I l corso d’acqua che divide il Bangladesh dal Myanmar scende verso il Golfo del Bengala e si allarga in un braccio di mare che ne confonde le acque. Nel suo punto più largo supera di poco i tre chilometri. Si chiama Naf e di solito è un buon posto per andare a pescare. In questi giorni invece è un fiume di lacrime che assiste muto a un esodo che non si ferma dal 25 agosto. Le barche da pesca vengono usate adesso, da chi riesce, per scappare dal Myanmar e raggiungere le vicine coste del Bangladesh. Chi prova ad attraversare il fiume a nuoto rischia di essere portato via dalla corrente. Capita a tanti.
Nel giro di due settimane circa 260.000 rohingya, minoranza musulmana nel Paese più buddista del mondo, hanno cercato di attraversare Naf per trovare rifugio nel sovrappopolato vicino asiatico che era una volta la ricca costola orientale dell’Impero britannico in India. Il luogo da cui, nei palazzi della grande Calcutta capitale del Raj, i viceré amministravano la “perla” asiatica della Regina, i commerci e un’espansione che sembrava inarrestabile. Non si tratta di un colorito richiamo alla memoria. Il dramma dei rohingya cominciò forse allora quando l’impero asiatico di Londra si andava estendendo a Ovest e a Est di Calcutta. A Est c’era una monarchia birmana che alla fine cedette alle pressioni del Raj. In mezzo – tra inglesi e birmani – c’erano una quantità di popolazioni diverse che finirono col passare di mano per mezzo di trattati, guerre e decisioni prese sopra le loro teste.
Traditori senza patria
Cosa c’entri la Storia col dramma ciclico di una minoranza che rischia di sparire, quantomeno dalla “sua” nazione, lo ha spiegato molto bene il generale Min Aung Hlaing a capo dell’esercito birmano. È lui l’uomo che ha dato il via a un’operazione militare che sta mettendo sotto schiaffo cinque aree del Nord dello Stato del Rakhine, regione orientale birmana che confina col Bangladesh e l’Oceano indiano: i distretti di Buthidaung, Maungdaw, Rathedaung e i sottodistretti di Taungpyoletwe e Myinlut. Il generale ha dato l’ordine operativo dopo che, all’alba del 25 agosto, un gruppo secessionista che vorrebbe uno Stato Rohingya indipendente, ha attaccato una trentina di posti di polizia birmani. Era già accaduto nell’ottobre scorso. Allora i militari strinsero d’assedio le aree rohingya e bruciarono circa 1500 case nei villaggi considerati solidali e conniventi con la guerriglia, come hanno documentato diverse foto satellitari. Adesso ha fatto lo stesso. Nei due casi si sono spostate ogni volta decine di migliaia di persone in cerca di salvezza oltre confine. Ma per il generale Hlaing non si tratta di birmani. Per il militare, i rohingya – termine che in Myanmar non si può usare – sono da sempre semplicemente “bengalesi”, cioè immigrati più o meno clandestini. Peggio: a suo dire, sono anche dei traditori perché durante la Seconda guerra mondiale stavano con gli alleati (cioè gli inglesi) e attaccavano altre minoranze birmane dell’area che invece sostenevano i giapponesi.
Nel giro di due settimane circa 150.000 rohingya, minoranza musulmana in Birmania, hanno cercato di attraversare il fiume Naf per trovare rifugio in Bangladesh.
Nel 1942 infatti, Tokyo aveva invaso i possedimenti britannici in Asia e aveva cacciato gli occupanti coloniali (lo slogan era “l’Asia agli asiatici”) garantendo a molti Paesi un’indipendenza sotto tutela. Gli indipendentisti birmani, guidati da Aung San, il padre della Nobel Aung San Suu Kyi, giocarono su due tavoli come era accaduto in altre regioni del Sudest asiatico (in Indonesia ad esempio, dove grazie ai giapponesi furono cacciati gli olandesi). In seguito però la Resistenza locale favorì il ritorno di Londra, da cui la Birmania, come si chiamava allora, divenne infine indipendente nel 1948. I rohingya si trovarono in mezzo a una guerra che, come in tutti i conflitti, doveva vedere molti cambi di cavallo. E accusarli oggi di tradimento non ha alcun senso. Come non ne ha definirli “bengalesi”: il fatto è che agli inizi del 1800 i birmani, guidati dal re Alaungpaya, cercarono di riprendersi la regione dell’Assam ma persero la guerra con il Regno unito (la prima di tre). Il trattato di Yandaboo del 1826 tra birmani e britannici fece passare di mano il Rakhine (all’epoca Arakan) che finì sotto l’egida dell’’Impero delle Indie. Poi, quando gli inglesi se ne andarono, gli arakanesi (oggi diremmo rakinesi) tornarono birmani.
