L a scena è ormai diventata iconica: Sir Isaac Newton è seduto sotto un albero e una mela si stacca da un ramo cadendogli in testa, costringendolo a ragionare sul perché quasi tutti gli oggetti sembrino cadere verso il centro della Terra, ma non gli astri, i pianeti e, soprattutto, la Luna. Oggi sappiamo che l’aneddoto è in gran parte romanzato: la mela non gli cadde in testa, Newton nemmeno era seduto, stava semplicemente camminando nel giardino a casa di sua madre nel Lincolnshire. Ma c’è un dettaglio in questa scena che è autentico e può dirci molto sul funzionamento della creatività umana. Quando il frutto cadde a terra e fu sorpreso da quella cruciale intuizione, Newton si stava prendendo una pausa. Nei secoli, l’immagine di Newton seduto sotto l’albero è diventata non solo simbolo dell’illuminazione dello scienziato, ma anche del lampo di genio dello scrittore, dell’estasi generativa del poeta, dell’idea originale dell’artista figurativo; ed è curioso come il tema dell’ispirazione creativa, per quanto centrale in tutti i distretti del mondo artistico, sia ancora ammantato da un’aura mistica e confusa.
Uno dei pochi tentativi di analizzare in modo organico le dinamiche dei processi creativi risale al 1940, quando la storica e musicologa Rosamond E. M. Harding diede alle stampe un libro intitolato An anatomy of inspiration (ora pressoché introvabile), nel quale, partendo dalle testimonianze di artisti e scienziati, dalle lettere di Pëtr Il’ič Čajkovskij ai diari di Jane Austen, dalle annotazioni di Louis Pasteur a quelle di Charles Dickens, Lord Kelvin e W. A. Mozart, delineò un’elaborata teoria su come il cervello umano sia in grado di produrre idee originali. In sintesi, secondo Harding, gli artisti sono più produttivi quando hanno accumulato conoscenze approfondite in ambiti diversi tra loro, quando hanno avuto tempo di rielaborare queste nozioni al di fuori di schemi rigidi e precostituiti e, soprattutto, quando sono in una situazione di relax mentale. Come vedremo più avanti, oggi la neurologia sembra confermare le intuizioni di Harding, ciò nonostante i preconcetti accumulati nei secoli stentano a decadere. Il problema ha radici storiche.
Dalle muse al subconscio
Per gli antichi greci i poeti e gli artisti creavano in preda ad una sorta di estasi, un raptus simile alla pazzia che, per il tempo necessario alla creazione, li tramutava in strumenti al servizio di particolari divinità (le Muse). Una simile concezione l’avevano gli antichi romani, che in più credevano in una totale separazione tra l’ispirazione e le abilità personali o le nozioni tecniche. Per i Cristiani l’ispirazione era un dono dello Spirito Santo; per i Norreni un dono degli dei; per gli Ebrei, invece, i poeti erano uomini sopraffatti dalla voce di Dio, e perciò l’ispirazione aveva un aspetto rivelatorio.
Insomma, per molto tempo si è dato per scontato che le opere artistiche non potessero avere un’origine prettamente umana, che dovessero esserci delle influenze di natura esterna, che l’artista, in sostanza, non fosse altro che un veicolo dell’ispirazione divina. C’è una ragione, ed è che per molto tempo l’uomo ha vissuto nella convinzione di non essere il vero artefice del proprio destino. Le cose iniziarono a cambiare durante il Rinascimento, con la concezione del singolo come soggetto in grado di autodeterminarsi, il rifiuto della separazione tra spirito e corpo, la relegazione del divino in secondo piano rispetto all’individuo. Ma se da un lato il baricentro della creatività passò dal divino all’umano, dall’altro il modo di concepire la creazione artistica non cambiò più di tanto: l’ispirazione era ancora vista come qualcosa di mistico, un guizzo inspiegabile e incontrollabile che scaturiva dagli inesplorabili abissi della natura umana.
