Abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori de Il Tascabile di curare dei percorsi di lettura: romanzi, saggi, memoir, film, documentari che esplorano e approfondiscono un tema a loro scelta. Dato il numero di adesioni, lo abbiamo diviso in quattro “episodi” al cui interno troverete libri che spaziano dall’evoluzione al concetto di tempo, dalle camere di hotel all’autofiction, dalle distopie ai problemi del presente. Questa è l’ultima. Buone vacanze e buona lettura!
Tempo
di Matteo De Giuli
Jorge Luis Borges è stato un buon neuroscienziato. Sistematico, acuto, sottile. Prima e meglio di altri ha intuito i raggiri dei ricordi e raccontato il pantano del tempo. Funes, o della memoria è uno scritto di poche pagine, “una lunga metafora dell’insonnia” secondo la definizione dell’autore. È uno dei racconti che compongono Finzioni. Il protagonista, Ireneo Funes, rimane paralizzato dopo esser stato travolto da un cavallo selvaggio. A seguito dell’incidente la sua memoria diviene infallibile, impermeabile all’erosione del tempo. “Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho”. Nel 2009 Rodrigo Quian Quiroga, oggi direttore del Center for System Neuroscience dell’Università di Leicester, colpito dall’accuratezza scientifica che emanava il racconto, andò a Buenos Aires a trovare María Kodama, vedova Borges. Nella biblioteca privata trovò libri di psicologia e neuroscienze sottolineati e scarabocchiati nei passaggi giusti. Tornato in Inghilterra, dopo un paio di anni, Quiroga pubblicò Borges and memory, dove il lavoro del celebre scrittore argentino è utilizzato come contraltare per raccontare lo stato dell’arte delle ricerche sulla memoria.
“Il tempo è la sostanza di cui sono fatto”, scrisse Borges in Nuova confutazione del tempo, contenuto in Altre inquisizioni. “Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. Arnaldo Benini, professore emerito di Neurochirurgia e neurologia dell’Università di Zurigo, ha scelto queste righe come epigrafe del suo Neurobiologia del tempo. Sono in effetti il miglior riassunto del libro: il tempo nasce dentro di noi grazie a meccanismi cognitivi costitutivi del nostro essere, racconta Benini. Il tempo è localizzato nel cervello, negli umani e in molti altri animali, e, come dimostrarono gli studi di Hermann Von Helmholtz, il cervello è capace di distorcere il tempo proprio perché lo crea. Von Helmholtz fu anche il primo a parlare di tempo perduto, con qualche decennio di anticipo su Marcel Proust – con accezione e significato diversi, certo, ma Benini ci tiene a sottolineare come neuroscienziati, romanzieri, psicologi e filosofi stiano in fondo lavorando da secoli, in comunione, alla ricerca del senso del tempo. Gli unici che hanno deciso di mettersi di traverso sono i fisici.
Sul banco degli imputati finisce a più riprese Carlo Rovelli, reo di sostenere, assieme ad alcuni grandi teorici, che “il tempo non esiste” o che tutt’al più è “un’illusione”. Alle frontiere delle fisica, in effetti, sembra che il tempo sia di intralcio quando si cercano di costruire le equazioni della struttura fondamentale dell’universo. Per quanto straniante o insulso possa sembrare – soprattutto a dirlo così, in una frase – pare non esserci bisogno della variabile t per descrivere matematicamente il mondo. Questo vuol dire che possiamo congedarci dal tempo? No, ma se Rovelli e gli altri avessero ragione rimarrebbe da capire, da capo, da dove nasca o a cosa sia dovuta la nostra percezione del tempo. Per una curiosa coincidenza cronografica (ah!), nei giorni in cui è uscito Neurobiologia del tempo, è uscito anche L’ordine del tempo, l’ultimo libro di Rovelli, dedicato alle scoperte e alle idee, spesso anti-intuitive, che hanno rivoluzionato il concetto di tempo in fisica. È un volume snello e ambizioso, che vive il paradosso di essere al contempo estremamente piacevole e di difficile comprensione. Scritto con lo stile che ha portato Sette brevi lezioni di fisica in cima alle classifiche di vendita tre anni fa, fonde meccanica quantistica e filosofia, letteratura e storia delle religioni, riflessioni sulle dinamiche del ragionamento umano e suggestioni, citazioni e grafici con i Puffi. Giusto per toglierci ogni dubbio riguardo al livello di scontro, qualche settimana fa, sul domenicale del Sole 24 Ore, Benini ha definito il libro di Rovelli un “lavoro di pseudofilosofia con pretese letterarie, e non di divulgazione scientifica”.
