Q uando Lucia Calamaro presentò al pubblico “L’Origine del Mondo”, spettacolo che si aggiudicò ben tre Premi Ubu e che è da molti considerato il suo capolavoro, un commento che ho sentito dire più volte, e che probabilmente spiega con più esattezza e sintesi una caratteristica della sua scrittura, è questo: “sembra che mi abbia letto nella testa”. Se uno dei ruoli dei poeti – siano essi dei versificatori oppure utilizzino, come in questo caso, lo strumento della drammaturgia – è quello di trovare parole coerenti a descrivere ciò che tutti sentono ma non sanno pronunciare, Lucia Calamaro va sicuramente inserita in quella schiera. Sono in tanti a considerare l’autrice romana una dei più grandi drammaturghi italiani viventi, per qualcuno la più grande, sicuramente la meno etichettabile. I suoi spettacoli debordanti, di tre o quattro ore, hanno intercettato alcune tendenze presenti per lo più fuori dal teatro, ad esempio nella letteratura, come il ricorso all’autofiction e una tendenza alla dilatazione del racconto e all’affidarsi a un realismo ibrido che sono alcune delle caratteristiche del “romanzo massimalista”, etichetta coniata da Stefano Ercolino in contrapposizione alla tendenza al minimalismo che aveva tenuto banco in precedenza.
Ma le etichette spesso sono riduttive e il teatro occidentale, coi suoi 2.500 anni di storia, si può dire che abbia sperimentato già tutto (solo restando ai nostri giorni basti e al tema della dilatazione pensare ai “Demoni” di Peter Stein che duravano 12 ore o al progetto abortito di Fabrizio Arcuri, “One day”, che avrebbe dovuto durarne 24). Quello che colpisce, nel lavoro di Lucia Calamaro, non è tanto l’innovazione o un qualche tipo di approccio inedito alla scena – tutte categorie che hanno orientato buona parte del teatro del Novecento, buttatosi a capofitto in una corsa verso un’ideale rivoluzione del linguaggio che assomigliava a quella di Achille che insegue la lenta tartaruga. Piuttosto è la sua voce, l’invenzione di una lingua, il fatto di aver spostato l’asse del discorso verso l’universo dell’autore e il suo genio.
Questo però non vuol dire che la scrittura di Lucia Calamaro sia solo letteraria: l’altra grandissima capacità di questa drammaturga che è anche regista dei suoi testi è quella di saper scegliere gli attori che incarnano le sue parole, di sapergliele scrivere addosso in un lavoro frenetico di aggiustamento e riscrittura che non si svolge nella “stanzetta dello scrittore”, ma in sala prove, assieme ai corpi che quelle parole incarneranno. E infatti i suoi testi, a vederli sulla carta, sono magmatici e anarcoidi (come ha spiegato Christian Raimo su Internazionale), ma quando trovano la loro forma più o meno definitiva rappresentano una sintesi incredibile tra lingua letteraria e lingua teatrale. Basta dare un’occhiata all’incipit de “L’Origine del Mondo”, che si apre su una straordinaria Daria Deflorian – protagonista delle pièce assieme a Federica Santoro – che in piena notte spulcia nel frigorifero per cercare qualcosa da mangiare come se stesse in realtà spulciando nella propria testa:
Si, lo so
Eppure
esiste una genia
che è diversa
intendo diversa dalla mia, mi pare.
Una genia di
…fortunati
direiGente tutta di un pezzo
Che taglia le teste ai tori
Guarda lontano
Si da una mossa
Sa stare al mondoE usa queste
e altre espressioni del genereadegua la realtà ai propri bisogni
e a suo favore c’è da dire che da sempre
o quantomeno da un po’
li conosceuna genia che sa
e se non proprio sapiente
almeno saputa o saputellaquindi ecco invece Noi
gli altri
quasi tuttii confusi
indecisi
melanconici
apatici
i pigri
quelli soli
gli strani
i timidi e quelli cosi-cosi
gli illusi, i disillusi
i cinici
gli atarassici ideologici, quelli metabolici
e poi
anche quelli sempre stanchi, stanchi dall’inizio
che in latino poi si dice fessusebbene noi…
ebbene… Noi.Cosa?
