P otrebbe essere semplicemente un meccanismo con cui il nostro cervello affronta le complessità del reale. Un metodo di categorizzazione, non diverso da quello che usano api e formiche per classificare fiori e nemici, e che semplifica la vita a tutti. L’utilizzo di un personaggio per indicare qualcosa di più complesso e articolato, lontano nel tempo e frutto di tanti sforzi individuali. Jordan per il basket, per esempio, o Chuck Berry per il rock ‘n’ roll. Beethoven o Mozart per la musica classica e Verdi per la lirica. O Garcia Marques per la letteratura sudamericana. Metonimie sopportabili, anzi, utili. Con buona pace di Larry Bird, Beatles, Bach o Borges.
Per le scienze della vita però il distacco tra primi e secondi è ancora più netto: l’idea fondante della biologia è Darwin. È sua la teoria dell’evoluzione, l’idea della selezione naturale e di quella sessuale, e parecchi altri suggerimenti ancora oggi utili. Per questo sembra quasi naturale riferirsi all’intero edificio come alla “teoria darwiniana dell’evoluzione”, una specie di automatico embodiment che tutti bene o male accettano. Ma qualsiasi semplificazione della realtà non può che avere delle conseguenze, negative o positive.
Darwin, infatti, nei dibattiti attorno all’evoluzione – che spesso diventano vere e proprie lotte – è usato come arma. Arma propria nelle mani di evoluzionisti o comunicatori preparati, per attirare lettori nel raccontare la storia della teoria. Arma impropria quando brandita da oppositori della scienza e giornalisti affezionati al titolo strillato, che utilizzano invece Darwin come bersaglio ideologico, quello che in inglese chiameremmo straw-man (uomo di paglia). E basta così arrivare a dire “Darwin aveva torto” per far crollare tutta la teoria evoluzionistica.
Curioso, sento dire con frustrazione dai biologi, come questo non accada per l’altra figura simbolica della scienza, cioè Albert Einstein. Gli errori di Einstein sono ben noti, se di errori si può parlare. Come i suoi forti dubbi sull’”azione a distanza”, o l’aggiunta della costante cosmologica. Nessuno però si sogna di affermare che “Einstein ha torto” in maniera così decisa e violenta come avviene con Darwin.
Un problema di comunicazione
Biologi e filosofi evoluzionisti sanno benissimo che parlare di teoria darwiniana o addirittura di darwinismo è un eccesso di semplificazione; anche se nei discorsi di tutti i giorni e nei loro articoli l’espressione è usata. La scienza del cambiamento delle forme di vita è infatti un edificio complesso, costruito su fondamenta solidissime ma non limitato a queste. Che, se vogliamo, non risalgono neppure a Darwin ma alle primissime osservazioni naturalistiche dei greci (per esempio Anassimandro ed Empedocle), per tornare in superficie nel Sette-Ottocento e trovare una compiuta descrizione con Darwin. Nel 1859 il naturalista inglese non spiegò l’evoluzione (il cambiamento in sé e per sé era accettato, anche se un po’ obtorto collo) ma il meccanismo principe che la guida: la selezione naturale. A cui aggiunse qualche anno dopo un altro tassello, quella della selezione sessuale (contrastato e contestato e secondo alcuni ancora poco compreso).
Ascrivere a Darwin l’intera responsabilità della complessa teoria dell’evoluzione è un messaggio incompleto e fuorviante che può poi trasformarsi in qualcosa di più pericoloso.
Dopo un periodo di eclisse all’inizio del Ventesimo secolo, dovuto anche alla (ri)scoperta delle leggi di Mendel, negli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso una serie di studiosi poco noti al pubblico ma molto conosciuti dai biologi aggiunse al quadro darwiniano particolari fondamentali, come la deriva genetica, la genetica di popolazione, molta matematica, il punto di vista della paleontologia e dell’embriologia, i meccanismi di nascita delle specie. A questi più tardi si aggiunsero anche gli studi degli etologi e (in parte) degli ecologi. Altri punti, come il dibattito egoismo/altruismo, e quindi il concetto dei “geni egoisti”, la teoria neutrale dell’evoluzione, l’integrazione natura/cultura e l’ipotesi degli equilibri punteggiati, si aggiunsero man mano. L’edificio dell’evoluzione divenne ancora più complesso verso la fine del secolo con la costruzione di dependances interessanti, come la costruzione di nicchia, l’epigenetica, l’evolvability e la selezione multilivello. Come si vede da questo brevissimo riassunto, l’intera teoria è sfaccettata e multiforme, forse ancora da completare, ma ciononostante abbastanza potente da poter spiegare molti dei fenomeni del mondo vivente. È altrettanto chiaro che il contributo di Darwin è stato essenziale ma non unico, e che solo studiando bene l’intero percorso della teoria se ne può parlare con cognizione di causa.
