Abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori de Il Tascabile di curare dei percorsi di lettura: romanzi, saggi, memoir, film, documentari che esplorano e approfondiscono un tema a loro scelta. Dato il numero di adesioni, lo abbiamo diviso in quattro “episodi” al cui interno troverete libri che spaziano dall’evoluzione al concetto di tempo, dalle camere di hotel all’autofiction, dalle distopie ai problemi del presente. Questa è la terza. Buone vacanze e buona lettura!
Presente
di Cesare Alemanni
Il presente dell’Occidente è un tempo incerto, nervoso e, secondo alcuni, addirittura potenzialmente “ultimo”. Sfibrati da un senso d’insicurezza e accerchiamento, gli elettorati sono sempre più inclini a scegliere personalità tra il grottesco e il dispotico. La crisi economica cominciata dieci anni fa ha confermato di essere venuta per restare e trasformare profondamente lavoro e distribuzione dei redditi, anche con la complicità della disruption tecnologica. Relazioni geopolitiche chiave raggiungono apici di tensione che credevamo relegati a un passato in bianco e nero, insieme a quelle stesse dittature che ormai ritroviamo alle porte d’Europa. Le prime ondate di un fenomeno migratorio destinato a intensificarsi con gli anni sono già bastate a sdoganare forze politiche apertamente razziste e illiberali. Il tutto mentre diverse stime, forse addirittura prudenti, misurano in pochi decenni il tempo che ci resta prima che il riscaldamento globale renda inabitabili vaste aree del Pianeta.
È uno dei suoi limiti e in un certo senso una delle sue fortune, la capacità dell’Uomo di occuparsi di piccole faccende quotidiane anche in prossimità di grandi pericoli, di sonnambulare sul ciglio del precipizio. I Sonnambuli è il titolo di un saggio di Cristopher Clark letto un paio di anni fa. Parla dell’Europa del 1913/14, di come sprofondò nella Prima Guerra Mondiale animata dalla stessa festante inconsapevolezza con cui due anni prima il Titanic era finito contro un iceberg nel nord Atlantico. Ci ricorda che talvolta la differenza tra salvezza e catastrofe è appesa a un deficit di attenzione collettiva ai dettagli storici. Forme di deficit, questa volta d’immaginazione, sono centrali anche in due brevi saggi letti più di recente: La grande cecità di Amitav Ghosh e Capitalist Realism del compianto Mark Fisher, a breve in uscita anche in Italia. Nel primo, Ghosh indaga le ragioni, materiali e spirituali, per cui un fenomeno dalle conseguenze potenzialmente definitive come il riscaldamento globale occupa una porzione così minuscola del nostro immaginario, soprattutto letterario. L’oggetto dell’analisi di Fisher è invece il precetto, che nemmeno viene più discusso, secondo cui non esistono alternative possibili né soluzioni parziali ai problemi strutturali del capitalismo contemporaneo: da cui il realismo (paralizzante) del titolo e il tramonto di quell’ottimismo, a volte anche eccessivo e fuori luogo, che aveva caratterizzato il progetto del Moderno.
Del resto, come diceva Frederick Jameson, “è ormai più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. O forse è possibile soltanto immaginarle insieme, in virtù di future e radicali disruption informatiche come quelle da cui mette in guardia Nick Bostrom in Superintelligence. Qualunque esse saranno, saranno comunque state rese possibili dai contributi seminali di uomini e donne come Charles Babbage, Ada Lovelace, Alan Turing, John Von Neumann e Claude Shannon: i padri della teoria dell’informazione. Un’epopea teorico-scientifica ricostruita con grande maestria ne L’Informazione di James Gleick, senza dubbio la singola lettura che più ha cambiato il mio modo di guardare le cose negli ultimi anni.
