libero arbitrio è annullato, nella storia, in ogni sua manifestazione. Nel frattempo mi aggancio al tuo appunto sulla diversità degli oppressori nella vicenda per tornare su uno degli avvenimenti più folgoranti della serie: la mutilazione clitoridea di Ofglen. L’atto non ha riscontro nel libro, quindi anche per i lettori è una sorpresa. Dal punto di vista televisivo va notato che ancora una volta la narrazione poggia sullo straniamento: per veicolare uno dei momenti più crudi della storia è stata cooptata Alexis Bledel, il volto amico di Rory Gilmore, il cui sguardo di terrore ne modifica a ritroso la percezione familiare; e la canzone di Jay Reatard (musicista scomparso nel 2010) intitolata Waiting for Something ricorda che a svegliarsi in quell’ospedale kubrickiano potremmo essere noi perché non siamo nel futuro, ma in un presente non troppo distante.
Ma non si tratta soltanto di questo. Il risveglio dell’Ancella lesbica con i genitali fasciati porta su un altro livello il contratto con lo spettatore perché scopriamo che non ci sono limiti all’efferatezza del governo di Gilead, che la barbarie di cui può rendersi complice o ordinare direttamente non ha fine se i cardini teologici del sistema vengono intaccati. E che questi non poggiano realmente sulla protezione della natura femminile (si parla spesso di “compimento del destino biologico”) né sulla protezione della natura in genere: sono bugie. Nel decidere che il piacere sessuale è un peccato, così come gli organi che lo consentono sono peccaminosi e scissi dalla necessità,The Handmaid’s Tale getta luce sulla contraddizione legata alla sacralità dell’anatomia della donna di cui ci si sente legittimati ad avvalorare solo alcune parti.
La dinamica operante è quella dell’appropriazione indebita, volta a conservare alcuni aspetti e tralasciarne secondo opportunità – quando non vietarne – altri. Il paradosso è sviscerato. Gilead tiene immensamente alle Ancelle, le uniche ad aver custodito il rapporto con una natura sempre più perduta, violata e sfuggente; eppure se bisogna prendere per buona la sovrapposizione già controversa proprio tra donna e natura, allora la conseguenza logica è che l’uomo si illude di preservare una e l’altra, ma nei fatti castiga entrambe.
GB: Tra l’altro, con buona pace di Nagle, in Missouri si è cercato di far passare una legge contro l’aborto che fra le altre cose permetterebbe a chi affitta o ai datori di lavoro di discriminare le donne che hanno abortito: non sono gli anni ’50, è peggio, perché molto più che negli anni ’50 i politici si vendono ai loro finanziatori, e se i loro finanziatori sono associazioni religiose, queste poi vengono a riscuotere la loro libbra di carne. L’abolizione del decreto contro la discriminazione per le scelte riproduttive viene fatto passare come “libertà religiosa”: un’interpretazione distorta della libertà, che non prevede il rispetto di quella altrui ma la prevaricazione e l’imposizione dei propri principi. Con questa logica, il salto alla teocrazia è veramente facile, soprattutto in un paese come l’America, dove si giura sui testi sacri e si è “One nation under God“.
Comunque dice Donald che possiamo stare tranquilli, il cambiamento climatico è una bufala, non ci sarà alcun disastro ecologico e possiamo ricominciare a sbuffare fumi di carbone nell’aria! Quindi niente scenario apocalittico e anche niente teocrazia. Giusto?
MP: Tra l’avvento di Gilead e il disfacimento della Terra Atwood traccia un legame di causa-effetto abbastanza trasparente. Il contesto di minaccia incipiente nel quale la storia è stata concepita conta, in questo senso. Nel romanzo, e anche nella serie, l’aria è tossica e la disponibilità delle risorse planetarie è limitata. Così accade che i terreni fecondi divengano presumibilmente pochi e in questo quadro non pare casuale che l’accesso alla fertilità – all’utero – venga controllato, diventi bottino dei danarosi che domani faranno la storia. In tempo di crisi ciò che veniva dato per scontato diventa raro. Mi viene in mente che ne Il racconto dell’Ancella le arance vengono considerate un lusso, aspetto che mi porta all’episodio di Black Mirror intitolato 15 Million Merits nel quale le mele sono praticamente il solo cibo salubre a disposizione di un’umanità che vive in isolamento, forse sottoterra. Benedetto sia il frutto, appunto.
I figli di Gilead, i frutti, sono simbolo di un potere trascendente, faraonico; le famiglie fortunate abbastanza da riceverne si illudono che si tratti di un dono offerto per predilezione celeste anche se è ottenuto tramite lo status, posseduto e mantenuto attraverso il ricorso alla violenza. “Possa Il Signore schiudere al seme”. È fin troppo semplice. La distopia ha il potere di allontanare e avvicinare a un certo problema allo stesso tempo, ma la verità è che in questo tipo di scenario – il riscaldamento globale, la morte del pianeta – siamo già immersi. E dunque il rifiuto di Trump di prendersi cura dell’ambiente suona ancora più spaventoso.
GB: Nelle distopie contemporanee la catastrofe ambientale è un punto di partenza molto diffuso: del resto, Trump ha sempre dichiarato con un certo orgoglio di essere uno che non legge affatto, né libri né altro (il che include anche le leggi che dovrebbe promulgare, da quanto risulta: rifiuta i briefing giornalieri e si informa solo attraverso Fox & Friends, su Fox News. Sembra sceneggiato da Matt Groening, e invece è vero). Ora, capisco che la capacità di astrazione è un fatto soggettivo e che un romanzo distopico non cambia le sorti del mondo, ma è inquietante che l’uomo più potente del pianeta sembri non essere in grado di scegliersi le fonti e di comprendere testi complessi, o di distinguere i fatti dalle opinioni.
Trump a parte, è un bene che Il racconto dell’Ancella esca di nuovo anche in Italia nella sua forma originale di romanzo. Se non altro perché è una grande opera letteraria, e Margaret Atwood si merita da un pezzo il Nobel che sta andando a tutti meno che a lei, con buona pace di Philip Roth. Speriamo che sia la volta buona.
MP: Ho letto che Emma Watson avrebbe lasciato in giro per Parigi delle copie de Il racconto dell’Ancella (questo tipo di operazione è sua consuetudine, e per quanto possa sembrare vagamente pretenziosa mi sembra encomiabile). In definitiva non so se riuscirei a definirlo “un romanzo con un messaggio”: non conosce epoca, e offre degli strumenti validissimi per comprendere il presente ma soprattutto è una grande storia per chiunque si interroghi sulla libertà. Evviva Atwood. In attesa della nuova stagione che, un po’ come è accaduto con Game of Thrones, perderà la sua base letteraria.