Potere immaginato
di Giulia Blasi
Apro i miei consigli per l’estate con un libro non ancora uscito in Italia, quindi mettetevi un promemoria da qualche parte: Ragazze elettriche di Naomi Alderman esce in Italia a settembre per Nottetempo, ed è irrinunciabile per i fan del distopico, del fantascientifico, delle riflessioni sociali fatte bene e dei libri che non mollano mai, non perdono un colpo e disegnano un mondo di una coerenza così perfetta da far rabbrividire. Il titolo originale è The Power, che tradotto significa “il potere”, ma anche “l’elettricità”: in un periodo imprecisato del tempo, più o meno coincidente con i giorni nostri, quasi tutte le adolescenti femmine del mondo sviluppano la capacità di emettere scariche elettriche con il solo tocco delle mani. Un potere improvviso e devastante che le ragazze sono in grado di trasmettere alle donne adulte, e che sovverte l’ordine mondiale: le donne, trovandosi in vantaggio fisico sugli uomini, li riducono in schiavitù, li violentano, li uccidono se si ribellano. Un po’ quello che è successo alle donne per secoli, ma alla rovescia: un libro consigliato a chi ancora si racconta che il mondo sarebbe un posto migliore se le donne governassero indisturbate.
Arrivateci pronti rileggendo un po’ di distopie di livello, primo fra tutti il recentemente ripubblicato Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie), del quale non serve dire troppo: a settembre arriva in Italia anche la serie televisiva che ne è stata tratta, e quindi ne riparleremo. Di Kurt Vonnegut si parla sempre in relazione a Mattatoio n. 5, che è indubbiamente il suo capolavoro, ma si trascura ingiustamente Ghiaccio Nove (Feltrinelli), un’utopia/distopia delirante ispirata dal bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, e ambientata in buona parte in un’isola chiamata San Lorenzo, cosa che ad agosto mi sembra molto rilevante. L’estate è anche un buon momento per recuperare la trilogia Queste Oscure Materie di Philip Pullman, uno dei romanzi in cui la narrativa per ragazzi e quella per adulti si incontrano, nonché un libro fortemente critico verso le strutture gerarchiche e il dogmatismo delle chiese cristiane. E il 19 ottobre esce La belle sauvage, il primo libro della Trilogia della Polvere, che delle Oscure Materie è la continuazione.
Sempre a proposito di distopie e poteri immaginati: chi non ha ancora visto Black Mirror (la serie televisiva scritta da Charlie Brooker e ora disponibile interamente su Netflix) forse non sa che si tratta di una delle riflessioni più articolate ed estese sulle ramificazioni del potere mediatico in tutte le sue forme, le implicazioni etiche dell’uso della tecnologia e la possibilità che quello che vogliamo possa non essere quello che ci serve davvero. Il primo episodio della terza serie (e il primo girato in America) si intitola “Nosedive” e racconta un mondo in cui il potere risiede interamente nella popolarità sui social. Tutta la serie (che è fatta di episodi autoconclusivi) è angosciante, ma le somiglianze con alcune dinamiche a noi familiari rende “Nosedive” particolarmente memorabile.
Lezioni di realismo per giovani scrittori
di Francesco Pacifico
Il Saggiatore ha ripubblicato quattro delle raccolte di saggi di Joan Didion. Per una generazione di lettori e scrittori come la nostra, sensibile al documentario e alla non fiction e al tempo stesso innamorata dello stile, Didion è un esempio classico da riscoprire continuamente. Lo smalto del suo giro di frase ci fa però dimenticare spesso la grana del suo realismo, e la pervicacia, la meticolosità con cui ricerca la realtà e la mette sulla pagina. Siccome stiamo pubblicando le nostre liste di consigli di lettura per l’estate, vorrei scrivere al giovane scrittore che invece di andare in vacanza sta passando l’estate in città a perfezionare la propria arte lontano dagli sguardi giudicanti di chi non ha arti da perfezionare. Voglio mostrare al giovane scrittore di finzione o documentario non importa – come Didion ricostruisce il mondo su carta. Lo farò a partire dai quattro libri Verso Betlemme, The White Album (entrambi tradotti da Delfina Vezzoli), Miami (tradotto da Teresa Martini) e Nel paese del Re pescatore (traduzione di Sara Sullam).
In “Verso Betlemme”, contenuto nella raccolta omonima, si racconta il processo a una donna che avrebbe ucciso suo marito dandogli fuoco in una macchina simulando un incidente. Didion, esempio supremo di donna sofisticata americana, non si lascia mai abbacinare dal soggetto e mantiene la calma necessaria per raccontare, oltre che i fatti, le fantasie e le letture personali dei protagonisti e degli osservatori di un fatto di cronaca.
“Quando si aprì il processo, l’aspetto di Lucille Miller era corredato da abiti premaman, perché una visita ufficiale del 18 dicembre aveva stabilito che era incinta di tre mesi e mezzo, un fatto che rese più complicato del solito scegliere i membri della giuria, perché Turner intendeva chiedere la pena di morte. “È un’infelice circostanza, ma ormai è un dato di fatto” diceva della gravidanza a ciascun giurato, e alla fine ne furono scelti dodici, sette dei quali donne, la più giovane di quarantun anni, un’assemblea di quegli stessi suoi pari – casalinghe, un macchinista, un camionista, un direttore di supermercato, un impiegato del catasto – al di sopra dei quali Lucille Miller aveva tanto desiderato elevarsi.