Inevitabilmente il 2017 sarà ricordato soprattutto come l’Anno Uno (e forse anche l’anno unico) della Presidenza Trump. Ne I frantumi dell’America, George Packer analizzava, già nel 2013, la mutazione del Geist statunitense che ci ha condotti fino a qui attraverso momenti, svolte e personaggi chiave, non solo politici, degli ultimi decenni. In Hillbilly Elegy, invece, J.D. Vance racconta da dentro i riflessi di alcune di quelle svolte sulle comunità rurali degli Appalachi, le aree tra Kentucky e Ohio da cui proviene. È la cosiddetta Rust Belt, dalla ruggine che ricopre le vestigia di un florido passato industriale, dove l’incontro tra valori autoctoni di vecchia data e decenni di regresso economico ha prodotto una società di bianchi poverissimi, bigotti, violenti e arrabbiati con un sistema da cui si sentono truffati. Scenari da “medioevo prossimo venturo” da cui nessuna società occidentale può dirsi al riparo e che, in una distopia che si legge d’un fiato, Omar El Akkad proietta nel futuro non troppo remoto di American War: ideale anello mancante tra il godibilissimo Stazione Undici di Emily St. John Mandel e Fiskadoro, novella con ben altri meriti letterari di Denis Johnson, il più grande scrittore americano di cui forse non avete mai sentito parlare, scomparso il 24 maggio di quest’anno.
Le sette
di Violetta Bellocchio
Per un incrocio tra certe vecchie dinamiche familiari, alcuni episodi personali e una fascinazione di lunga data verso tutto quanto sia deprimente, morboso e profondamente reale allo stesso tempo, tendo spesso a gravitare verso il materiale – scritto e filmato, fiction e nonfiction – che si pone come obiettivo il raccontare la vita delle persone che fanno parte di una setta. Mi interessa capire come funzionano, le sette, e perché tanti individui in apparenza sani, spesso dotati di grande forza di volontà, scelgano di consegnare la propria esistenza a qualcun altro, rimettendosi alle decisioni di un leader, accettando di vivere in funzione di regole che oscillano tra il religioso e l’inumano. Questi sono i miei consigli sull’argomento. Buone vacanze a tutti.
Cominciamo con l’ovvio (avercene): Lawrence Wright, La prigione della fede (Adelphi). Il titolo italiano ha provato ad alzare il tiro, col risultato che il libro si può scambiare per un gioviale pamphlet a favore dell’ateismo militante, e non per un lungo reportage narrativo su Scientology, dalle sue origini al tempo presente. Oltre a rispondere in chiave letteraria alle domande elementari che ci si può porre riguardo alla chiesa in questione (“Come la mettiamo con la storia di Xenu?”), e a quelle rimbalzate sulle pagine della cronaca nera (“Davvero nessuno da anni vede più alcuni dei credenti più devoti alla causa?”), il saggio è una masterclass impietosa sui rapporti di potere all’interno di una comunità chiusa, e su come, col passare del tempo, una lotta per la supremazia tra fedelissimi possa aver portato a un’interpretazione anche più violenta e antisociale di un dogma concepito a tavolino da uno scrittore di fantascienza.
Proseguiamo con un romanzo, La colpa di Brian Evenson (l’aveva pubblicato ISBN, per fortuna in circolazione si trova ancora), che parte come una storia di formazione, sobria ma efficace, su cosa significhi essere una brava persona all’interno di una “normale” comunità mormone, e presto comincia a tracciare un legame di causa/effetto tra i rituali praticati dagli adepti e il disagio di un adolescente schizofrenico, che forse è un assassino, o sta per diventarlo. A parte l’estrema vicinanza emotiva tra il mondo in questione e l’autore (che si scomunicò da solo, poco dopo la pubblicazione, per evitare rogne ulteriori ai suoi figli), a restare impressa è la lucidità con cui si raccontano da un lato gli eccessi e la rigidità di una vita vissuta quasi sotto costrizione, dall’altro la relativa tranquillità garantita a chi sceglie di uniformarsi alla propria cultura dominante, seguendo una dottrina che non viene mai messa in discussione.
La versione ancora più dura di tutto questo è il documentario Vita e morte del Tempio del Popolo, dove il compito di chi ricostruisce la storia sta, essenzialmente, nel raccogliere i cocci, lasciando parlare quelli che avevano conosciuto Jim Jones prima della sua trasformazione in predicatore radicale salva-popoli, e quelli, pochi, che a Jones credevano pure, ma non hanno fatto la fine del grosso dei suoi seguaci. Gli ultimi 20′ sono considerati inguardabili, per quello che si ascolta più che per la brutalità delle immagini. Vale ampiamente la pena di passarci attraverso.
