A metà agosto Margrethe Vestager, commissaria europea per la concorrenza, ha avviato un’inchiesta approfondita sul processo di acquisizione del colosso americano Monsanto da parte della tedesca Bayer. Le ragioni di preoccupazione dell’Unione Europea sono state chiare fin dall’avvio di questa vicenda: la vendita di Monsanto a Bayer porterebbe a un’ulteriore concentrazione nel mercato di sementi, pesticidi e agrochimica.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad altre due acquisizioni di rilievo tra aziende sementiere. La prima è stata quella della svizzera Syngenta da parte di ChemChina, vendita che ormai è andata a buon fine e ha incassato il via libera degli antitrust più significativi. La seconda è la fusione tra Dow e DuPont, unite in un’unica grande azienda a stelle e strisce. Se l’affare Bayer – Monsanto dovesse andare in porto, oltre il 60% del mercato mondiale delle sementi finirà nelle mani di tre aziende, una americana, una tedesca e una cinese.
Margrethe Vestager ha rinviato a gennaio 2018 la decisione definitiva dell’UE. L’acquisto di Monsanto sarebbe l’affare del secolo: l’azienda simbolo dello sviluppo biotech, proprietaria della gran parte dei semi Ogm del mondo, unirebbe le forze con Bayer, azienda di punta del mercato agrochimico. Un affare da 66 miliardi di dollari, chiuso dopo che per mesi è stata Monsanto a rincorrere inutilmente la svizzera Syngenta, arrivando a offrire 47 miliardi di dollari – quattro in più di quelli messi sul tavolo da ChemChina, ma evidentemente con condizioni contrattuali al contorno diverse che non hanno convinto gli svizzeri a vendere.
Quello del mercato sementiero è insomma un panorama che è cambiato rapidamente nel corso di pochi anni. Ma quali sono le conseguenze di questi movimenti di mercato per agricoltori e sistemi agricoli locali? Abbiamo deciso di raccontarlo sul campo.
La biodiversità che rende ricchi
È inizio inverno, in Sudafrica, a metà di una nitida mattina di fine giugno. Parcheggiamo all’entrata della comunità Tshidzivhe. Siamo nella regione Venda, provincia di Limpopo, quasi al confine con lo Zimbabwe. Il Venda è una delle undici lingue ufficiali del Paese. La popolazione che lo parla mantiene un’organizzazione sociale e una vita comunitaria molto legata alle tradizioni dei propri antenati, ma è tutt’altro che isolata. I giovani delle comunità Venda spesso studiano e lavorano in città. Le donne che ci accolgono, dalle anziane alle più giovani, rispettano i riti dell’accoglienza, fatti di gesti, inchini, preghiere e balli. Ma al tempo stesso, usano costantemente i propri smartphone, che portano appesi al collo sopra il vestito tradizionale, telefoni cellulari che squillano di frequente con suonerie indiscrete. Una di loro, mentre ci saluta, scambia messaggi su Whatsapp con la figlia che le manda le foto dei nipoti.
Qui John ‘Nzira, agronomo originario dello Zimbabwe, collabora con le comunità locali in progetti che puntano al recupero e la conservazione delle risorse naturali grazie ad attività attente alla sostenibilità, anche economica. La costruzione di alcuni vivai, avviata quasi dieci anni fa, prevede la moltiplicazione e la vendita di più di 2.500 alberi originari della zona per la riforestazione di questa e di altre regioni. Il progetto per la realizzazione di una banca di semi comunitaria intende invece dare il via a una filiera di raccolta, conservazione e scambio.
La regione Venda ha una lunga tradizione agricola: la fame e la povertà in queste zone sono fenomeni piuttosto recenti, che hanno molto più a che vedere con la storia sudafricana del Novecento che con la capacità di produrre cibo. A inizio secolo, la Seconda guerra anglo-boera sigillò il controllo del paese nelle mani della popolazione bianca. Il Land Act, la riforma agraria del 1913, tolse agli africani neri il 92% delle terre coltivabili. Nonostante l’arrivo al potere, nel 1994, del partito del Congresso Nazionale Africano (African National Congress, ANC) e i vari tentativi di riforme che si sono succeduti da allora, la situazione rimane complicata.