No, niente, appunto.
Cosa… mi mangio (apre il frigo).
Lucia Calamaro si interroga sulle parole, le corteggia, le attraversa, a volte persino le detesta ma non smette per questo di interrogarle e di cercare quelle più adatte a descrivere il sentimento che ha in testa, procedendo per affastellamenti, per sommatorie, per ondate che a volte si sciolgono in descrizioni folgoranti (come quella di un personaggio marginale, che compare solo un momento, la zia Brunilde, allettata e incapace di comprendere il mondo attorno a lei, racchiusa in un “suo tempo interno che non coincide con niente”). I suoi personaggi si agitano in una domanda continua di senso – attorno alle proprie angosce o quegli aspetti dell’esistenza, come ad esempio la morte, a cui raramente si riesce a dare una collocazione – una sorta di indagine incessante che, il più delle volte, finisce per rivolgersi proprio alle parole, anche semplicemente per deviare verso qualcos’altro e perdersi, un po’ come il personaggio di Daria che parte interrogandosi sul proprio posto nel mondo e finisce per chiedersi cosa mangiare.
Tuttavia la sua non è un’operazione soltanto letteraria. Anzi, le domande che si pongono i suoi personaggi partono spesso da un balbettio, da un rimestare concetti e frasi, da un’afasia sentimentale che solo in un secondo momento si scioglie in una serie di punti di vista folgoranti e di visioni geniali. Si tratta di un processo davvero molto teatrale, unito alla capacità di toccare tematiche difficili e spietate con i guanti di un’ironia che pur essendo disperata non cessa di essere a suo modo leggera, degna del miglior Woody Allen ma decisamente più pronta a scavare in profondità. Anche perché i temi di Lucia Calamaro sono piuttosto “capitali”: la morte, la maternità, la depressione, il nostro essere nel mondo – eppure, senza mai cedere alla semplificazione, ma anzi scendendo nel groviglio del pensiero e dei sentimenti, i suoi spettacoli risultano piacevoli, scorrevoli, affascinanti e coinvolgenti.
E poiché Lucia Calamaro ha un’attenzione profonda per le parole, nel suo universo teatrale un ruolo centrale lo ricoprono i libri. I libri che si leggono (come Savinio, Fofi, Valery, Harendt, citati nel mezzo di un flusso di coscienza ne “L’origine del mondo”) e quelli che non si leggono, che restano a prendere polvere sui nostri comodini, come Histoire de la rhétorique dans l’Europe moderne di Marc Fumaroli ne “La vita ferma”. I libri che si ricomprano all’infinito senza mai leggerli fino in fondo (come L’Idiota – tomo 1, protagonista di una gustosa gag) e quelli che ci forniscono le immagini per spiegare le cose che abbiamo in punta di lingua (come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg). Nello spettacolo «Magick» – che proprio in una biblioteca vede ambientata una delle scene più belle di quella che la sua autrice ha definito “autobiografia della vergogna” – i libri sono addirittura oggetto di un quasi-autodafé, di una ribellione catartica che vede i personaggi letteralmente spiattellare al muro decine e decine di volumi, validi e meno validi, colpevoli di essere sì lo strumento con cui si comprende il mondo ma anche lo scudo estremo per non affrontarlo, la prigione in cui volentieri ci si nasconde.