Eppure (per tornare al nostro tema), sono rare le occasioni in cui – dentro e fuori dal mondo scientifico – non si usi l’espressione “evoluzione darwiniana”, oppure “teoria di Darwin”. Come ogni scorciatoia terminologica, anche questa ha i suoi aspetti utili e altri dannosi. Va usata dove e quando serve. Giornalisti e insegnanti, per esempio, hanno spesso bisogno di colpire l’attenzione del lettore o del ragazzo nel giro di pochissimo tempo. E parlare di una persona, di un personaggio anzi, invece che di una teoria, può essere il metodo migliore per fermare i pensieri dei lettori o dei ragazzi. Scrivere di Darwin può introdurre al clima culturale dell’epoca, alla rivoluzione scientifica che ha scatenato; fornire in breve un punto fermo attorno al quale costruire altre lezioni. Usarlo, insomma, senza dimenticarlo ma senza fermarsi al suo tempo e alle sue idee. Anche iniziare un articolo scientifico con un ricordo di quanto disse Darwin sull’argomento potrebbe essere un corretto metodo comunicativo. In un caso e nell’altro, Darwin viene usato come blocco di partenza da cui avviare la propria personale corsa. È per questa ragione che molti evoluzionisti cercano, anche quando litigano furiosamente com’è accaduto per esempio tra Gould e Dawkin, di appropriarsi dell’”eredità di Darwin”, non dell’evoluzione. Anche qui, molto è comunicazione, poco è scienza.
L’uso strumentale del personaggio Darwin per introdurre l’intero mondo dell’evoluzione è, da certi punti di vista, sopportabile. Ma anche il migliore degli strumenti può essere usato male. Fermarsi a citare Darwin, infatti, e ascrivere al naturalista inglese l’intera responsabilità della complessa teoria, è un messaggio incompleto e fuorviante che può poi trasformarsi in qualcosa di ben più pericoloso.
Contro Darwin
Il trucco di attirare il lettore col nome di Darwin per molti giornalisti si ferma lì, rimane un giochino superficiale. Sarebbe estremamente complicato, al di là delle mie possibilità e della lunghezza sopportabile per un articolo, condurre fino in fondo un’analisi che abbia un qualche valore del perché l’evoluzione (e spesso tutta la scienza) siano trattate in modo così trasandato sui mezzi di comunicazione.
Il problema principale, però, è che questo utilizzo approssimativo è diventato un’arma nella mani di coloro considerano l’evoluzione come un edificio sul punto di crollare, a cui serve solo qualche colpetto per trasformarsi in polvere. Le ragioni per cui vogliono far scomparire uno dei più importanti “mezzi di conoscenza” della realtà sono tante e complesse, e non sempre hanno a che fare con la religione.
L’intera teoria è sfaccettata e multiforme, forse ancora da completare, ma ciononostante abbastanza potente da spiegare molti dei fenomeni del mondo vivente.
Gli antidarwinisti e/o antievoluzionisti (la loro tassonomia è lunga e complessa e si trasforma nel tempo) usano le citazioni di Darwin come figura cardine della complessa spiegazione del processo evolutivo, dimenticando (volutamente ?) tutto ciò che è venuto dopo. In parte, ovviamente, per attirare l’attenzione della stampa, in parte perché Darwin è, psicologicamente, un facile bersaglio su cui costruire la critica alla teoria. Un esempio tipico del doppio binario tra l’approccio scientifico e quello comunicativo all’evoluzione, e dell’utilizzo del nome di Darwin, è l’ultima “teoria” che lo smentisce, opera di un giovane fisico, Achille Damasco.
L’articolo originale è stato pubblicato su una rivista di fisica, Physica A, con un Impact Factor piuttosto basso. In maniera piuttosto confusa, a detta di alcuni evoluzionisti, dovrebbe costruire un modello di evoluzione che spiega l’origine delle specie come risultato dell’interazione tra oscillazioni delle condizioni ambientali e genoma medio di una specie, o di una popolazione. L’analisi del paper è complessa non perché la matematica e il modello su cui si basa siano articolati e profondi, ma perché la conoscenza della biologia e della storia della teoria da parte degli autori è piuttosto carente e l’elaborazione difficile da districare. Ancora una volta, non è questo che conta, ma la differenza di trattamento e la diversità nella comunicazione. Nel paper originale il nome Darwin non compare mai, e si parla casomai di evoluzione. Nei rilanci su decine di siti web e quotidiani la teoria è definita non-darwiniana (perché “non si fonda su cambiamenti dei caratteri filtrati dalla selezione naturale”). E nelle interviste e presentazioni su molti organi di stampa il giovane fisico è sempre presentato come colui che “supera il darwinismo”. Nell’ambito scientifico Darwin non appare, nella comunicazione invece “Darwin ha sbagliato tutto”. Lo stesso approccio si ritrova praticamente in tutti libri/articoli/interviste/interventi in cui il malcapitato oppositore della teoria evolutiva è presentato come “il genio che supera/smentisce/sbugiarda Darwin”.
