L
a nuova impostazione teorica faceva dell’impero la massima espressione del regime, in cui replicare il meglio della civiltà della madrepatria portando a compimento, su questo terreno di sperimentazione privo di condizionamenti i progetti totalitari fascisti. In questo grande laboratorio biopolitico, l’uomo nuovo avrebbe dovuto trasferirsi in via definitiva per costruire una società nata dall’emigrazione di massa, ma allo stesso tempo selezionata, priva di tutti gli elementi giudicati inadatti per motivi fisici, politici o morali”, scrive Emanuele Ertola, ricercatore e autore di In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza), che è anche una storia sociale della colonizzazione.
La recente pubblicazione di questo saggio, che fa affiorare la profonda discrasia tra ciò che era stato idealizzato nella teoria e la prassi della vita quotidiana in Etiopia dopo la guerra di conquista iniziata nell’ottobre del 1935 e conclusa il 5 maggio 1936, è una delle non frequenti occasioni di riflessione sull’esperienza colonialista italiana, sul nostro rapporto con l’immigrazione e la storia del radicamento di modi d’essere razzisti. Gli italiani con la valigia sognavano sempre l’America, la classe politica fascista prometteva strumentalmente l’Africa per progetti espansionistici, animando e diffondendo un immaginario africano distante da dati di realtà:
Una colonizzazione demografica che allegerisca l’esuberanza di popolazione della Madre Patria, che allevii la disoccupazione, che possa dare collocamento a una immigrazione delle classi medie borghesi, come professionisti e dirigenti di aziende, che possa anche riassorbire una parte della nostra emigrazione,
usando le parole rivolte da Lessona, Ministro delle Colonie, a Graziani. Il primo elemento d’interesse è la volontà del regime fascista di regolare con principi classisti l’emigrazione mediante un apparato burocratico in realtà farraginoso e corruttibile. Come osserva Ertola, l’originalità del caso italiano, seguendo la logica fascista del controllo totalitario della società, risiedeva nel tentativo di selezionare fin da prima della partenza il flusso migratorio diretto verso l’impero.
“Non si può ammettere – per dignità nostra e prestigio razziale – che un italiano venga qui ‘a cercar fortuna’”, si leggeva il 22 luglio del 1939 sulle colonne del Corriere dell’Impero, principale mezzo della propaganda in Etiopia. Non andò così. A dispetto dei filtri istituiti, gli emigranti italiani, seppure l’Africa non fosse la destinazione privilegiata, cercavano la propria opportunità e si affidarono a traffici illegali e business criminali pur di varcare la frontiera. Venendo all’attualità delle nostre cronache, riemerge dunque una domanda mai evasa: si può arginare il desiderio o la necessità di partire di chi intravede in un altrove un’esistenza migliore? I migranti italiani dell’epoca, esposti per tutti gli anni Venti e Trenta alla propaganda martellante sulla necessaria espansione imperiale dell’Italia fascista che alimentò nella cultura popolare il mito della colonia, partirono o cercarono di farlo per la possibilità di iniziare una nuova vita. Anche la propaganda di guerra, che per voce del regista della campagna, il sottosegretario per la Stampa Alfieri, “aveva dovuto assumere una posizione di vero e proprio combattimento”, aveva centrato l’obiettivo di coinvolgere psicologicamente tutto il paese nella lotta, renderlo partecipe.