Più ancora dell’adulterio, era questo il peccato che tendeva a rinforzare ciò per cui veniva giudicata. Era scontato, sia per la difesa che per l’accusa, che Lucille Miller era una donna che aveva sbagliato nel volere troppo. Ma per l’accusa, non era solo una donna che voleva una bella casa, voleva andare alle feste e accumulava bollette telefoniche esorbitanti (1152 dollari in dieci mesi), ma era anche una donna disposta a uccidere il marito per la sua assicurazione sulla vita di ottantamila dollari, facendolo sembrare un incidente per incassare altri quarantamila dollari per il doppio indennizzo del premio per gli infortuni.”
In questi paragrafi, JD muove da un accertamento, la gravidanza, i tre mesi e mezzo, per poi spostarsi sulla questione dell’impatto emotivo della cosa e del conseguente problema di trovare una giuria spassionata. Da lì vediamo una sorta di coro greco giudicare l’ambizione spregiudicata della donna e possiamo così meditare, senza che JD si scomponga in dichiarazioni personali, sul rapporto degli americani con il desiderio e la ricchezza. I virgolettati di Didion qui seguono regole applicabili anche nel romanzo: la prosa è il mezzo ideale per inglobare come si esprime la gente.
“Per Turner era una donna che non voleva solo la sua libertà e una somma ragionevole per gli alimenti (cose che avrebbe potuto ottenere, obiettò la difesa, se solo avesse portato a termine la causa di divorzio), ma voleva tutto, una donna motivata da “amore e cupidigia”. Era una “manipolatrice”. Una persona “che usava la gente”.”
Viene in mente il celebre incipit di White Album: “we tell ourselves stories in order to live”.
“Per Edward Foley, invece, era una donna impulsiva che “non riusciva a controllare il suo piccolo cuore sciocco”. Mentre Turner evitava abilmente ogni riferimento alla gravidanza, Foley non perdeva occasione di sottolinearla, al punto da convocare la madre del morto da Washington perché testimoniasse che suo figlio le aveva detto che avrebbero avuto un altro bambino perché Lucille sentiva che avrebbe contribuito molto “a saldare la nostra unione e ristabilire nella nostra famiglia i rapporti armoniosi che avevamo un tempo”.”
È così che JD si inoltra sempre più verso quel gossip tentacolare con cui arriva dentro la realtà in maniera tanto ipnotica. Anche il più crudo fatto di cronaca vive dentro le chiacchiere della gente.
“Laddove l’accusa vedeva una “calcolatrice” la difesa vedeva una “chiacchierona” e in effetti Lucille Miller si rivelò una conversatrice sconsiderata. Non solo, prima della morte del marito, aveva confidato alle amiche la sua storia d’amore, ma ne parlò anche dopo la sua morte, nientemeno che con il sergente che l’aveva arrestata. “Naturalmente Cork lo sospettava da anni, capisce” si sentì la sua voce dire al sergente Paterson, la mattina successiva al suo arresto. “La morte di Elaine fece scattare l’allarme, e lui me lo chiese senza mezzi termini e fu allora, credo, che… insomma fu la prima volta che guardò in faccia la realtà”.”
Ci raccontiamo storie per vivere, a volte dobbiamo ricorrere alla mitomania, come nelle righe che seguono.
“Quando il sergente le chiese perché avesse acconsentito a parlare con lui, nonostante il preciso divieto dei suoi legali, Lucille Miller disse con leggerezza: “Sa, fondamentalmente io sono sempre stata una persona onesta… Cioè, magari nel mettere un cappello nell’armadio posso dire che cosa dieci dollari meno di quel che l’ho pagato, ma in pratica ho sempre vissuto la mia vita come mi pareva, e se non ti sta bene, quella è la porta”.”
Da queste affermazioni quasi da reality tv, arriviamo in poche righe al padre di Lucille.
“Il padre di Lucille, che adesso insegnava in una junior high school nell’Oregon, citò Isaia per i giornalisti: “Soprattutto, questo servo sa che nessuno può fargli del male, perché Dio stesso condannerà ogni lingua che si leverà contro di lui”. “Lucille ha sbagliato”, disse giudiziosamente sua madre. “La sua relazione, per lei era amore. Ma per qualcun altro immagino fosse solo passione”. Debbie, la figlia quattordicenne dei Miller, testimoniò con voce ferma che lei e sua madre erano andate a un supermercato a comprare la tanica di benzina una settimana prima dell’incidente.”
“A Hollywood”, da White Album
Siamo in molti ad aver tentato di replicare le frasi lapidarie di JD, e non c’è niente di male. Prendiamo queste righe in cui guardiamo Hollywood dall’alto, diciamo dalla scritta sulla collina, ma con un cannocchiale potentissimo:
“Quella fu l’estate in cui i fantastici registi di ventidue anni tornarono a girare gli spot pubblicitari per la televisione e tutti i produttori creativi di ventiquattro anni esaurirono i loro contratti d’affitto per gli uffici alla Warner Bros, standosene seduti là fuori sotto il sole fiacco di Burbank a fumare erba prima di pranzo.”
Il cielo del realismo è raramente così terso. Bisogna conoscere benissimo ciò di cui si parla. Qui Didion ci dice che c’è stato un periodo negli anni Settanta in cui non c’era più troppo da girare. Poi i soldi sono tornati, ma anche qui JD non si lascia troppo prendere dalla realtà dura e pura e ci racconta, con realismo, le fantasie e i desideri che la compongono. Il realismo di JD è einsteiniano.