Chiuderei con quella che dato il contesto sembra una nota di alleggerimento comico: una visione di Sound of My Voice (Zal Batmanglij, 2011). La giovane donna che sostiene di aver viaggiato all’indietro nel tempo dal lontano 2054, e che vuole preparare i suoi seguaci perché siano in grado di sopravvivere a un futuro disastroso, è un’abile truffatrice guidata da un disegno criminale ancora da chiarire? Oppure questa pseudo-Messia chiusa in un appartamento della San Fernando Valley sta dicendo la verità, e le sue azioni si legano al desiderio genuino di aiutare il prossimo, anche se le modalità scelte per realizzare la sua missione prevedono di fiaccare per gradi la volontà altrui fino al limite del plagio?
Minorità
di Vanni Santoni
Se è vero che il pallino del romanzo, nell’ultimo decennio, è davvero tornato in Europa, con le metafisiche e i grandiosi apparati intertestuali dei vari Cărtărescu, Gospodinov, Krasznahorkai, Tom McCarthy e Volodine, che succede negli USA? Succede che i migliori del momento (storico) abbracciano, o adottano loro malgrado, una vocazione minoritaria. Non troveremo più da quelle parti opere-mondo e impianti narrativi magniloquenti – e quando qualcuno ci prova il risultato sarà comunque debole, vedi Città in fiamme di… Come si chiamava? – né grande volontà di potenza, ma nicchie, nicchiette, il ritorno dell’ombelico sotto il vello dell’autofiction e tanta, tanta metanarrazione. Male? Per niente. Una gita ragionata nella letteratura nordamericana che si ripiega in se stessa, ma lo fa con classe e cognizione di causa, potrebbe allora cominciare con La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Díaz (Mondadori 2009), continuare col Progetto Lazarus di Aleksandar Hemon (Einaudi 2011) e Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan (minimum fax 2011), e culminare con Nel mondo a venire di Ben Lerner (Sellerio 2015). Per chi invece non lo vuole accettare, a fine mese e in tempo per gli ultimi giorni d’ombrellone arriverà come una carica di cavalleria George Saunders, col suo ultimo libro e primo romanzo Lincoln nel Bardo (Feltrinelli), perfetto per restare aggrappati ancora un po’ alle gonne dell’impero.
Corpi al sole
di Gaja Cenciarelli
In Corpi al sole, romanzo di Agatha Christie del 1941, Hercule Poirot sostiene che “sotto il sole tutti i corpi sono uguali”. Una donna è sdraiata sulla sabbia, immobile. In lontananza sembra morta. I corpi di cui si parla in questi quattro libri, e anche i corpi di questi libri, al contrario, sono tutti nettamente diversi.
Alessandra Sarchi ha scritto uno dei romanzi più importanti degli ultimi tempi: La notte ha la mia voce (Einaudi) è la storia di un incidente che priva l’io narrante dell’uso delle gambe, ma che racconta in modo luminoso la sua vita attraverso una serie di specchi e di doppi, come Giovanna, donna disabile che per arrotondare la pensione di invalidità e di accompagnamento lavora in una chat erotica. Le parole e il corpo, o il corpo delle parole, in questo romanzo arrivano al traguardo che ogni scrittore dovrebbe perseguire: rendersi conto che gli strumenti a disposizione per esprimersi, se presi singolarmente, sono limitati, ma che la somma di essi tende sempre all’infinito. Un romanzo paradigmatico, di un nitore abbagliante, che parla a tutti perché il suo è il linguaggio della letteratura.
Nel caso di Barbara Garlaschelli, il suo Non volevo morire vergine è il racconto del percorso che qualsiasi adolescente ha affrontato per vivere le prime esperienze sessuali. Il fatto che la protagonista sia costretta su una sedia a rotelle è certamente il motore del libro, ma chi di noi, durante l’adolescenza, non si è sentito bloccato, inibito, fermo, diverso da chiunque ogni volta che desiderava, amava, voleva? Ci sono corpi che reagiscono, e corpi che affondano. La protagonista, soprattutto, non voleva morire, perché ci sono verginità che sono simili a un’apocalisse, e da cui lei si è salvata ridendo, piangendo, sperimentando, soffrendo, andando avanti, scrivendo. L’ironia e la pietas contenute in questo romanzo mettono le ali a chi ha la fortuna – e l’intelligenza – di leggerlo.
