A lamogordo, Nuovo Messico, Stati Uniti, 16 luglio 1945. Nel bel mezzo del deserto Jornada del Muerto, alle ore 5:29 viene fatta detonare una bomba al plutonio, nome in codice The Gadget. È il primo test nucleare della storia. Da quella detonazione a oggi, sono stati fatti esplodere 2.421 ordigni nucleari che hanno prodotto isotopi altrimenti assenti in natura. Una traccia inequivocabile del passaggio dell’uomo sulla Terra, destinata a sopravvivere al proprio artefice per decine di migliaia di anni nella memoria geologica del pianeta. Alamogordo, Nuovo Messico, Stati Uniti, 16 luglio 1945 sono, secondo molti, luogo e data in cui ha inizio l’Antropocene. Una nuova epoca per il pianeta, forgiata per la prima volta dall’attività di uno dei suoi inquilini.
Isotopi persistenti racconteranno ai nostri pronipoti la storia di cieli pieni di anidride carbonica proveniente dalla combustione di carbone e petrolio, mentre acciaio, calcestruzzo e plastica potrebbero caratterizzare il nostro personale strato geologico: la serie cronostratigrafica dell’Antropocene.
Dopo sette anni di dibattito trascorsi a raccogliere prove, la scorsa estate 35 ricercatori ed esperti radunati nell’Anthropocene Working Group hanno chiesto ufficialmente il riconoscimetno dell’Antropocene nella scala dei tempi geologici. Nei prossimi anni il gruppo procederà con la raccolta dati e l’elaborazione di analisi a supporto della teoria che saranno vagliati dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia; solamente in seguito l’eventuale decisione finale potrà essere formalizzata dall’Unione Internazionale di Scienze Geologiche.
L’iter è tutto tranne che in discesa. Indizi oggi molto evidenti potrebbero infatti non esserlo affatto nella vastità del tempo geologico: la durata di un’epoca si estende normalmente in decine di milioni di anni.
Un’epoca giunta da lontano
L’idea che l’attività umana andasse considerata a tutti gli effetti una forza geologica è curiosamente presente fin dall’istituzione dell’epoca dell’Olocene (l’epoca geologica più recente, quella attuale, il cui inizio è stato convenzionalmente fissato a circa 11.000 anni fa) proposta da Charles Lyell nel 1833. Il primo a osservare come l’uomo potesse mettere a repentaglio la propria sopravvivenza sul pianeta fu però probabilmente George Perkins Marsh nel 1864. Nel suo saggio L’uomo e la natura ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, evidenziava la necessità della conservazione della natura e l’importanza del “ristabilimento delle armonie perturbate”.
Acciaio, calcestruzzo e plastica potrebbero caratterizzare il nostro personale strato geologico: la serie cronostratigrafica dell’Antropocene.
In particolare, riferendosi al disboscamento in atto nelle regioni mediterranee – per oltre vent’anni Marsh fu ambasciatore statunitense in Italia – denunciò la trasformazione di terre lussureggianti in deserti lunari. Fu però l’italiano Antonio Stoppani a riconoscere nell’uomo “una nuova forza tellurica con potenza e universalità comparabile con le grandi forze del pianeta”. Era il 1873 quando Stoppani definì questa nuova fase “era antropozoica”. Dello stesso avviso era il geochimico russo Vladimir Vernadskij che nel 1924 scriveva: “l’equilibrio nella migrazione degli elementi, stabilito in lunghi tempi geologici, è infranto dall’intelletto e dall’attività degli uomini. Adesso, con tale indirizzo ci troviamo in un periodo di mutamento delle condizioni di equilibrio termodinamico all’interno della biosfera”.
La capacità di realizzare reazioni nucleari, e quindi di trasformare gli elementi chimici, spinse Vernadskij e il collega Pierre Teilhard de Chardin a ipotizzare l’avvento di una terza fase di sviluppo della Terra, nominata noosfera (letteralmente “sfera del pensiero”) successiva a geosfera e biosfera. Solo all’inizio degli anni Ottanta il biologo statunitense Eugene Stoermer coniò, senza mai formalizzarlo, il termine Antropocene. Sarà l’amico e collega Paul Crutzen, chimico olandese vincitore del premio Nobel per i suoi studi pionieristici sull’ozono in atmosfera, a rendere celebre il concetto, nel 2000, con la pubblicazione del saggio Benvenuti nell’Antropocene!.
Isotopi, plastica e ossa di pollo
A riassumere definitivamente le prove a favore dell’Antropocene è un articolo pubblicato sulla rivista Science nel gennaio del 2016 da 24 membri dell’Anthropocene Working Group tra i quali figura anche Paul Crutzen. Una revisione in cui ricercatori hanno esaminato una vasta serie di marcatori antropici e di variazioni presenti nei sedimenti e nei ghiacci delle più svariate località del globo. La variazione di alcuni parametri chimico-fisici come la concentrazione di anidride carbonica – la più elevata da 65 milioni di anni a questa parte – e di metano in atmosfera è risultata molto più ampia e rapida di quanto avvenuto al termine dell’ultima glaciazione.