“Ma quel periodo è finito e il gioco è di nuovo in auge, il denaro per gli investimenti disponibile, e l’accordo dipende solo dalla storia veramente bellissima e dagli elementi giusti. Gli elementi sono importanti. “Ci piacciono gli elementi” dicono agli studios quando stanno forse per concludere un accordo…
Il posto trasforma tutti in giocatori. Il suo spirito è scattante, ossessivo, immateriale. L’azione stessa è la forma d’arte, ed è descritta in termini estetici: “Un accordo molto originale” dicono, oppure: “Quell’uomo scrive gli accordi più creativi del mestiere”.
Se hai nel taccuino un appunto così bello, stai cavalcando la realtà, puoi costringere la realtà a scrivere bene al posto tuo. JD sa che Hollywood esiste grazie alla voglia e al desiderio e alla fanfaronaggine di chi la fa. Il dettaglio dell’accordo molto originale è perfetto. E di seguito procediamo con la fantasia, fino a vedere assegni cospicui trasformati in soldi del monopoli. Spesso quando scriviamo vogliamo che la realtà ci regali significati indubitabili, indiscutibili da sbattere in faccia al lettore. JD ci insegna a scrivere del mercato di significati che ogni giorno allestiamo in società per definire insieme cosa vogliono dire le nostre azioni.
“C’è a Hollywood, come in tutte le culture in cui il gioco d’azzardo è l’attività centrale, un’energia sessuale smorzata, un’incapacità di dedicare qualcosa di più di un’attenzione simbolica alle preoccupazioni della società esterna. L’azione è tutto, più logorante del sesso, più immediata della politica; più importante, sempre, dell’acquisizione di denaro, che non è mai, per il giocatore, il vero scopo dell’esercizio.
Parlo al telefono con un agente, che mi dice di avere sulla scrivania un assegno intestato a un cliente per la bellezza di 1.275.000 dollari, la parte del cliente sui primi incassi del film attualmente nelle sale. La settimana scorsa, non so più in quale ufficio, mi hanno fatto vedere un altro assegno del genere, questo per 4.850.000 dollari. Ogni anno in città circolano alcuni di questi assegni. Un agente dirà di averne uno “sulla mia scrivania”. Oppure sulla “scrivania di Guy McElwaine”, come se l’esatta ubicazione fisica conferisse al pezzo di carta la sua credibilità. Un anno potrebbero essere gli assegni per Un uomo da marciapiede e Butch Cassidy, un altro anno quelli per Love Story e Il padrino.”
Stranamente questi assegni non sono “reali”, non nel senso in cui è denaro reale un assegno di 1.000 dollari; nessuno “ha bisogno” di 4.850.000 dollari, non è reddito personale disponibile. È invece il risultato inatteso di una vincita a una partita a dadi giocata un anno o due prima, e la sua realtà è alterata non solo dal lasso di tempo ma dal fatto che nessuno aveva mai contato su quella vincita. Un guadagno inaspettato di 4 milioni di dollari ha solo l’aspetto di soldi del Monopoli, ma i pezzi di carta reali che riportano simili cifre hanno, nella comunità, un significato totemico. Sono i totem dell’azione.
“Giorni sereni a Malibu”, da White Album
Come dicevo, JD sa quando deve lasciare che sia la realtà a scrivere qualcosa di grande al posto dell’autrice. Non c’è esempio migliore di quanto segue, la descrizione di un incendio a Malibu. Ci sembra di vedere il fuoco divampare oltre l’autostrada fra venti micidiali, e infine, come in una sacra scrittura, i cavalli che prendono fuoco.
“Un mattino durante la stagione degli incendi nel 1978, pochi mesi dopo che avevamo venduto la casa sulla Pacific Coast Highway, prese fuoco uno sterpaio ad Agoura, nella San Fernando Valley. Nel giro di due ore un vento di Santa Ana aveva sospinto il rogo per oltre diecimila ettari e venti chilometri verso la costa, dove saltò la Pacific Coast Highway sotto forma di tempesta infuocata da ottocento metri che generava venti sopra i centosessanta chilometri l’ora e temperature superiori ai 1300 gradi. I profughi si accalcavano sulla spiaggia di Zuma: i cavalli prendevano fuoco e venivano abbattuti sull’arenile, gli uccelli esplodevano in aria. Le case anziché esplodere implodevano, come sotto un attacco nucleare. Dopo il passaggio di quella tempesta di fuoco 197 abitazioni erano ridotte in cenere, e molte appartenevano o erano appartenute a gente che conoscevamo.”
I cavalli abbattuti sull’arenile e gli uccelli che esplodono in aria. Non c’è una sola riga in cui JD calca la mano per convincerci che quanto ha visto sia vero. Quanto è perfetta quindi una frase secondaria del paragrafo: i profughi si accalcavano sulla spiaggia. Qui avrebbe potuto scatenarsi in descrizioni della gente, ma a cosa sarebbe servito quando intorno a quella frase c’erano cavalli infuocati che piovono come rane bibliche sulla spiaggia?