Le terre dei Venda sono fertili e la comunità in cui ci troviamo coltiva soprattutto mais, per fare il pap, una specie di polenta, il carboidrato più presente nella cucina locale. Il mais viene anche arrostito, bollito o fermentato per produrre birra. In questi ultimi anni le donne di Tshidzivhe hanno recuperato e moltiplicato semi di almeno sei varietà diverse di mais, il Gororo, dai chicchi rossi, il Mutonga giallo che resiste meglio alla siccità e lo Tshithavhatsindi, bianco. Coltivano però anche diversi legumi, fagioli piccoli e grandi, di varie forme e colori e che crescono in estate e in inverno, alcuni dei quali particolarmente adatti quando c’è poca acqua a disposizione. E poi semi di zucca, okra e altre verdure. Hanno selezionato le piante che meglio crescono nelle loro terre, e conservano e continuano a moltiplicare solo quei semi stando ben attente a evitare l’impollinazione incrociata per non perdere le caratteristiche desiderate.
La scelta dei semi da conservare non è casuale: delle pannocchie, per esempio, vengono consumate soprattutto le due estremità mentre i chicchi della parte centrale vengono trattati, asciugati e riutilizzati negli anni successivi. La comunità ha così raggiunto l’autosufficienza e, addirittura, negli ultimi tempi, i loro semi viaggiano verso altre regioni, grazie a diverse attività sostenute anche da associazioni come la Mupo Foundation (recentemente rinominata EarthLore) e dal lavoro dello stesso John ‘Nzira con la sua Ukuvuna, fattoria sperimentale e centro di formazione per l’agricoltura biologica e la permacultura. Le donne Venda sono così entrate a far parte di reti di comunità contadine con cui scambiano semi e discutono di pratiche colturali e di conservazione.
C’è il desiderio di recuperare una cultura alimentare che rischiava di perdersi, quella dei propri antenati e della propria terra, in favore di cibi da supermercato che arrivano da lontano, privi di legami con questa regione. Ma le donne di Tshidzivhe hanno capito anche che devono contare soprattutto sulle risorse agricole, sulle colture e sui semi, per sviluppare e far crescere la propria comunità.
La Cina è vicina
Il sistema sementiero mondiale ha vissuto, negli ultimi 30 anni, un netto cambiamento sia dal punto di vista tecnico-scientifico che da quello del mercato e delle leggi che lo regolano. Se la bella storia delle comunità Tshidzivhe rappresenta uno degli estremi del sistema, per raccontare il polo opposto non c’è bisogno di spostarsi dall’Italia.
Argelato, in provincia di Bologna, ha una lunga tradizione di sviluppo e produzione agricola. Qui ha sede la Società Produttori Sementi (già Produttori Sementi Bologna, PSB) che nel 2011 ha festeggiato cento anni. La storia di questa azienda è tutta emiliana. Uno dei protagonisti è Francesco Todaro, genetista contemporaneo dell’agronomo Nazareno Strampelli, con il quale – a partire dai primi anni del Novecento e per oltre un ventennio – discusse delle tecniche di miglioramento genetico delle varietà di cereali. Todaro, professore di agricoltura e Direttore della Scuola superiore agraria di Bologna, fu un accademico con buone intuizioni imprenditoriali. Capì che la modernizzazione dell’agricoltura passava per una selezione e un uso di varietà più produttive – un’idea che piacque anche a molti imprenditori della zona. Con il loro sostegno finanziario (soprattutto con quello di Cesare Zucchini, presidente della Società agraria bolognese e della Cassa di Risparmio di Bologna), Todaro fondò nel luglio 1911 la Produttori Sementi Bologna. Nel corso del tempo PSB crebbe investendo in ricerca e avviando progetti di portata scala mondiale, in collaborazione con enti di ricerca e fondazioni internazionali.
Le sementi PSB sono oggi coltivate su più di 330mila ettari in tutto il paese, l’azienda ha più di 450 ettari di campi sperimentali e una collezione di varietà di grano tenero e duro sostanzialmente inestimabile. Eppure il 7 aprile 2014, un comunicato stampa congiunto ha annunciato l’acquisizione di tutte le strutture, expertise e varietà di PSB da parte della multinazionale svizzera Syngenta. Nel comunicato si legge che “Un aspetto fondamentale nell’accordo è la conservazione del marchio centenario di PSB, che continuerà ad essere sinonimo di produzione di grano duro italiano di altissima qualità”. A meno di tre anni da quell’accordo, però, si fatica a trovare tracce di PSB online, se non riferite al passato.
Quando nel 2016 Syngenta è stata a sua volta comprata da ChemChina, azienda di stato cinese, molti analisti concordavano sul fatto che l’acquisizione di Syngenta, un’azienda dalle altissime competenze genetiche, fosse un investimento volto soprattutto a rafforzare la ricerca e lo sviluppo delle biotech per la produzione e il mercato interno asiatico. La Cina è al momento un netto importatore di cereali e, dato che la sua popolazione è il 20% di quella mondiale, sente più di altri paesi la necessità di lavorare sulla propria sicurezza alimentare.