Dal 1815 al 1930 dieci milioni di italiani lasciarono il suolo natio, una marea umana fra i 52 milioni di europei che abbandonarono il Vecchio Continente. La vibrante propaganda fascista in chiave antiemigratoria e nazionalista non modificò sostanzialmente né fermò del tutto l’emigrazione italiana. Anzi Roma era assillata dal venir meno della principale rotta di fuoriuscita per i migranti, quella nordamericana. L’ambivalenza di Mussolini si manifestò nel linguaggio quanto nelle scelte politiche. Per esempio tagliò il bilancio del Commissariato generale dell’emigrazione, di cui l’Italia si era dotata a inizio Novecento, mentre all’ambasciatore a Washington raccomandava di perorare la causa dell’Italia fascista nella speranza che gli Stati Uniti, che avevano chiuso le frontiere, mantenessero un varco più largo per la nostra emigrazione qualificata, questione di prestigio internazionale. Successivamente, l’accordo siglato nel 1937 con la Germania nazista inaugurò poi la pratica, proseguita nell’Italia repubblicana postfascista, dello scambio carbone-manodopera. La manodopera italiana, dai braccianti agricoli agli operai, quantificati in 200mila lavoratori prelevati dalle nostre fabbriche, per l’industria bellica tedesca (e l’economia nazista) costituì un serbatoio imprescindibile. Non dimentichiamo che dal 1922 al 1938 a causa del fascismo furono 255mila gli italiani espatriati per ragioni politiche.
Il regime fascista era preoccupato di mantenere in essere le vie consolidate della nostra emigrazione. Quest’ultima, senza ammetterlo, restava una valvola di sfogo dei conflitti sociali interni, nonostante la volontà di cancellare l’immagine degradante dell’emigrazione di massa. Dal 1927 il regime intese riorientare il movimento migratorio entro i confini nazionali e le colonie, assorbendo l’eccedenza di forza lavoro con le opere pubbliche. Ertola dimostra quanto l’espansione coloniale fosse connessa all’esigenza di creare sbocchi per l’insediamento di masse di migranti, illustrando la lettura propagandistica che il fascismo produsse di un fenomeno sociale così eterogeneo e inscindibile dalla storia plurisecolare del colonialismo. La selezione di classe alla partenza era motivata da posizioni massimaliste come questa: “il coloniale di oggi (…) non è più uno spensierato e spavaldo procreatore d’una progenie di meticci”. In realtà la composizione sociale di chi partiva era eterogenea. I coloni erano in larga maggioranza maschi adulti non in età giovanissima e il 90% si installò nelle quattro maggiori città etiopi.
Addis Abeba è stata il cuore di una colonizzazione dal carattere prettamente urbano, attirando gran parte di un flusso migratorio straordinariamente consistente in un breve lasso di tempo. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale erano 40mila gli italiani residenti nella capitale su un totale di166mila nell’intera Africa Orientale. Ertola utilizza la figura geometrica del rombo per riprodurre la struttura della società coloniale: ai due vertici opposti c’erano una ristretta élite burocratica, militare, imprenditoriale e alla base un proletariato bianco non qualificato di breve permanenza, pochi i contadini, poi la maggioranza di coloni, una multiforme classe media. La solidarietà di razza, propria di un contesto coloniale, non ribaltò la gerarchizzazione e la divisione in classi vissuta in patria. Anzi i poor white erano percepiti dall’élite coloniale come una minaccia per la società dominatrice e per la purezza razziale: erano i più esposti al rischio della degenerazione del meticciato per la vicinanza con i nativi nei luoghi non esclusivi della città africana.
Un dato quantitativo rilevante nella presenza italiana in Etiopia era quello dei dipendenti pubblici: nel 1940 erano ben 6500, una cifra del tutto sproporzionata, che ha aggravato le difficoltà dello sviluppo economico precario dell’impero, in rapporto agli apparati burocratici delle altre colonie. Quello del governo italiano, dotatosi di una macchina burocratica che non funzionava, era secondo i coloni “un amore che soffoca” con la sua iper-regolamentazione. Chi giungeva con capitali si scontrava con la sostanziale impossibilità dell’iniziativa privata. A causa della corruzione dilagante molti italiani d’Etiopia riformularono l’acronimo AOI in Affari Onesti Impossibili. Coloro che volevano lavorare, senza essere una grande società o parte di un gruppo industriale, dovevano oliare il sistema: “(…) Pagare pedaggi a ogni piè sospinto. Ogni funzionario vi fa laggiù chiaramente capire che se non lo compensate, non vi fa avere il permesso che vi abbisogna”, da una fonte citata in un rapporto della polizia politica.