Da Miami
Questo libro è una lettura fondamentale per chiunque sia in viaggio a Cuba. Racconta infatti la Cuba invisibile da Cuba, quella di chi è andato in America per non vivere nell’esperimento antimperialista della piccola isola caraibica. Una delle mie pagine preferite – forse semplicemente per come rifanno Balzac e Zola nel raccontare un ambiente sociale – è questo brano sulle feste degli esuli ricchi, una society parallela le cui dinamiche sfuggivano agli americani un po’ come oggi a noi abitanti di Milano e Roma sfuggono le dinamiche dell’alta società cinese, di cui vediamo solamente i suv tedeschi e le signore eleganti che li guidano. Basta questo paragrafo per insegnarci che esiste una quantità di dettagli annotati coi quali abbiamo cominciato a guidare il lettore lungo il sentiero pur intricato della conoscenza.
“Le pagine «Società» del Diario Las Americas e di El Herald (la versione in spagnolo dell’Herald, edita appositamente per la comunità degli esuli) davano l’immagine di una cultura dominante, con del denaro da spendere e una spiccata propensione a spenderlo in maniera vistosa. Come per gli eventi di beneficenza: la Liga Contra el Cancer da sola in un anno organizzava due galà, un ballo, una sfilata di moda per bambini, un telethon, una mostra di gioielli, una serata con le partecipanti al concorso di Miss Universo e una presentazione della collezione autunnale di Adolfo, uno stilista per l’appunto cubano, con tanto di sponsorizzazione di Saks Fifth Avenue e di vol-au-vent al pollo.”
Che in questa rassegna così aliena compaia Saks in veste di sponsor è un piacere, una scossa al cervello per il lettore.
“Un giorno l’Herald parlava del galà tenutosi al Padiglione degli amici latinoamericani del Museo della scienza, mentre l’indomani l’attenzione di tutti era già rivolta al prossimo importante evento che si sarebbe svolto al Big Five, un club di Miami fondato dagli ex soci di un locale molto di moda a Cuba prima della rivoluzione. Era un cocktail durante il quale sarebbero stati assegnati i tavoli per ancora un’altra serata di gala, il Ballo imperiale delle rose della American Cancer Society, sezione donne ispaniche. Alcuni membri della comunità avrebbero festeggiato Miss America Latina con una serata danzante al Doral. Altri sarebbero stati insigniti del premio Spirit of Excellence all’Hotel Omni. Pare che alcuni di loro fossero a sciare a Vail, e che altri avessero preferito Bariloche, in Argentina. Di altri ancora si diceva che non avevano potuto partecipare al galà di beneficenza al Padiglione degli amici latinoamericani del Museo della scienza (anche se avevano fatto pervenire regolare assegno) a causa di una sovrapposizione con el coctel di Paula Hawkins. Insomma, c’era una festa dopo l’altra, tutte sfarzosissime.”
E dopo quest’elenco misterioso, JD fa una specie di movimento di macchina. Ci mostra uno scorcio della realtà americana da cui poter intravedere, come Alice all’inizio della sua avventura, qualcosa di questa dimensione parallela:
“Quasi ogni giorno, nei pressi dell’arco di pietra e delle fontane che segnano l’entrata di Coral Gables era possibile vedere ragazzine che venivano fotografate con il diadema, la gonna increspata con il cerchio e il mantello ornato da piume di struzzo che avrebbero indossato in occasione del loro quince, l’elaborata celebrazione del quindicesimo compleanno che segna l’entrata in società delle ragazze appartenenti alla comunità cubana. La tipica espressione per la fotografia di un quince era il classico sorrisetto, mentre lo scenario doveva preferibilmente richiamare una grandiosità di stampo spagnolo, ragion per cui gli archi di Coral Gables venivano spesso inclusi nelle foto. Dal momento che l’idealizzazione della vergine implicita nella cerimonia del quince può esistere solo in presenza del suo opposto naturale, il machismo, nei pressi del «set» spesso si vedeva in giro anche un fratello, o un fidanzato. C’era sempre anche una madre, con gli occhiali scuri, non solo per proteggere la simbolica vergine, ma soprattutto per indicare l’inquadratura migliore e l’ambientazione più aristocratica. La quinceañera tirava su la sua gonna con il cerchio – spesso mostrando le sciatte ciabattine di plastica con le quali era andata a scuola – e si muoveva come indicatole dalla mamma.”
Sotto l’intera messinscena, ma senza smentirla, umiliarla, giudicarla, solo per renderla emotivamente vera, le irresistibili ciabattine di plastica della quinceañera.