Pur raccontando un mondo di pensieri, di digressioni, mettendo spesso in scena il lato impronunciabile dei ragionamenti, quello che di solito teniamo per noi per pudore o perché ci si palesa lucidamente solo troppo tardi, quando abbiamo già finito di parlare, il teatro di Lucia Calamaro costruisce – anche attraverso i libri – una vera e propria “epica”. L’epica di chi sceglie di guardare dentro se stesso per cercare di comprendersi e di comprendere ciò che gli accade. L’epica di chi cerca di rispondere alla propria finitezza con le armi dell’intelletto. In questo senso gli spettacoli di Lucia Calamaro sono una risposta all’interrogativo che qualche anno fa si poneva Vittorio Giacopini alla fiera della piccola editoria e media dell’Eur, parlando di deficit di esperienza: come fa la narrativa a raccontare una storia e risultare credibile quando gli autori di quella storia e i loro lettori passano buona parte della loro esistenza a lavorare seduti davanti a uno schermo? Se la vita agita non è che un ricordo, come possono darsi, oggi, i drammi epici che hanno caratterizzato le grandi narrazioni del passato anche recente (da Fenoglio a Hemingway, per intenderci)?
Ebbene, nell’universo Calamaro tutto questo è possibile, perché i personaggi dei suoi spettacoli sondano in modo spietato paure, complessi, blocchi e tutto quello che in qualche modo li fa sentire agiti da qualcos’altro, sia esso il destino o la propria inerzia. Tutti elementi personalissimi che, di colpo, si rivelano universali – tanto da dare agli spettatori l’impressione che la loro autrice, come si diceva all’inizio, sia in grado di “leggerci nella testa”. A volte, anzi, è proprio questo fantomatico blocco dell’azione, a cui la contemporaneità sembra averci drammaticamente consegnato, ad essere al centro delle riflessioni di Lucia Calamaro. Sicuramente lo è per uno dei suoi lavori più radicali, “Diario del tempo”, il racconto di un’epopea del quotidiano dove i personaggi affrontano la precarietà dell’esistenza completamente sballottati in un tempo di cui non sanno letteralmente cosa farsene.
In primavera il Teatro di Roma ha dedicato a Lucia Calamaro una retrospettiva, che ha messo assieme i tre lavori più felici della drammaturga, e che ha avuto il pregio di portare i suoi spettacoli all’attenzione di un pubblico più ampio. La retrospettiva era composta da “Tumore”, lo spettacolo che ha rivelato la drammaturga ormai dieci anni fa, “L’origine del mondo” e la sua ultima creazione, “La vita ferma”. Con questo spettacolo si torna ad alcuni dei temi più cari all’autrice, come la morte e la famiglia, e si conferma la capacità nel trattare con una freschezza assoluta e spiazzante tematiche che, altrimenti, in teatro, risultano generalmente intoccabili per il troppo uso che sfiora nell’abuso. Ma Lucia Calamaro, come non si cura delle mode, tanto meno si cura dei tabù, e procede spedita verso il nucleo rovente di ciò che sente la necessità di raccontare. E quasi sempre centra l’obiettivo in modo memorabile.
“La vita ferma” è, infatti, uno spettacolo grandioso che più che parlare di morte parla del riverbero che l’assenza crea sul presente, ovvero del “dolore del ricordo”, come recita il sottotitolo dell’opera. Interpretato magistralmente da Riccardo Goretti, Alice Redini e Simona Senzacqua, in una serie di incastri temporali tra passato e presente, la pièce racconta la storia di Simona (a partire da “L’origine del mondo” i nomi degli attori e dei personaggi coincidono sempre, regalando un prezioso e sottile straniamento) e del suo perdurare nella memoria del marito Riccardo e della figlia Alice. Un perdurare effettivo, tangibile, tanto che la scena si apre sul momento del trasloco dalla casa di famiglia che, dopo la morte di Simona, è divenuta troppo grande e forse ingombrante, e a discutere del destino degli oggetti, e degli onnipresenti libri, c’è Simona stessa, ossessionata dall’idea di essere dimenticata.