I romantici parlavano di “genio”, inteso come una sorta di surrogato divino che alberga nell’animo umano rendendolo creativo. L’arte, dunque, aveva ancora origine divina, semplicemente il divino aveva assunto una dimensione interiore. Si dovette aspettare il XVII secolo perché la questione venisse affrontata in modo razionale: John Locke suggerì la possibilità che nella mente umana le idee potessero combinarsi autonomamente tra loro ed entrare in risonanza, producendone di originali e più complesse; Sigmund Freud naturalmente mise l’ispirazione sotto il generoso ombrello del subconscio; Jung invece si convinse che l’artista fosse un individuo capace di entrare in sintonia con il cosiddetto “inconscio collettivo”, una sorta di fantomatica “memoria genetica” delle esperienze dei nostri avi. Oggi, il concetto di ispirazione gode di scarsa fama, soprattutto tra gli scrittori. È noto, ad esempio, come l’autore di Arancia Meccanica e Il seme inquieto, Anthony Burgess, liquidasse la questione nella sua autobiografia, You’ve had your time:
Lascio volentieri il mito dell’ispirazione ai dilettanti; l’esercizio di una professione comporta disciplina, il che per me significa produrre duemila parole in bella ogni giorno, weekend inclusi.
Negli ultimi anni mi è capitato di ascoltare rivendicazioni analoghe in molte presentazioni letterarie. Di fronte alla fatidica domanda “Come ti è venuta questa idea?”, molti autori mettevano su un’espressione accigliata e si producevano in piccati strali contro l’idea che l’arte sia frutto di un processo inconscio e incontrollabile. “Piantatela di pensare che gli scrittori abbiano un fuoco sacro che li abbaglia e li rapisce, costringendoli a produrre opere mirabili” diceva più o meno l’interpellato. “Questo è un lavoro, e come tutti i lavori richiede fatica e frustrazione.” Convinzione di molti, dunque, è che l’ispirazione sia un mito, una credenza pericolosa che è necessario sfatare, perché l’arte è fatta di lunghe ore di fogli stracciati, pugni sbattuti, notti insonni. E per certi versi hanno anche ragione: un’idea, per quanto buona, non potrà esser tramessa a un pubblico senza passare attraverso un faticoso processo esecutivo. Ma che dire di quell’idea? Da dove viene? Come emerge? E, soprattutto: quanto è conscio questo processo creativo?
Un ribollente magma cognitivo
Gli studi neurologici più recenti suggeriscono che i momenti di “illuminazione” esistono, hanno una componente prevalentemente inconscia, e dei connotati combinatoriali simili a quelli che Locke aveva ipotizzato a fine ‘600 e che Harding aveva descritto in maniera sorprendentemente dettagliata, senza alcun supporto tecnologico, già nel 1940. Nel suo numero del gennaio 2017, la rivista Organizational Behavior and Human Decision Processes ha pubblicato i risultati di uno studio condotto da Yeun Jun Kim e Chen-Bo Zhong della University di Toronto, il cui obiettivo era proprio far luce sulle dinamiche del pensiero creativo. In un esperimento, i ricercatori hanno suddiviso 182 studenti universitari in due gruppi: al primo è stata consegnata una scatola piena di mattoncini LEGO suddivisi per colore e lunghezza, al secondo una scatola con gli stessi mattoncini ammucchiati in ordine sparso; a entrambi i gruppi è poi stato chiesto di utilizzare i LEGO per riprodurre le sembianze di un alieno.
Alla fine dell’esperimento, i partecipanti del secondo gruppo avevano creato alieni più elaborati e anatomicamente originali. Dopo aver riprodotto l’esperimento utilizzando stringhe di parole e aver ottenuto risultati analoghi, Kim e Zhong sono giunti alla conclusione che quando un individuo è costretto a utilizzare informazioni seguendo una struttura gerarchica, la sua creatività ne risulta compromessa. Le conclusioni dei due ricercatori erano interessanti, ma non abbastanza solide da arginare le obiezioni di chi faceva notare, a ragion veduta, che gli esperimenti non tenevano conto di altre possibili variabili, come le capacità cognitive dei singoli, la predisposizione innata al pensiero creativo e l’esperienza personale. Altri studi recenti, tuttavia, sembrano avvalorare l’ipotesi di Kim e Zhong.