Tutto questo peraltro si svolgeva sotto gli occhi proprio dei rohingya, un popolo che viveva da secoli in questi territori che la Storia e le guerre hanno affidato ora agli uni ora agli altri. È una vicenda che si ripete spesso dove un fiume o una montagna creano un confine naturale in cui abitano, da una parte e dall’altra, le stesse popolazioni: che parlano la stessa lingua (il bengalese) e praticano magari le stesse usanze o lo stesso credo (l’Islam). Finché un giorno arriva qualcuno e dice che questa terra appartiene a tizio e l’altra a caio e una stessa famiglia finisce per trovarsi a dover richiedere un passaporto per visitare i parenti.
Come si sente un rohingya?
Difficile dire se i rohingya si siano nel corso dei secoli sentiti più bengalesi – quindi più “indiani” o più “inglesi” – che non “birmani”. Forse hanno sempre solo desiderato avere uno Stato rohingya o forse, più semplicemente, hanno solo aspirato a vivere tranquilli nel territorio coltivato dai loro avi. Del resto non toccava mai a loro decidere a quale padrone sottostare. Oggi, che anche il Bengala è diventato in parte Bangladesh (dopo essere stato sino al 1947 India britannica e poi, sino al 1971, Pakistan orientale) e l’India, come il Myanmar, è uno Stato indipendente, non ha più molto senso rivangare il passato. Non è questione di ius soli ma di semplice buon senso. Un buon senso che però fa a pugni col razzismo, con un’interpretazione assai poco compassionevole del messaggio buddista e molto probabilmente anche con interessi economici sulle terre abitate da questa minoranza. Che, tanto per cominciare, non può dimostrare di possedere la terra su cui vive.
I rohingya infatti non hanno cittadinanza: non hanno cioè una carta di identità, non possono votare, non possono pertanto avere validi certificati di proprietà. La legge sulle nazionalità, in un Paese come il Myanmar che ne conta diverse, non riconosce loro nessuno status. In sostanza, sono “invisibili”. Questa vicenda della loro ciclica persecuzione è storia vecchia, come i pogrom di cui ciclicamente sono stati vittime per motivi etnici o religiosi. L’ultimo nel 2012, quando in Myanmar una fazione di monaci buddisti oltranzisti scalda gli animi e scatena violenze contro i musulmani rohingya accusati di essere un pericolo per la religione e le tradizioni della maggioranza.
I rohingya non hanno cittadinanza: non hanno una carta di identità, non possono votare, non possono avere validi certificati di proprietà. In sostanza, sono invisibili.
I fatti del 2012 si risolvono con 200 morti e oltre centomila sfollati interni. Tatmadaw, l’esercito, che all’epoca si trova alla guida del Paese, per il momento si accontenta. Poi le cose ricominciano nell’ottobre del 2016. Questa volta è un attacco armato a posti di guardia della polizia birmana a scatenare la reazione dei militari che cominciano una caccia selvaggia alla guerriglia: incendi, omicidi, stupri, tutti documentati dai racconti di chi comincia a fuggire oltre frontiera. Quando visitiamo i campi allestiti in Bangladesh nel distretto di Cox Bazar è Natale. Sulle spiagge di Cox si festeggiano le vacanze di studenti e lavoratori e tutti gli alberghi sono pieni lungo questa costa che vanta la spiaggia più lunga del mondo. Ma a pochi chilometri dagli allegri festeggiamenti sul bagnasciuga, 70-80.000 rohingya si accampano come possono appena oltrepassato il fiume Naf. Il Bangladesh chiude un occhio: accetta che in qualche modo questa gente possa ottenere riparo. Si accampano in luoghi che diventano campi profughi “informali”, con tende di plastica, scarsi aiuti alimentari, qualche utensile portato da casa, un conteggio della loro presenza quasi impossibile. Lavorano come e dove possono, si spostano da campo a campo e nelle città. In effetti sono del tutto simili ai bangladesi ma la verità è che si tratta di gente senza status sia in Myanamar sia in Bangladesh che nega loro la nazionalità. Sono degli apolidi, vittime del dipanarsi perverso delle frontiere e vittime di un rigurgito identitario nazionalista che li vuole cacciare. Solo razzismo? Islamofobia? Non soltanto.