Ma non siamo di fronte a una storia di fantasmi, perché nel teatro di Lucia Calamaro i pensieri prendono corpo anche laddove non arriva la realtà fisica, l’astrazione chiede spazio e si drammatizza senza fare tanti complimenti, creando anzi un effetto allo stesso tempo comico e – anche qui – straniante. In fondo, quello che vediamo, non è che una conseguenza del ragionamento che accoglie lo spettatore appena si fa buio in sala, snocciolato dalla voce fuori campo di Alice Redini, che è un altro esempio della capacità di Lucia Calamro di passare di colpo dal ragionamento intellettuale al tarlo doloroso che ci pungola l’anima, e che tale ragionamento ha provocato:
L’elaborazione del lutto è un mero assecondare la natura. Non è una costrizione sociale, è un processo a salvaguardia della specie, la specie dei vivi. Che guarda in fondo poco e male alla specie dei morti.
Che tipo di essere è, diventa, un essere morto? A cosa è assimilabile? La sua degradazione a categoria fantasmale lo annulla? Che esistenza è l’esistenza da morto? Siamo sicuri che sia un assoluto non essere? No.
Non lo siamo. Per questo di tanto in tanto ci ripensi.
Ricordare è resistere. Impuntarsi a decidere di ricordare una persona morta, passato un certo periodo, è metabolicamente difficilissimo. Il corpo non vuole, la testa non vuole. Non ti ricordi più niente e quando ogni tanto qualche sprazzo di memoria si apre non sai più i colori, né i suoni, né i dettagli, è una visione raffazzonata, il dato conosciuto del presente che cerca di vivificare l’immagine sempre più imprecisa, ma non riesce.
Tutto in te vuole solo vivere il tuo futuro.
Di fronte alla morte siamo più che mai animali.
Il ricordo, si sa, è transitorio, per quanto puoi puntare i piedi per conservarlo nella memoria finisce per sbiadire in fretta. Ma persino il ricordo vivido, per Simona, è una condizione riduttiva, perché sarà sempre l’immagine parziale di chi l’ha conosciuta in un certo momento, osservandola da una certa angolatura, un’immagine che mai sarà in grado di restituire tutta la complessità della donna che è stata. È in fondo l’eco di questa presa di coscienza che innerva tutto lo spettacolo, che snocciola la storia di un incontro, di un’unione assortita in modo un po’ strano tra un’appassionata di danza e un intellettuale, della creazione di una famiglia e del suo sfaldarsi a causa di una malattia. La parabola della vita, in fondo, è sempre la stessa e va avanti a prescindere da noi – e quando sul finale vediamo Alice cresciuta e incinta, il senso vano della pretesa di Simona di non essere dimenticata ci appare in tutto il suo imperativo inappellabile ma salvifico “per la salvaguardia della specie”.
La storia che Lucia Calamaro racconta ne “La vita ferma” è in fondo, né più né meno, quello che è successo a ognuno di noi, o ai nostri amici e congiunti. Certo, c’è una sapienza di scrittura e messa in scena che fanno di questo intreccio, in fondo quotidiano, un prezioso gioiello teatrale: il modo in cui si passa da un piano all’altro della storia, ad esempio, come quando il padre, sconvolto dalla malattia della moglie, si aggrappa ad un’amica di famiglia per ritrovarsi di colpo, tra le mani, la figlia attonita per lo strano comportamento del padre (entrambi i ruoli sono impersonati dalla stessa attrice); oppure la grande intelligenza che c’è nel saper calcare sul patetico del corpo che non vuole morire e decomporsi, alla fine del secondo atto, per poi riderci un po’ su, in una sorta di liberatoria e pungente autoironia, all’inizio del terzo, come a dire “sì, lo conosciamo tutti lo scandalo che è la morte per la coscienza; ma fino a quando possiamo menarcela con questa storia visto che non c’è soluzione?”. C’è tutto questo, ne “La vita ferma”, ovvero tutti gli ingredienti per uno spettacolo che diverte e commuove, fa pensare e stupisce. Ma, soprattutto, a tenere banco c’è la grande capacità della sua autrice di prendere una storia e saperla rendere, allo stesso tempo, profondamente personale e totalmente universale – cosa che fa dei lavori di Lucia Calamaro alcuni dei migliori testi italiani di questo inizio di ventunesimo secolo.