Nel romanzo di Antonella Lattanzi, Una storia nera (Mondadori), scompare un uomo, che è padre ma anche marito geloso e violento. Scompare dopo la festa per il terzo compleanno della figlia minore, Mara. La sua ex moglie Carla e gli altri due figli lo cercano, ma Vito aveva anche una famiglia clandestina che si metterà sulle sue tracce. E quando le forze dell’ordine scopriranno la verità, sarà quello il momento in cui la storia diventerà meno chiara, e la verità sarà meno scontata e più torbida. Antonella Lattanzi costruisce un romanzo avvincente, preciso, che definire noir sarebbe limitante, come accade spesso ai bei libri che sfuggono alle etichette di genere. Una scrittura inconfondibile, risultato di una cifra stilistica ben definita che caratterizza i grandi scrittori.
Il romanzo di Gaia Manzini, Ultima la luce (Mondadori), è una storia, per usare un’espressione di cui mi servo spesso per parlare di libri che sono più nelle mie corde, “a strati”. È la storia di una famiglia, di una morte e di una rinascita, di un uomo che è immerso nel fluire della vita, è la storia di Ivano, il protagonista, che “ricama l’acqua” nuotando, è l’acqua dei cambiamenti in cui Ivano vive senza esserne consapevole. È la storia di un viaggio di crescita e di presa di coscienza. È la storia della figlia Anna, diversa e incomprensibile al padre, uscita dall’acqua stagnante di una vita che non aveva scelto. In ogni senso, questo romanzo è il presente del verbo essere, sospeso tra passato e futuro, un’infinita piscina al termine della quale si vede la luce.
Estremismi
di Costanzo Colombo Reiser
“Il radicalismo prospera perlopiù nel divario tra aspettative crescenti e opportunità in declino. Questo vale soprattutto nei paesi in cui la popolazione è perlopiù giovane, inattiva e annoiata; dove le forme d’intrattenimento – cinema, teatro, musica – sono sottoposte alla censura o assenti tout court; e, infine, dove i giovani uomini sono separati dalla presenza consolatoria e socializzante delle donne”.
La citazione, tratta dal premio Pulitzer 2007 The looming tower di Lawrence Wright (edito in Italia da Adelphi con il titolo Le altissime torri), riassume alla perfezione il maggior pregio del libro: offrire un’efficace contestualizzazione storica e psicologica dell’ideologia jihadista senza tralasciare le caratteristiche dei singoli individui che se ne sono ammantati. Così facendo, Wright consegna ai lettori una chiave d’interpretazione che ci costringe a inquadrare il fenomeno come qualcosa di assai meno esotico e incomprensibile di quanto ci piacerebbe credere.
Leggendo dello spaesamento personale del professore egiziano Sayyid Qutb nell’America del secondo dopoguerra, così come della frustrazione collettiva di quei giovani cresciuti in medioriente negli anni ’60 e ’70, spesso in nazioni rimaste vittime di complessi d’inferiorità più o meno marcati (ed esacerbati dalle sconfitte militari subite per mano d’Israele), è impossibile non ritrovare la stessa spasmodica ricerca di un’identità – o quantomeno di uno scopo che trascenda il materialismo più gretto – che caratterizza da diverso tempo l’Occidente.