Spettro islamista e land grabbing
La scusa dell’ultima ondata di violenze e del grande esodo di questi giorni si chiama Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), un gruppo islamista secessionista che ha organizzato gli attacchi dell’ottobre 2016 e quello, recentissimo, del 25 agosto 2017. I militari agitano lo spettro di uno “Stato islamico” nel cuore del Myanmar buddista e il generale Hlaing pensa, non a torto, che la guerriglia voglia subito una modifica della legge del 1982 che divide la cittadinanza lungo linee etniche e con una scala gerarchica dello status – pieno, associato, naturalizzato – che esclude i rohingya e in genere discrimina i musulmani. Persino Aung San Suu Kyi (cui qualcuno ora chiede venga ritirato il Nobel) non ha voluto che i musulmani – anche se non rohingya – si presentassero nelle liste del suo partito alle elezioni che nel 2015 hanno sancito l’arrivo della democrazia nel Paese ostaggio per decenni dei militari.
Numerosi osservatori ritengono che l’espulsione di questa minoranza non abbia a che vedere solo col razzismo e la fobia religiosa, ma anche con un progetto economico per appropriarsi delle loro terre.
Mentre l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, incaricato proprio da Suu Kyi di preparare un dossier sulla questione rohingya (che anche lei non chiama col loro nome), chiede che le leggi sulla cittadinanza vengano riviste, numerosi osservatori ritengono che l’espulsione di questa minoranza non abbia a che vedere solo col razzismo e la fobia religiosa ma anche con un progetto economico per appropriarsi delle loro terre. Dagli anni Novanta l’allora governo dei generali ha infatti inaugurato una politica di requisizione dei terreni considerati sottoutilizzati con l’idea di affidarli a società private che li mettessero a profitto. Si chiama favorire lo sviluppo – come sostengono i militari – o semplicemente land grabbing? Dal 2012 una legge ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati che possono gestire migliaia di ettari e ha aperto anche al capitale estero. E così da allora nella zona dei rohingya sono passati di mano oltre un milione e 200mila ettari. Del resto, se non hai cittadinanza e documenti, se la tua casa è bruciata e te ne sei andato, quando mai potrai tornare a reclamarli?
Silenzio imbarazzante
Di fronte a tutto ciò, il nuovo governo civile, che ha vinto le elezioni nel 2015, non prende posizione. La Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, cui la Costituzione nega un ruolo di primo piano (perché sposata a uno straniero) e che è ministro degli Esteri e “consigliere” dell’esecutivo, si è trincerata dietro un silenzio assai poco dorato. Rotto da un’unica dichiarazione davvero fuori luogo: e cioè che sulla vicenda è stata diffusa solo “disinformazione”. Quel che si dice a Rangoon, la vecchia capitale e centro della vita del Paese, è che questo silenzio non è altro che il timore di un golpe militare. Dopo le elezioni, gli uomini in divisa, cui la Costituzione dà anche diritto a un quarto dei deputati in parlamento, hanno negoziato tre ministeri chiave: Interno, Difesa e… Frontiere. Tutto sembra tornare visto che l’esercito, qui come in altri Paesi dell’area, è una potenza ovviamente militare ma anche economica e politica. La posizione del governo civile dunque è fragile e difficile, ma il suo silenzio si è fatto sempre più imbarazzante.