Da qui, però, viene piuttosto spontaneo chiedersi cosa succederà alle collezioni di grano italiano, quale sarà il destino del patrimonio di conoscenza e di competenza, anche e soprattutto relativa al mercato italiano che è stato prodotto e costruito nel tempo.
Tutti i semi del mondo in poche mani
Da che parte sta andando allora il sistema mondiale dei semi? Un dato importante da cui partire è la concentrazione vertiginosa del mercato sementiero che nell’arco di poco più di 20 anni è passato da migliaia di aziende – presenti e attive in tutti i paesi del mondo – a poche decine.
Una chiusura che preoccupa attivisti e reti di piccoli agricoltori, ma anche analisti ben lontani dal mondo associativo. Persino il Dipartimento di Stato americano per l’agricoltura, USDA, ha pubblicato diversi commenti e rapporti che riflettono sui rischi di un così alto tasso di concentrazione del mercato. Un mercato dove ci sono pochi, pochissimi venditori diventa difficile da penetrare e rende complicato l’accesso a nuovi attori – si legge in una delle ultime analisi dell’USDA, pubblicata online a inizio aprile. I pochi già presenti possono controllare i prezzi senza che ci sia una vera competizione. Il controllo del mercato può avere forti ricadute sulle scelte e le possibilità degli agricoltori e, a catena, su quelle di noi consumatori.
Nonostante il sistema dei brevetti garantisca poi un ottimo ritorno di mercato alle aziende che sviluppano sementi ad alta resa e altri prodotti innovativi per l’agricoltura, quando il numero dei competitori si abbassa oltre una certa soglia (o addirittura un’azienda è quasi in regime di monopolio in un certo mercato) l’incentivo all’innovazione viene meno. E questo, conclude l’USDA, costituisce un problema serio in un momento in cui è evidente che è richiesta molta innovazione, a tutti i livelli, per affrontare la sfida della sicurezza alimentare.
Un’ulteriore critica all’attuale architettura del mercato dei semi viene da una parte del mondo contadino, di tutte quelle associazioni che lavorano per difendere un modello di agricoltura sostenibile e di piccola taglia. Un mondo che punta più sulle filiere corte e che vede gli agricoltori coinvolti in tutte le fasi, dalla scelta di cosa mettere in campo alla costruzione di processi di trasformazione e di distribuzione.
L’approccio tecno-industriale ha certamente portato a un grande miglioramento tecnologico, forse anche a una maggiore razionalizzazione della gestione delle terre dedicate alla produzione nei paesi occidentali. Senza dubbio ha aumentato la capacità di produzione alimentare su scala globale, una delle chiavi per garantire maggiore sicurezza alimentare a una popolazione mondiale in aumento. Ma l’idea di poter risolvere una delle più grandi sfide dell’umanità, quella di nutrire il pianeta nei prossimi decenni e abbattere la fame, puntando tutte le cartucce su un unico modello di sviluppo e adottando un’unica strategia rimane uno degli aspetti più critici dell’attuale sistema agroindustriale.
Serve un sistema agricolo che tenga insieme grande attenzione agli ambienti e alla loro gestione ma anche grande coinvolgimento di chi l’agricoltura la fa, di chi ci lavora, delle risorse disponibili sul territorio per rafforzare la resilienza degli ambienti senza rendere ancora più fragili territori già ampiamente compromessi. La FAO e l’OCSE, negli annuali Agricultural Outlook, continuano a sottolineare l’importanza di valorizzare i piccoli contadini e le aziende familiari che producono oltre il 90% del cibo del pianeta. Facendo innovazione, certo, ma non necessariamente spazzando via conoscenze e competenze, risorse locali e diversità. Favorendo anzi l’accesso alla terra, al credito e ai mercati, la partecipazione in fase di definizione delle policy e le opportunità di formazione.
Le guerre di semi
I semi sono stati scambiati, riprodotti, incrociati, trasportati, collezionati da sempre in modo libero. Quando sono nate le prime banche dei semi, a partire dalla prima fondata in Russia dal genetista Nikolaj Vavilov a inizio ‘900, i semi venivano raccolti da ricercatori nel corso delle loro missioni esplorative in giro per il mondo. Alla raccolta partecipavano anche normali cittadini. Vavilov stesso ne ha ricevuti migliaia di esemplari spediti in bustine, scatoline e via dicendo dagli emigrati russi in America. Nel giugno 2012 abbiamo passato una settimana presso l’Istituto di ricerca sulle risorse genetiche ‘Nikolaj Vavilov’, a San Pietroburgo. Un pomeriggio, la responsabile dell’archivio storico ha tirato fuori decine di esemplari dell’erbario collezionato dal genetista nel corso delle sue missioni esplorative, e molte lettere e cartoline spedite assieme ai semi inviategli da ogni parte del pianeta con descrizioni accurate del nome, della varietà, degli usi. Anche grazie a questi contributi Vavilov ha potuto costituire una delle collezioni più importanti al mondo con oltre 250mila semi in meno di 20 anni. In maniera simile sono state costituite le oltre 1700 banche di semi oggi esistenti.