Il controllo pervasivo non corrispondeva ad alcun criterio di efficienza economica. Solo poco più del 50% delle imprese autorizzate riuscì effettivamente ad avviare la propria attività. Una volta esaurito l’ingente afflusso di denaro pubblico per la guerra e le infrastrutture, che diede impulso alla speculazione di guadagni di ridottissima prospettiva e affannoso respiro, giunse la crisi. Un carteggio riservato tra Farinacci e il Duce a proposito dei lavori pubblici, nel caso specifico le strade asfaltate, evoca vizi nazionali mai estinti:
Checché ne dica il camerata Cobolli Gigli [ministro dei Lavori pubblici], le migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario. Le strade permanenti perché potessero presentarsi al Duce come qualcosa di realizzato, oggi dopo due anni appena sono in pessime condizioni. Non si dia la colpa alle pioggie, perché sulla stessa strada che va da Asmara ad Addis Abeba ci sono dei lotti che hanno resistito e altri no a seconda delle imprese. Non è stato esercitato un serio controllo tecnico, e si son profusi miliardi con facilità. Troppa gente, troppe ditte succhiano criminalmente alle mammelle della madre patria.
Oltre alla massa degli operai, soprattutto non specializzati nella prima fase, gli italiani senza capitali che colonizzarono l’impero quando trovarono risposte alla propria domanda d’impiego era perlopiù nel lavoro dipendente, pochi nella libera professione. Nel commercio al dettaglio si ripropose il dualismo tra l’interesse statuale e quello del colono. La ristorazione era tra i campi più fertili. Rispetto alla vasta propaganda del regime, le attese su Addis Abeba vennero ampiamente deluse, nonostante i massicci investimenti e la trasformazione parziale soprattutto della capitale. Il governo dell’impero era percepito da qualunque osservatore come pesantemente compromesso dall’irrisolto conflitto di competenze e poteri fra Ministero, esercito e partito. L’incapacità da parte delle autorità italiane di gestire l’impero e la situazione socioeconomica alimentarono malcontento soprattutto nella classe lavoratrice, ed è interessante la gestione del consenso e delle contestazioni da parte del partito nazionale fascista, che si infiltrò in tutti gli ambiti della vita civile.
Se la separazione razziale era considerata condizione essenziale dell’urbanistica coloniale, con il fine ultimo di una società d’insediamento integralmente bianca, i numeri reali dell’esigenza abitativa la rendevano inattuabile almeno nel breve periodo. La preoccupazione consisteva nel confinare la popolazione etiope entro le mura della città vecchia «dalle quali non dovrà mai straripare». Come per il miraggio di una svolta economica, la distanza fu abissale tra il programma politico di costruire l’Italia in Africa e la sua attuazione. La casa nuova dentro a “una città italianissima e modernissima” era un privilegio, spesso legato alla classe e “a un amico influente”, e non furono pochi gli italiani a doversi adattare alla vita in “tucul alla maniera abissina”, poi arredato con uno stile europeo, che equivaleva a entrare in pieno contatto con famiglie etiopiche.
Il sistema segregazionista di assoluta separazione attraverso l’attività normativa e l’intervento statale, l’apartheid istruito dalla dominazione italiana in Africa Orientale e fondato sulle teorie antropologiche circolanti in patria, previde un ruolo meramente strumentale per le donne. Questa esperienza restituisce in tutta evidenza anche la visione fascista della donna: madre, moglie e custode della moralità. In Italia le organizzazioni femminili del partito fascista si occupavano dell’addestramento alla vita coloniale. Innanzitutto la donna doveva disciplinare la sessualità, evitando che i coloni si perdessero in “luride stamberghe senza acqua né luce”, così definite nelle relazioni dell’OVRA, o intraprendessero relazioni interraziali, il concubinato. Poi garantiva la bianchezza: avrebbe dovuto generare e crescere una stirpe razzialmente pura. Nel 1938 secondo i dati ufficiali erano poco più di 300 i bambini italo etiopici, solo la metà quelli riconosciuti.