“Qualche settimana dopo, sarebbe stata lì, trasfigurata, sulle pagine del Diario Las Americas, tra centinaia di altre quindicenni col medesimo sorrisetto, ciascuna con il suo arco, la sua fontana, lo sfondo preso a prestito, regalo non esattamente intenzionale del defunto George Merrick, che aveva fatto costruire gli archi quando dette il via all’urbanizzazione di Coral Gables. Le foto delle quinceañeras e le pagine «Società» sulla festa al Big Five non era roba adatta ad apparire sui giornali letti dalla popolazione «anglo» di Miami, e comunque in generale non è che circolassero molte notizie riguardanti la vita quotidiana della comunità cubana. Quando, nell’autunno del 1986 l’Università internazionale della Florida organizzò un corso serale chiamato La Miami Cubana: una guida per i non-cubani, l’Herald inviò un reporter che coprì la notizia con un certo distacco. «Ho già cominciato a capire qualcosa di una cultura che – anche se è ovunque intorno a noi – mi è del tutto estranea» diceva il giornalista alla fine della prima lezione. Dopo il quarto incontro affermò: «Quello che vedo oggi a Miami, muovendomi per lo più nei corridoi “anglo” della città, sono solo piccoli pezzi di un altro mondo, la punta di un iceberg molto più grande di quanto avessi mai immaginato… Alcuni di noi frequentano i ristoranti cubani, e di quando in quando vanno ai festival. Ma nella maggioranza dei casi cerchiamo di ignorare la Miami cubana, anche nel momento in cui siamo in diretto contatto con questa strabordante, incomprensibile presenza».”
Solo tredici persone, tra cui il reporter dell’Herald, si erano presentate.
Da “Times Mirror Square”, su Nel paese del re pescatore
Questo incredibile saggio racconta come Los Angeles si sia sviluppata su impulso della famiglia che fondò il Los Angeles Times. Si comincia da qui:
“Nel 1882, quarantacinquenne con un passato accidentato alle spalle e prospettive non particolarmente allettanti per il futuro, Harrison Gray Otis prese finalmente in mano la propria vita: abbandonò l’impiego statale, tornò in California meridionale e investì 6000 dollari, di cui 5000 presi a prestito, per acquistare il 25 per cento delle quote del Los Angeles Daily Times, un giornale prossimo al fallimento fondato pochi mesi prima da un redattore del Sacramento Union (lo Union, del quale Mark Twain era corrispondente, è il più antico quotidiano californiano ancora in attività) e abbandonato quasi subito ai creditori. «L’inizio fu difficile, ma poi…» scrisse in seguito Harrison Gray Otis a proposito del proprio acquisto. Sembrò capire fin da subito che tipo di Los Angeles volesse, e in che modo un quotidiano potesse servirgli per conquistarla: «Los Angeles non ha bisogno di turisti, di perdigiorno e poveracci; di gente senza soldi che spera in un colpo di fortuna» annunciava il nuovo cittadino in uno dei suoi primi editoriali, disfacendosi così della sua prima pelle, la pelle di un uomo di mezza età, di un uomo che fino a poco tempo prima non aveva soldi e aveva sperato in un colpo di fortuna. Per come la vedeva lui, a Los Angeles si veniva per fare soldi, non per godere di qualche servizio. La città non aveva bisogno, diceva, «di politici scarsi, falliti, poveri diavoli, riserve, impiegati indigenti, contabili, avvocati, dottori. Il mercato è già saturo. Vogliamo gente che lavora, pronta a sgomitare! Uomini che abbiano testa, forza e coraggio! Uomini con un piccolo capitale e una grande energia: uomini di prima classe!». Chi vive in parti meno nuove del paese fatica a capire fino a che punto Los Angeles sia stata letteralmente inventata dal Los Angeles Times e dai suoi proprietari, Harrison Gray Otis e i suoi discendenti, i Chandler.”
Dopo questo attacco potente, tutto americano, in cui come sempre il virgolettato ci aiuta a capire le fantasie alla base delle azioni, Didion racconta nel dettaglio quali interessi del Times abbiano creato quali opportunità per la città. La lezione da imparare qui è che intanto che facciamo incetta di dati, per dipingere un arazzo convincente bisogna rinviare il più possibile la predica.
“Quando Harrison Gray Otis comperò il Times, a Los Angeles vivevano solo cinquemila persone. Il fiume non era navigabile. Il Los Angeles river poteva assicurare l’approvvigionamento idrico per due-tremila persone, ma era l’unica fonte disponibile. Se oggi Los Angeles ha l’acqua, è perché così vollero Harrison Gray Otis e suo genero, Harry Chandler, i quali condussero vere e proprie battaglie per ottenerla. «Una volta risolto il problema dell’acqua, Los Angeles potrà crescere come mai prima» si leggeva sul Times nel 1905, a poche settimane dal primo voto per il finanziamento dell’acquedotto che avrebbe portato in città l’acqua del fiume Owens, a trecentosettantaquattro chilometri a nord di Los Angeles. «Le città vicine verranno presto a bussare alla nostra porta per godere dei benefici derivati dalla nostra fonte inesauribile di acqua, portatrice di vita, e la Grande Los Angeles diventerà una realtà meravigliosa». Chi votava contro i bond per l’acquedotto, metteva in guardia il Times il giorno prima della consultazione, era un «nemico della città».”
In altre parole, opporsi ai Chandler significava opporsi al miglioramento di Los Angeles, alla sua espansione, al suo destino di città imperiale. E qui, senza appunto fare la morale, Didion integra con “false siccità” e “abili compravendite di terreni”:
“Le false siccità e le abili compravendite di terreni che portarono a sud l’acqua dalla California settentrionale hanno fatto la storia di Los Angeles, conosciuta nel resto del paese grazie al film Chinatown. Senza l’acqua del fiume Owens non si sarebbe potuto costruire nella San Fernando Valley. La stessa San Fernando Valley dove Harrison Gray Otis e Harry Chandler, servendosi di due finanziarie collegate, la San Fernando Mission Land Company e la Los Angeles Suburban Homes Company, avevano – guarda caso – comperato o opzionato almeno ventisei mila ettari prima della consegna dell’acquedotto, e in alcuni casi ancora prima del voto.”