Il particolato e le ceneri derivanti dalla combustione di idrocarburi fossili, distinguibili da quelli prodotti naturalmente con gli incendi, hanno raggiunto gli angoli più remoti del pianeta. A essere perturbato non è solo il ciclo del carbonio ma anche quelli del fosforo e dell’azoto: rispetto all’Ottocento, lo smodato utilizzo di fertilizzanti ha raddoppiato la presenza del fosforo nel suolo, mentre la quantità di azoto è la più elevata degli ultimi 2,5 miliardi di anni. Queste anomalie si accompagnano alla presenza di materiali del tutto inediti come i 50 miliardi di tonnellate di calcestruzzo, i 500 milioni di tonnellate di alluminio e gli almeno 300 milioni di tonnellate di plastica.
Le tracce più evidenti, sincrone e ubiquitarie lasciate dall’uomo saranno gli isotopi prodotti nella detonazione di ordigni nucleari.
Non solo: secondo i ricercatori del Deep Carbon Observatory, la rivoluzione industriale rappresenta il più importante evento di diversificazione dei minerali dopo la Grande Ossidazione, ovvero l’accumulo di ossigeno atmosferico avvenuto due miliardi di anni fa e che diede origine a circa i due terzi delle specie conosciute. Sul pianeta esistono oltre 5.200 specie minerali, 208 delle quali originate dall’azione più o meno diretta dell’uomo e concentrata negli ultimi tre secoli.
La mano dell’uomo rimarrà impressa, con ogni probabilità, anche nelle associazioni fossili: secondo alcuni autori in poco più di un secolo la nostra specie ha causato il dimezzamento del numero di animali del pianeta, in quella che si delinea come una nuova estinzione di massa. Non tutti gli animali sono ugualmente vittime dell’uomo: per soddisfare la crescente richiesta di cibo, le specie domestiche hanno beneficiato della nostra proliferazione, tanto che i fossili di pollo sono considerati dei seri candidati per l’individuazione dell’Antropocene. Le tracce più evidenti, sincrone e ubiquitarie lasciate dall’uomo saranno tuttavia gli isotopi prodotti nella detonazione di ordigni nucleari: il tempo di dimezzamento del 239Plutonio è di 24.200 anni. La posizione dell’Anthropocene Working Group è chiara: a partire dalla metà del secolo scorso, si riscontrano differenze tali rispetto agli strati geologici precedenti da giustificare una nuova unità di tempo geologico.
È questione di date
La geologia si muove molto lentamente, e così fanno i geologi. Stabilire nel presente ciò che potrebbe essere osservato tra migliaia di anni è un compito da veggenti, sostengono i più critici, sottolineando come sia troppo presto per formalizzare un’epoca il cui inizio potrebbe essere addirittura non ancora arrivato.
Se praticamente nessuno nega l’impatto dell’uomo, in molti spingono per una definizione culturale, piuttosto che geologica, dell’Antropocene. Al pari del Neolitico, l’Antropocene potrebbe designare una fase dell’evoluzione umana ed essere dunque slegata da datazioni più rigide. Un compromesso prudente, che permetterebbe di ignorare la domanda fondamentale: quando è iniziato l’Antropocene?
Se praticamente nessuno nega l’impatto dell’uomo, in molti spingono per una definizione culturale, piuttosto che geologica, dell’Antropocene.
Per definire una nuova epoca geologica bisogna individuare nelle rocce uno specifico marcatore, sia esso un’anomalia isotopica o un’associazione fossile, sincrono e diffuso in qualunque luogo del pianeta. Ecco perché gli isotopi liberati a partire dal 1945 nelle esplosioni nucleari rappresentano probabilmente il miglior termine di riferimento. Ma non l’unico: la principale alternativa è la rivoluzione industriale con l’impennata delle emissioni di gas serra, osservabile per esempio nelle carote di ghiaccio.
C’è invece chi propone di prendere come riferimento l’invenzione dell’agricoltura, che in 10.000 anni ha stravolto la fisionomia del suolo di buona parte del pianeta. Altri ancora propendono per il 1610, quando vaiolo e schiavismo fecero crollare la popolazione del Nuovo Mondo: l’espansione dei boschi fece crollare l’anidride carbonica in atmosfera di sette parti per milione.
Anche se finalmente abbiamo preso coscienza della portata storica del nostro impatto sulla Terra, il dibattito è tutt’altro che chiuso e proseguirà nei prossimi anni. Un ritardo insignificante per la scala dei tempi geologici, i cui gradini più consunti hanno miliardi di anni.