Se il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha espresso “seria preoccupazione” ma non ha chiesto ufficialmente nulla alla Nobel, la signora Yanghee Lee, special rapporteur delle Nazioni unite nel Myanmar – una persona che il governo birmano ha continuamente ostacolato – non solo ha dichiarato che la situazione è molto grave ma anche che ora si aspetta che Suu Kyi “faccia un passo”. Lo stesso ha fatto Malala Yousafzai, un premio Nobel più recente ma non meno importante di quello attribuito a Suu Kyi, alla quale ha detto che il “mondo sta aspettando” di ascoltare la sua voce. Non è la sua prima volta: nel dicembre scorso, dopo il pogrom dell’ottobre 2016, la giovane pachistana aveva chiesto un intervento dell’Onu in una lettera firmata anche da altri dodici premi Nobel (da Muhammad Yunus a Desmond Tutu) e da diversi personaggi di rilievo internazionale (Bonino e Prodi tra gli italiani). Con nessun risultato. Sino a qualche giorno fa, tutto quello che Suu Kyi aveva saputo rispondere, in un’intervista alla BBC, è che “chi torna è benvenuto”. Davvero troppo poco, perché la Nobel si è dimenticata di aggiungere come, dove, in quali edifici e con che documenti. E, soprattutto, con quali garanzie.
Rotto solo da qualche dichiarazione, di ambasciatori o di figure istituzionali di secondo piano, in Occidente nessuno sembra volere turbare il sonno dei generali birmani.
Il silenzio di Suu Kyi è comunque in buona compagnia. Rotto solo da qualche dichiarazione, di ambasciatori o di figure istituzionali di secondo piano, in Occidente nessuno sembra volere turbare il sonno dei generali birmani. Per realpolitik o indifferenza, o forse perché troppo occupati coi migranti di casa: condannare un dramma nell’Oceano indiano quando nel Mediterraneo se ne registrano di molto simili, sembra forse fuori luogo. La Turchia ha fatto la voce grossa ma è anche incorsa in un errore madornale (spacciando su Twitter per rohingya foto di vittime di alluvioni o di drammi persino africani) che ne ha azzerato la portata. Qualche solidarietà arriva dai Paesi musulmani, come Pakistan e Iran. Quanto ai vicini, con l’unica eccezione del Bangladesh (e in parte di Malaysia, Maldive e Indonesia), i confinanti fanno orecchie da mercante. Bangkok, Paese buddista sotto tutela militare, recita il mantra della non ingerenza. Delhi – la “più popolosa democrazia del mondo” – minaccia l’espulsione dei 40.000 rohingya illegali sparsi sul suo territorio. I pragmatici cinesi ammiccano.
Il magazine birmano Irrawaddy lo spiega così: tanto per cominciare c’è un interesse politico che riguarda la stabilità della nazione confinante (Pechino direbbe “armonia”) per cui la Cina difende le ragioni del governo birmano nel Consiglio di sicurezza dell’Onu bloccando tutto ciò che potrebbe accusare o mettere in mora il Myanmar. Infine, oltre a essere il maggior investitore nel Paese, ha interessi specifici anche nello stesso Stato del Rakhine. Pechino è molto interessata allo sviluppo del porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio che arrivano via Mare da Ovest. I cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale locale e finanziano l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, nella Cina del Sud. C’è anche un altro investimento che prevede una linea ferroviaria. Myanmar è un tassello strategico del progetto cinese One Belt, One Road, meglio conosciuto come “Nuova via della seta”. Dunque, è bene non disturbare il manovratore.
La voce di Francesco
Sono soli quei 90.000 rohingya che tentano di attraversare la frontiera per ingrossare le fila di chi ha già attraversato il fiume Naf. Molti restano confinati nella no man’s land tra i due Paesi perché, se è vero che Dacca chiude un occhio, ufficialmente ha deciso – questa volta – di respingerli. C’è solo un piccolo Paese che non è rimasto in silenzio: la Città del Vaticano. Molte speranze sono riposte infatti nella visita che papa Francesco – che più volte ha preso posizione sul dramma di questa minoranza – svolgerà a fine novembre in Myanmar e Bangladesh. Ma – ha scritto l’agenzia cattolica Ucanews – “…la Conferenza episcopale del Myanmar ha suggerito a Papa Francesco di non usare il termine Rohingya” durante il viaggio apostolico in Myanmar dal 27 al 30 novembre prossimo. “Abbiamo solo fatto notare che la parola Rohingya è un tema sensibile nel Paese e sarebbe meglio non usarla durante la visita”, ha detto monsignor Alexander Pyone Cho, arcivescovo di Pyay, la diocesi del Rakhine, abitato dalla minoranza musulmana Rohingya perseguitata dal governo. Come si dice, ci vorrebbe un miracolo. Anche per un Papa.