Ma laddove nei paesi europei tale ricerca di una metafisica prêt-a-porter è stata canalizzata in movimenti che si rifanno grossomodo ai rispettivi nazionalismi tradizionali, più interessante è il caso della alt-right americana. Un tema, questo, che viene preso in esame dalla studiosa britannica Angela Nagle nel suo Kill All Normies. Benché sulla carta il tema possa risultare nauseante – negli ultimi mesi non si è parlato d’altro, soprattutto sulla stampa liberalprogressista – anche qui, come nel libro di Wright, chi scrive compie uno sforzo di comprensione utile per decrittare i meccanismi di un movimento tutt’altro che organizzato e dai contorni netti. L’aspetto forse più interessante è la critica mossa dall’autrice ai cosidetti “Tumblr-libs”, ossia sedicenti progressisti che, parallelamente allo sviluppo dell’alt-right, si sono a loro volta costruiti un’identità collettiva che di progressista ha, nei fatti, molto poco. In effetti, se molto si è scritto sulla rinascita delle politiche identitarie nella società americana (ma non solo) contemporanea, che spesso nascono da associazioni formalmente apolitiche e indipendenti tra loro per poi espandersi e sovrapporsi (è il caso dei movimenti per i diritti dei padri, che, come spiega Michael Kimmel nell’ottimo Angry White Men, oggigiorno attira maschilisti, suprematisti bianchi e, più in generale, nostalgici della belle époque statunitense), molto meno è stato detto su quello che succede sull’altro fronte della barricata. Spoiler: non è un bello spettacolo. La sinistra statunitense che non si rispecchia più nei democratici è sempre più arroccata e divisa su posizioni esclusiviste fondate sull’adozione di una specifica idea oppure sull’appartenenza a una determinata minoranza; il risultato è che, agli occhi di un europeo, molti dei tafferugli verbali in cui queste persone prendono parte sono caratterizzate da una intolleranza di fondo che può solamente generare ulteriori divisioni proprio mentre il “nemico” ha serrato i ranghi. In tal senso, ciò che scrisse Kareem Abdul-Jabbar all’indomani dei fatti di Ferguson, inquadrandoli in un’ottica di lotta di classe e non semplice razzismo, è rimasto tragicamente inascoltato, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Torniamo allora all’esempio del fondamentalismo religioso, ma lasciamo stare l’Islam e concentriamoci sui cristiani: American Fascists, di Chris Hedges, rappresenta un magnifico safari nel fanatismo di matrice protestante. L’umanità esposta nel libro è quanto di più raccapricciante si possa immaginare, e lo stesso autore, pur essendo di formazione religiosa, non risparmia le stilettate alle subculture che hanno consentito di dirottare il cristianesimo verso forme di intolleranza che non gli dovrebbero appartenere. Pur essendo ateo agnostico, è stato impossibile per il sottoscritto non percepire (e comprendere) la desolazione di Hedges quando, sconsolato e alla ricerca di una forma di razionalizzazione, cita il teologo Richard Niebuhr: “La religione rende migliori le persone buone, e peggiori quelle cattive”.
Ma è davvero una questione legata alla religione, oppure dipende dalla società in cui essa nasce? Per farsi venire qualche dubbio basta gettare uno sguardo a come, negli ultimi anni, il movimento neoateista capeggiato da Richard Dawkins si sia trasformato in una massa di fanatici islamofobi che va a braccetto con gli alt-righters su molte questioni. Una risposta in tal senso, seppur non definitiva, si trova in The Evolution of God di Robert Wright, in cui si analizzano i tre principali monoteismi alla luce dei cambiamenti avvenuti all’interno delle società e culture in cui sono nati; il saggio ha un taglio più sociologico e storico che teologico, ma forse proprio per questo è utile per risalire la corrente di quei meccanismi psicologici che portano gli uomini a riunirsi sotto numeratori considerati unici e, spesso, in rivalità tra loro.
Comprendere certi aspetti della nostra natura è infatti essenziale in quest’epoca in cui, a vario titolo, società a lungo considerate liquide si stanno irreggimentando secondo criteri che sfuggono alla tradizione che vedeva nell’homo occidentalis una creatura tendenzialmente illuminista portata all’individualismo. Ciò a cui stiamo assistendo da oltre dieci anni è l’esatto opposto. In quest’ottica, dunque, poco importa che i più eruditi tra noi lo facciano in nome delle comuni letture mentre quelli meno scolarizzati (sempre più banalmente definiti con spregio analfabeti funzionali) si aggreghino attorno al nazionalismo (oppure al colore della pelle). Il principio è lo stesso.
Ciò che poi preoccupa è che da tempo le classi politiche dominanti abbiano abdicato a qualsiasi tentativo di spingersi oltre l’amministrazione dell’esistente: ne scrisse oltre vent’anni fa John Ralston Saul in Voltaire’s Bastards, un’altra lettura illuminante (per quanto lo stile prolisso dell’autore non sia d’aiuto) per capire come l’irrazionalità dei tempi moderni non derivi tanto (e solo) dalla dabbenaggine degli sprovveduti, bensì dalla diffusa insipienza umanistica di chi ci governa. Un’insipienza della quale non si dovrebbe mai andare fieri, nemmeno quando ci si difende dagli attacchi di chi sta dall’altra parte della barricata, e che, anzi, andrebbe ricordata quando ci si interroga sulla nascita degli estremismi di tutti i tipi: dalla jihad all’alt-right, fino all’attivismo da tastiera.