Con lo sviluppo dell’agricoltura industriale c’è stato un forte impegno nella produzione di sementi migliorate e più efficaci nel garantire buone produzioni. L’impegno di ricercatori come Nazareno Strampelli e Francesco Todaro, per esempio, ha messo a disposizione degli agricoltori italiani varietà migliorate di grano che hanno consentito aumenti consistenti di produzione. Il mercato è andato via via specializzandosi e sempre più la selezione e la moltiplicazione dei semi è uscita dalle aziende contadine ed è diventata un’attività svolta da aziende dedicate.
In generale, si parla di sistema sementiero informale quando ci riferiamo al modo in cui i semi erano gestiti prima dell’avvento dell’agricoltura industriale, attraverso lo scambio tra agricoltori, la vendita sui mercati locali, la conservazione, riproduzione e moltiplicazione in azienda. Un sistema dove non ci sono certificazioni, registri o cataloghi, che è sopravvissuto negli anni ma che soffre del fatto che le leggi approvate negli ultimi decenni tendono a irreggimentarlo, a ridurne i gradi di libertà e in molti casi addirittura a metterlo del tutto fuori legge.
Il sistema informale è ancora in vita in gran parte dei paesi del Sud del mondo ed è recentemente tornato in voga anche in paesi come l’Italia nel mondo delle filiere corte e dell’agricoltura biologica che frequentemente preferiscono sementi locali e tradizionali disponibili nelle collezioni pubbliche rispetto a quelle commerciali.
Un punto di svolta per la formalizzazione del sistema sementiero è il 1961, quando a Ginevra viene approvata da più di 70 paesi, Italia inclusa, la UPOV, la prima convenzione internazionale sulle protezione delle varietà vegetali, più volte aggiornata fino all’attuale versione del 1991. Le sementi sul mercato vengono così iscritte a un registro di varietà e rispettare i criteri DUS: distinzione, uniformità e stabilità. Le varietà iscritte al catalogo godono dei diritti di protezione della proprietà intellettuale, sostanzialmente un brevetto. Una volta coperta da brevetto, la semente non può essere riprodotta e riutilizzata dagli agricoltori nelle semine successive. Grazie a un regolamento entrato in vigore nel 1994, poi, in Europa la proprietà intellettuale ottenuta con una sola domanda vale su tutto il territorio europeo per 25 o 30 anni a seconda delle colture.
Nel 1998 viene però approvata una direttiva europea che introduce il concetto di varietà da conservazione. Sostanzialmente, si apre per gli agricoltori la possibilità di utilizzare, conservare e moltiplicare nelle proprie aziende, i semi di varietà che sono state raccolte nelle collezioni pubbliche, come appunto le banche di semi del CNR italiano o delle Università, e che rischiavano di essere perdute. Queste varietà, sostanzialmente, sono esonerate dal sistema brevettuale. Purtroppo la legislazione non è particolarmente chiara, né è stata recepita in modo puntuale in nessuno dei paesi europei, e quindi la situazione rimane perlomeno dubbia e soggetta a interpretazioni.
Esperienze sul campo
Sono tanti gli agricoltori e i ricercatori che negli ultimi dieci anni hanno deciso di provare ad avviare filiere produttive diverse da quelle della grande distribuzione. Ancora una minoranza – e probabilmente rimarrà tale – ma si comunque tratta di persone che guardano all’agricoltura in modo diverso rispetto a chi la considera solo un sistema produttivo simile a quello industriale.