Oggi, come ieri, l’emigrazione femminile è spesso associata come allarme sociale alla prostituzione. La ricerca di Ertola documenta l’originalità fascista nell’incentivazione diretta e spregiudicata della prostituzione italiana in Africa, al fine di porre rimedio a quella che definiva l’emergenza erotica del maschio italiano lontano da casa, spesso in costante ricerca dell’appropriazione anche violenta del corpo delle donne africane. L’esercizio della violenza da parte dei coloni, minoranza nella società, in un contesto di dominio percepito come instabile, è un aspetto di rilievo sul quale l’autore si sofferma, smontando stereotipi. Le prostitute ebbero un ruolo di primo piano nell’impero; lo Stato era in prima linea nella tratta allestendo bastimenti del sesso per un imponente sistema prostitutivo. Poi fu la volta delle impiegate del settore pubblico, stenodattilografe, centraliniste, segretarie che con misure anche coercitive furono costrette al trasferimento coatto in Africa. Scrisse Farinacci in una lettera al direttore de Il Regime Fascista:
Le donne inviate per impiegarle negli uffici e nelle aziende erano andate incontro all’irresistibile fame sessuale dei nostri nazionali. Il 90% sono incinte. Esse si trovano di fronte alla tragedia, perché vengono minacciate di rimpatrio, e allora gli aborti sono all’ordine del giorno.
Renzo De Felice qualificò come articolato, complesso e aperto l’atteggiamento delle masse popolari verso il regime all’indomani della guerra, nonostante l’innegabile rafforzamento dello stesso e che “mai il prestigio del duce era stato così alto e mai lo sarebbe stato negli anni successivi”. Lo stesso Mussolini, rievocando in un’intervista la fantastica marcia su Addis Abeba, esaltava le “tre adunate improvvise di popolo come non si ebbero nella storia e poi la notte trionfale del 9 maggio 1936 la più grande vibrazione dell’anima collettiva del popolo italiano”. Ertola affronta la questione del consenso e del controllo del dissenso in Etiopia, e segue la linea di De Felice: “A livello di massa il coinvolgimento psicologico dei ceti popolari e soprattutto di quelli operai nella guerra d’Etiopia non equivaleva a un pieno consenso politico verso il regime fascista: le riserve come gli apprezzamenti rimanevano con esse le preoccupazioni e le insoddisfazioni connesse alle condizioni di lavoro e vita”. E ancora: “L’entusiasmo e l’esaltazione determinati dalla vittoria africana furono brevi e non tali da determinare un nuovo tipo di consenso tra i ceti popolari”.
La guerra etiopica cambiò la percezione e il volto dell’Italia fascista nel mondo. L’Ambasciatore francese a Roma Charles De Chambrun si domandava in un dispaccio del 10 maggio 1936 “fino a dove il capo del governo può farsi condurre dai propri sogni di grandezza”, aggiungendo riserve sulla lucidità nel percepire i pericoli connessi a questi sogni. Alla moglie Rachele Guidi, che lo invitava a concludere con l’Etiopia la sua carriera politica per ritirarsi a vita privata, Mussolini rispose: “No,… bisogna andare sempre avanti. Sento che ancora resta molto da fare, specialmente nel campo sociale e per assicurare le nostre conquiste. Alla casa pensi tu”. Qualche anno più tardi nell’estate del 1943, internato dal governo Badoglio a Campo Imperatore, in una conversazione con il vicebrigadiere dei carabinieri Giuseppe Accetta tornò sul tema del ritiro dalla vita politica dopo la conquista dell’impero: “È insito in qualsiasi uomo l’amore della grandezza e il senso del progresso”.