Con quale linearità JD inserisce le colpe nel discorso senza calcare la mano e senza togliere al racconto la maestosità dovuta alla storia dello sviluppo della conurbazione losangelena.
“Praticamente avevano comperato l’intera valle, che si estende dall’odierna Burbank a Tarzana, al prezzo di terreni privi d’acqua, cioè fra i 31 e i 53 dollari l’acro. «Assicuratevi un appezzamento di terra prima del voto sui big bond» consigliavano le pubblicità del Times nei giorni precedenti la consultazione. «Pacoima sarà la prima a beneficiare dell’acqua del fiume Owens, e chi investe oggi raccoglierà ben presto i frutti della propria saggezza, sarà gratificato dai profitti.»
Gran parte di Los Angeles, per come ci appare oggi, nasce da quella spinta a migliorare la proprietà dei Chandler. Il Los Angeles Civic Center, la Union Station e l’attrazione locale conosciuta con il nome di Olvera Street (Olvera Street fa parte del El Pueblo de Los Angeles State Historic Park, ma fu originariamente concepita come la prima isola pedonale a tema, dove il tema era «il mercato messicano») esistono perché Harry Chandler decise di investire nella parte nord di Downtown, dove si trovavano le sedi del Times e di molte altre imprese. Se oggi la California ha un’industria aerospaziale, è perché Harry Chandler era convinto che lo sviluppo di Los Angeles dovesse andare di pari passo con quello di nuovi settori industriali, per cui nel 1920 convinse i suoi amici a prestare 15 000 dollari a Donald Douglas per la costruzione di un prototipo di aerosilurante.
Quello stesso anno, Harry Chandler convinse gli stessi amici a costruire il Caltech, e l’anno dopo una struttura (il Coliseum, vicino alla University of Southern California) grande abbastanza da attrarre gli organizzatori delle Olimpiadi del 1932. Se esiste l’Hollywood Bowl, è perché lo volle Harry Chandler. La rete autostradale di Los Angeles esiste perché Harry Chandler sapeva che nessuno avrebbe comperato un terreno nelle sue proprietà più periferiche se non fosse stato possibile raggiungerlo in macchina, e anche perché Harry Chandler sedeva nel consiglio di amministrazione della Goodyear Tire & Rubber, i cui impianti, allora, erano già stati trasferiti a Los Angeles. La Goodyear Tire & Rubber aveva quegli impianti perché Harry Chandler e i suoi amici avevano investito 7,5 milioni di dollari per costruirli.
Era quella totale identificazione del destino di Los Angeles con il destino della famiglia Chandler a fare del Times un’istituzione tanto speciale, e tanto ricca.”
Non so se è nello spirito degli italiani la possibilità di ripetere questo stile spassionato ed epico. Le beghe e le divisioni e la retorica che troviamo raccontate in lingua volgare nella commedia di Dante ci raccontano da secoli un certo spirito italiano dove il giudizio e lo scontro arrivano prima dei fatti. È la nostra storia e ha prodotto una letteratura più potente di quella di JD. Al tempo stesso però questi sono tempi in cui capita di pensare che l’invettiva non sia lo strumento migliore per raccontare e definire i tempi. Qualcosa si perderà in traduzione quando cercheremo di imitare quella sicura, autorevole distanza tra fatti ed emozioni in cui sa muoversi Joan Didion, e magari quel che troveremo non sarà una copia del suo realismo americano ma qualcosa di diverso. Dopotutto le visioni degli italiani sono diversissime da quelle degli americani, e desideriamo in altri modi. Ma qualcosa di buono verrà fuori di sicuro, magari proprio a te che hai saltato le vacanze per cominciare a scrivere il tuo primo libro.
Sopravvivenza
di Nicolò Porcelluzzi
Domanda: riusciremo a sopravvivere? Già studiandone l’etimo (“vivere sópra gli altri, ossia Viver di più”) dovremmo capire che si tratta di una questione, l’ennesima, mal posta: sopravvivere significa continuare a vivere rispetto ai nostri simili, non necessariamente grazie a o insieme. Che la nostra specie debba sopravvivere al pianeta non è scritto – letteralmente – da nessuna parte. Per caso di recente, per caso come un sonnambulo, mi è capitato di leggere storie di sopravvivenza.