Ci sono centinaia di esperimenti in giro per il mondo di miglioramento genetico partecipativo. Si tratta di selezioni di varietà locali, o comunque tradizionali, che partono dalle collezioni pubbliche o dalle varietà conservate dagli agricoltori stessi negli anni e che riportano in campo semi non protetti da brevetti commerciali. La varietà possono essere iscritte al registro nazionale, se non altro per evitare casi di biopirateria, e cioè la brevettazione da parte di terzi, una pratica purtroppo tutt’altro che rara. Ma il punto chiave è che il processo di selezione avviene direttamente nei terreni degli agricoltori coinvolti e non in una azienda sperimentale, magari in condizioni molto diverse da quelle dove poi saranno seminate le piante. E viene fatto da agronomi e agricoltori insieme, in modo che vengano valutati quei caratteri che entrambi giudicano importanti, abbassando il rischio che una varietà selezionata in laboratorio e portata sul mercato dopo anni di ricerca finisca con il non essere adottata dagli agricoltori perché non gradita. In piccole aziende familiari, ad esempio, potrebbe non contare solo la resa in peso della granella dei cereali ma anche la produzione della paglia che serve per allevare gli animali o per produrre oggetti. E senz’altro contano sapore e colore che per certi piatti tradizionali sono essenziali.
Spingendosi oltre, negli ultimi anni, alcune realtà hanno avviato progetti di miglioramento di popolazioni miste, il cosiddetto miglioramento evolutivo. Ad esempio, il Centro di Ricerca per la Cerealicoltura (CRA-CER) di Foggia ha iniziato a sperimentare nel 2011 assieme ad un gruppo di coltivatori biologici in Puglia una popolazione mista di diverse varietà di frumento duro. In Toscana, Sicilia, Piemonte e Molise, la Rete Semi Rurali ha portato in campo popolazioni miste di frumenti teneri e altre di frumenti duri. Il 10 giugno di quest’anno, presso l’Azienda Floriddia a Peccioli, vicino a Pisa, c’è stata una visita in campo e la valutazione di diverse parcelle sperimentali di grano tenero, duro e di alcune popolazioni miste. Un’idea, quella della semina di una intera popolazione e non di una varietà uniforme, che l’agronomo Salvatore Ceccarelli propone per ottenere in tempi relativamente rapidi varietà adatte alla coltivazione in un certo terreno e in una certa condizione climatica. Una strategia che fa della diversità, e non dell’uniformità, il suo punto di forza. Erano presenti decine di persone, tra agricoltori, ricercatori, panificatori e consumatori, inclusa chi scrive. Una giornata significativa, vista la decisione di CREA – l’ente di ricerca che certifica le sementi e che è emanazione del Ministero delle Politiche agricole – di certificare per la prima volta, per mano di una sua rappresentante, una popolazione di grano. Un passo importante nel riconoscimento anche ufficiale di questi percorsi possibili di alternativa al modello unico e all’utilizzo esclusivo di varietà uniformi. Ancora, nelle Marche lo stesso Ceccarelli sta collaborando con il CREA-ORA di Monsampolo e con Arcoiris per la produzione di miscugli di varietà di zucchine e di pomodori, mentre in Sardegna il Centro Sperimentazione Autosviluppo e l’Agenzia Regionale AGRIS stanno moltiplicando e studiando vecchie varietà e popolazioni miste di frumento, sia tenero che duro.
Rimettere in campo le vecchie varietà consentendo nuove selezioni è il primo passo per nuovi studi e analisi con strumenti tecnologici che solo due decenni fa non erano disponibili. E così ad esempio all’interno del progetto Seeds for needs, Bioversity International ha studiato in Etiopia, con la partecipazione di centinaia di agricoltori, oltre 400 varietà di orzo e di frumento facendone un’analisi genetica dettagliata. Da questa analisi e dalla selezione dei caratteri fatta con gli agricoltori, il progetto ha ottenuto migliaia di nuove linee di frumento e orzo da utilizzare nei prossimi anni. Oggi Bioversity lavora con oltre 1500 agricoltori etiopi in diverse zone, e ha contribuito ad aumentare di più del 20% la diversità delle varietà in campo e la qualità dei raccolti.
Rispettare le colture e le culture non significa guardare indietro e rinunciare a innovare. Come sostiene lo storico rurale Massimo Angelini nel suo “Semi e popolazioni”:
“Il percorso che accompagna la vita delle varietà agricole, dalla selezione alla tradizione lungo un continuo adattamento, ci ricorda che esse, così come le conosciamo nell’esperienza comune, in natura non esistono. (Le varietà) sono anche il risultato di un’attività umana, spesso comunitaria… (e) potrebbero essere paragonate a un manufatto; comunque sono un lascito, un’eredità, un patrimonio comunitario per definizione. (…) Le varietà, come gli ecotipi, sono il prodotto di un incontro, nel tempo, tra una specie, un terreno e un clima, ma, ben più degli ecotipi, sono anche il prodotto dell’incontro con una cultura, in un luogo e in un ambito comunitario.”
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Questo articolo è stato realizzato in parte grazie a “The innovation in Development Reporting Grant Programme” European Journalism Center (EJC) – journalismgrants.org