Questo è solo uno degli ultimi esempi. Si va dalle alte gerarchie ecclesiastiche come il cardinale Schönborn, sostenitore del progetto intelligente, a studiosi di vaglia, come Piattelli Palmarini e Fodor (il loro libro si intitola Gli errori di Darwin), passando per il campione mediatico degli antievoluzionisti italiani, Antonino Zichichi, che dice di voler leggere l’“equazione dell’evoluzione” prima di poter credere a Darwin, fino a personaggi più divertenti, come Tom Wolfe (famosissimo scrittore di romanzi, autore di un volume in cui Darwin e Chomsky sono attaccati per il loro contributo alla teoria del linguaggio). Un ultimo esempio, che servirà a chiarire un altro punto, è un libro appena uscito, di A.N. Wilson. Il titolo è Charles Darwin: Victorian Mythmaker, ed è una lunga tirata contro Darwin come persona e scienziato. In brevissimo, prendo a prestito il sommario di un tabloid inglese, The London Evening Standard: “Two of his theories about evolution are wrong — and one resulting ‘science’ inspired the Nazis” (Due delle sue teorie dell’evoluzione sono sbagliate, e una “scienza” che ne nacque ispirò i nazisti”).
Cambiare narrazione
Usare Darwin come persona è utile agli antievoluzionisti anche e soprattutto per accuse “di rimbalzo”. Sul mite scienziato si sono costruite le peggiori ipotesi calunniose. Che fosse un ateo convinto ma che si fosse convertito sul letto di morte, che suo cugino ‒ e di conseguenza lui ‒ fosse un razzista, che proponesse di sterilizzare i poveri. Scoprire gli errori sociali e scientifici in un gentiluomo dell’Ottocento è un giochino molto facile. Anche se per Darwin significa inventarsi la maggior parte delle affermazioni o trovare frasi fuori dal contesto che ne evidenziano la natura razzista, aristocratica, gelida e sdegnosa verso i poveri, le “razze” umane inferiori e le persone poco intelligenti. Il libro Darwin’s Sacred Cause: Race, Slavery and the Quest for Human Origins, di Desmond e James Moore ha smontato molte di queste accuse, ma anche fossero vere ciò non significherebbe che la teoria stessa è sbagliata.
Il passaggio da “Darwin è un pessimo soggetto” a “la sua teoria è falsa”, è brevissimo. Si evita in questo modo di entrare nelle pieghe della teoria dell’evoluzione.
Si arriva persino alla reductio ad Hitlerum, per cui la teoria dell’evoluzione avrebbe ispirato i nazisti (“come Gesù ispirò l’Inquisizione e le stragi in Sud America”, risposi d’impulso a un professore di filosofia che accusava Darwin di ogni nefandezza). Il passaggio da “Darwin è un pessimo soggetto” a “La sua teoria è falsa”, è brevissimo. Si evita in questo modo di entrare nelle pieghe della teoria dell’evoluzione, che peraltro pochi degli oppositori conoscono con sufficiente profondità.
Si può ovviare alla situazione, e usare lo strumento Darwin come personaggio senza scadere nel pedissequo? O addirittura parlare di evoluzione senza usare il nume tutelare nelle prime righe? O ancora, difendere l’intera struttura della teoria evolutiva senza accennare al naturalista inglese del tutto? Per gli appassionati e i comunicatori che ritengono la scienza una cosa seria potrebbe essere il metodo migliore. Alcuni consigliano invece di continuare a comunicare come se niente fosse, e ignorare totalmente le distorsioni degli antievoluzionisti. In fondo una figura retorica non ha mai fatto male a nessuno, e chi capisce ciò di cui si parla non si fa sviare. E poi, come mi dice un vecchio collega a proposito degli impostori (come Wilson e altri): “Essere citato aumenta la sua fama”.
Forse nel giro di qualche anno l’intera comunicazione dell’evoluzione riuscirà a liberarsi di questi equivoci, i termini usati saranno appropriati al contesto e al tono e Darwin non sarà più la fonte di tutti i mali del mondo: rimarrà un nume tutelare, un iniziatore, un genio scientifico e se ne potrà parlare come e quando si vuole.