In Diario di Hiroshima, il dottor Michihiko Hachiya racconta l’esplosione della bomba su Hiroshima, dal giorno zero a ottobre 1945. “L’educazione è solo una crosta, una doratura. Qualunque sia l’educazione che ha ricevuto, il suo carattere vero l’uomo lo rivela nei momenti difficili, e la vittoria spetta al più forte”. Difficile tracciare una linea tra chi si salva e chi no; nemmeno il direttore dell’ospedale può capire cos’è successo a Hiroshima, proteggere i suoi pazienti – proteggere il Giappone. Sopravvive, forse, chi ormai accecato e spogliato dalla bomba cammina evitando di appoggiare il plasma delle braccia ustionate agli indumenti: brancolando, le braccia tese perpendicolari, come zombi. Sopravvive chi indossa ustioni mostruose e chi non ha un graffio muore di diarrea. A volte sopravvive chi è coperto di petecchie (macule che rivelano emorragie interne), a volte no. Chi era a meno di due chilometri dall’ipocentro si salva – nascosto magari dagli alberi, chi arriva in città qualche ora dopo, invece, si consuma nel vomito, tra emottisi e ematemesi. In un mondo in cui le batterie scariche vengono svuotate dagli elettrodi, lavate dall’acido solforico e riciclate come recipiente per i “reperti anatomici”, le discriminazioni cambiano forma ma non intensità, i libri vengono usati come carta igienica, i bambini sparano con le pistole di legno e deridono l’imperatore, valore d’uso e valore di scambio rotolano nel fango, cos’è rimasto della sopravvivenza?
Forse il terzo piano dell’ospedale, dove si sistemano Hachiya e i suoi colleghi, una camera sterilizzata dal fuoco e illuminata dai telai di quattro finestre gettanti sulle rovine, e il vento dei falò cinerari: una cornice entrata nel museo dei luoghi letterari del Novecento dalla porta sul retro, quella della realtà. “Il paese era caduto fra le grinfie della stupida plebaglia. In cuor mio provavo per loro odio, e il pensiero che avessero conquistato il potere mi riempiva di furore” scrive Hachiya, rubando le parole dalla bocca di un personaggio nato trent’anni dopo, che la bocca non la apre mai.
In fuga dalla realtà, e dalla sopravvivenza, il protagonista di Dissipatio H. G. si rifugia in montagna per dissolversi nella terra. Aggrappato al precipizio, l’uomo non trova l’ultimo passo, e torna al paese dove scopre che l’umanità è scomparsa dissolvendosi nell’aria. O forse no. Inizia la ricerca di anime vive da parte dell’unica anima sopravvissuta, già morta in vita, e costretta a vivere (“La società era, dopotutto, una cattiva abitudine”). Una ricerca minacciata da “rettili fonico-visivi” di stampo moreliano, graduale panico, incredulità, paura, adattamento, e rassegnazione punteggiata da intervalli di “proterva ilarità e feroce sollievo”. Si cita più volte Hiroshima, paragonata – come scrive anche lo stesso Hachiya – a Pompei. Il sopravvissuto fatica a riconoscere la sua condizione: la soffre, gli succede. Nonostante la situazione sia “nata allo scopo di non avere alcun significato, nemmeno formale”, persiste il riflesso del riepilogo intellettuale, riflesso e riflusso, l’ascensione del bolo che altro non è che “un sintomo di adattamento”.
Mi chiedo se Morton abbia letto Dissipatio, questo racconto dell’evaporazione di un iperoggetto (l’Umano), dove “ogni cosa è misteriosa, fatale e accettabile perché assurda” – allineata alla visione ontologica del filosofo. Il libro infatti si conclude in un ritorno della Natura (come nel libro che segue, quale natura? La natura pre-agricola, ovviamente, quando ancora non ci chiamavamo mesopotamici). “Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi”.
Solo a guardare l’eternità. A dire il vero, all’inizio del Novecento, era già stata scritta la storia di un uomo arrivato allo zenith e tornato in un mondo che non poteva più accoglierlo. Si chiama La nube purpurea e l’ha scritta M. P. Shiel – scoperto grazie a Mari. Nella Londra del libro, e nei giornali di poco più di un secolo fa, non si fa che parlare di Polo Nord, l’Altrove, così come si parlava della Luna mezzo secolo fa, o di Marte tra un paio d’anni. Insomma, Adam, contro un destino che sembra già scritto, finisce nella spedizione per il Polo, dove gli succederà di tutto. Sul ghiaccio artico, per dire, iniziano ad affiorare lastre di diamanti, resti di meteoriti dal valore esorbitante, ricchezze che i sopravvissuti scambierebbero per una lisca di pesce. “Rapida e deplorevole fu la degenerazione delle nostre anime”: se la prima parte del libro è dedicata all’Avventura, la seconda è dedicata alla Decadenza.
Tornando a latitudini più tiepide infatti, il protagonista incontra solo cadaveri: il settimo giorno si intravede nel cielo a sud-est una fascia, una nube purpurea. È una nube che dà di pesca, e lo fa vomitare, perso in un oceano morto immobile livido, alla guida solitaria di una nave, circondato da tombe sul filo dell’acqua.
Citando Dissipatio: “Anarchia e Monarchia coincidono, ora in me.” Le consonanze con il libro di Morselli sono innumerevoli, davvero, al lettore la caccia al tesoro: quello che manca alla Nube Purpurea, scientemente, è una dimensione di critica sociopolitica. Shiel non vuole aggiungere al libro quella roba, vuole descrivere tramonti imparagonabili, “nulla di così sgargiante, esorbitante e demente”. Gli stessi che siamo destinati a vedere, mano nella mano, lottando per sopravvivere, in questo pianeta sempre più caldo.
Buona estate.