Il neuroscienziato cognitivo americano John Kounios, autore del saggio The Eureka Factor, non è solo convinto che i lampi di genio esistano, ha anche passato gli ultimi anni nel tentativo di dimostrarlo. I suoi esperimenti di neuroimaging hanno rivelato che, quando un soggetto trova un’improvvisa soluzione a un problema, questa epifania è accompagnata da un pattern di attivazione neuronale nettamente diverso da quelli comunemente correlati al ragionamento conscio e al problem-solving: “Gli eureka moment sono associati a uno specifico picco di attività ad alta frequenza nel lobo temporale destro” spiega Kounios,
questo picco di attività è preceduto da un breve ‘intervallo intellettivo’ durante il quale una persona è momentaneamente meno conscia dell’ambiente che la circonda. Nessuno di questi pattern neurali è invece individuabile quando un individuo sta risolvendo un problema in modo analitico.
Keep calm and study on
Quello che Kounios e colleghi vogliono suggerire è che il nostro cervello rielabora costantemente idee e nozioni a livello inconscio, trovando soluzioni e riorganizzando informazioni, e che, ogni tanto, questo ribollente magma cognitivo manda in superficie nuove idee che, entrando in una dimensione conscia, ci appaiono come intuizioni lampanti. Non solo, come altri studi condotti in precedenza da Kounios hanno dimostrato, le persone in genere tendono a mostrarsi più intuitive quando si trovano in una condizione di benessere e relax. “Quando sono in uno stato d’ansia” puntualizza il neuroscienziato “il loro pensiero si focalizza, diventa più cauto e analitico, il che d’altro canto può aiutarli ad essere critici riguardo alle proprie idee e dunque a perfezionarle.” Non stupisce allora che tra le testimonianze degli autori più svariati si trovi una ricorrente associazione tra l’ispirazione e attività che poco hanno a che fare con la scrittura: Henry Miller diceva che “succede tutto negli attimi di calma, di silenzio, mentre cammini o ti radi o giochi a qualcosa, persino mentre parli con qualcuno che non ti suscita grande interesse”; Ann Carson suggerisce di dedicarsi a un’altra forma d’arte; Cormac McCarthy cerca qualcuno con cui parlare; mentre Donna Tartt ebbe l’ispirazione per Il Cardellino mentre bighellonava a un mercatino delle pulci.
Volendo credere alla leggenda, lo stesso Archimede pronunciò il primo Eureka! dalla sua vasca da bagno. Ma sarebbe ingenuo illudersi che basti svagarsi per vedere emergere idee brillanti: se quel magma cognitivo ogni tanto manda intuizioni in superficie, è perché è stato adeguatamente nutrito. “Perché possa riarrangiare delle idee in combinazioni nuove ed originali, [l’artista] deve avere non solo una conoscenza adeguata dell’argomento primario, ma anche una varietà di conoscenze esterne”, scriveva Rosamond Harding in An anatomy of inspiration. “La competenza tecnica deve essere talmente avanzata da non essere d’ostacolo al flusso di idee. Non è che uno si siede e dice a se stesso: ‘ora mi metto a pensare a quali correlazioni ci possano essere tra questo e quello.’ Si tratta di un processo più passivo che attivo.”
Abbiamo visto all’inizio dell’articolo come nei secoli si sia passati da un’idea di ispirazione divina a un tipo di ispirazione più controllato dall’uomo. Alla luce delle scoperte più recenti a livello neurologico, si sente l’esigenza di un ulteriore passaggio per avvicinarsi a una concezione di processo creativo che sia più vicina alla realtà: e cioè che sì, i processi creativi dipendono totalmente dall’essere umano, ma questi può esercitare solo un limitato controllo su di essi. “Che tipo di controllo?” si chiederà lo scrittore bloccato davanti al foglio bianco, “Cosa posso fare, oltre a passare ore seduto alla scrivania?”. Trovarsi un hobby potrebbe essere una soluzione; oppure, nel dubbio, estendere il proprio campo di studi. Fermo restando che, se è vero che le intuizioni più brillanti possono emergere spontaneamente, è altrettanto vero che per renderle concrete bisogna dedicare ore e ore di lavoro mentale, analitico e razionale.