I n un vecchio libro di Gwendoline Riley intitolato Carmel (Fazi Editore), c’era un passaggio in cui la protagonista diceva qualcosa come: “Raccontare la vostra storia potrà farvi sentire purificati dal fuoco, ma la realtà è che non vi libererete mai dalla compassione”. Questo è il principio in base al quale ho impostato tutta la mia vita narrativa, continuando ad agitare l’amuleto della letteratura come sortilegio e menzogna, finché alcuni libri non mi hanno aiutato a capire che se la non fiction dal carattere confessionale implica il rischio della compassione, la scrittura romanzesca ne comporta uno che oggi mi pare ancora più mostruoso: quello del sospetto.
C’è una tirannia nel personaggio di finzione, nella traccia fantasmagorica che un autore lascia di sé e nei padri e nelle madri trasformati in altre persone, che mi pare gravare sui testi in maniera ancora più duratura e ossessiva rispetto al grado di morbosità che la rivelazione esplicita di un io è in grado di suscitare: la domanda “starà parlando di sé?” ha implicazioni più oscure e ostinate dell’affermazione “sta parlando di sé”, soprattutto nel momento in cui il secondo tipo di narrazione diventa dominante.
La ricerca su Google dei familiari di Knausgaard esposti nei loro vizi e virtù ne La mia battaglia si esaurisce in cinque minuti, mentre le implicazioni biografiche di Gregor Samsa o le sovrapposizioni tra i personaggi della Recherche e le frequentazioni di Proust possono generare vere ossessioni, che frustrano la nostra illusione di essere lettori liberi per rivelarci come cartografi del disastro altrui; ossessioni a cui il romanzo dà possibilità infinite. In qualche modo la verità di certi memoir si auto-annulla, mentre la verità in Tenera è la notte può far perdere il senno. È come se certi libri riuscissero a sbarazzarsi dell’io contingente a cui devono tutto — quest’io costantemente nominato, amato o vilipeso — proprio mettendolo sempre al centro, tanto da farlo diventare il monumento di una piazza molto trafficata: qualcosa che è lì, ma che non guardiamo più.
Uno di questi libri è I love Dick di Chris Kraus (Neri Pozza, trad. di Maria Nadotti), un testo che si colloca tra la fiction e la critical theory attraverso gli stereotipi del memoir epistolare. È la storia di una regista di film d’arte (Chris Kraus) sposata con un critico letterario francese trapiantato in America (Sylvère Lotringer), e del modo in cui la loro relazione si riconfigura dopo l’incontro con un amico di lui, Dick (in seguito identificato con il sociologo dei media Dick Hebdige). Dopo una serata trascorsa a conversare, la coppia inizia a scrivere a Dick per sviscerare l’infatuazione di Chris nei suoi confronti, un’infatuazione in cui si alternano estasi e umiliazione.
Nel libro tutte queste persone vengono chiamate per nome, ed è proprio il destino dei nomi propri ad aver subito una trasformazione radicale nel corso dei vent’anni che separano la prima edizione di I love Dick della sua rinnovata popolarità attuale: come Sophie Calle all’epoca del suo pedinamento di tale Henri B. per le strade di Venezia — la riduzione di uno sconosciuto a oggetto amoroso da consumare — Chris Kraus è stata accusata di violare la privacy di Hebdige, mentre oggi i lettori sanno a malapena chi sia, e tanto meno hanno voglia di scoprirlo: è anche attraverso le critiche al libro (rubricato all’epoca come testo con ambizioni intellettuali ma fondamentalmente furbo e scandalistico), che un genere si è sgravato dal gossip per diventare letteratura. Critiche che sono state utili anche per smascherare una misoginia insita nella critica letteraria: a differenza di Calle e Kraus, André Breton non è mai accusato di stalking perché, a differenza di Dick Hebdige, la sua Lèona Camile Ghislaine Delacourt in arte Nadja non era una persona con una vita privata violabile e violata, ma una musa.
Dopo il suo insuccesso commerciale nel 1997, I love Dick è tornato alla ribalta per l’iniziativa di casi editrici illuminate che lo hanno acquisito da Semiotext(e), sottraendolo al demi-monde di “ragazzi con la sindrome di Asperger, professori associati che non diventeranno mai di ruolo, ballerine di lap dance, autolesionisti e prostitute” che Kraus identifica come studenti dei suoi corsi d’arte e in parte come lettori dei suoi libri.
A rinfocolare l’interesse verso il libro ha contribuito una serie molto anticipata ma trascurabile di Jill Soloway per Amazon, e l’azione sinergica di scrittrici come Emily Gould e Sheila Heti che lo definiscono una lettura imprescindibile. La verità è che se I love Dick fosse stata una one hit wonder oggi non staremmo qui a parlarne: è difficile oltre che filologicamente inopportuno parlarne senza collocarlo all’interno di una produzione narrativa solida e coerente, in cui spiccano libri che spaziano da Simone Weil all’uso strumentale della santità e anoressia per fare fuori certe ragazze dalla storia (Aliens & Anorexia), dal capitalismo carcerario nel periodo Bush (Summer of Hate) agli orfanotrofi rumeni dopo il crollo del regime di Ceaușescu, fino al New Traditionalism fatto di macramé e conserve fatte in casa destinato a esplodere su Instagram ma già enucleatosi a fine anni Ottanta (Torpor).
Come spesso accade, I love Dick è il libro più famoso di Kraus, ma non il più bello e forse neanche il più importante: quello che ha fatto è stato presentare una possibilità di scrittura al mondo. Sfondando la barriera protettiva tra il personal essay e il saggio d’arte, ha liberato la furia espressiva di scrittrici interessate a delineare la propria identità intellettuale attraverso Baudrillard così come attraverso il sesso sadomaso, quelle che invece di nutrire sospetti verso l’emozione vera, se ne fanno carico per esplorarne tutto il potenziale conoscitivo, anche quando comporta la distruzione di tutto quello che ci ostiniamo a considerare sacro: l’integrità di sé, l’integrità del corpo. Scrittrici che parlano per me quando sono incapace di trovare una risposta tempestiva a osservazioni noncuranti come “Vedo che ti interessa Derrida, prova con Hélène Cixous: è una poetessa, mica una filosofa” da parte degli amici.
Questa impotenza, questo senso automatico di insufficienza che ho avvertito molte volte al cospetto di colleghi con una formazione accademica, è il motivo per cui la prima volta che ho letto un libro di Chris Kraus ho capito che mi avrebbe formata e deformata come neanche Didion e Sontag hanno fatto prima di lei, perché a loro differenza mi ha invitato a diffidare del mito di eccellenza di una donna che entra a far parte del dibattito culturale in ragione del suo talento superiore, quasi astratto dal genere. Se un tempo credevo che parlare solo ed esclusivamente di aborto e patriarchia fosse una dimostrazione di debolezza per non dire di opportunismo da parte di una scrittrice (la colpa era sempre la sua: o non aveva abbastanza fiducia nel suo talento da estendere la gamma dei suoi argomenti o cercava di rendersi visibile attraverso una cosa così scontata e prevedibile come il suo corpo), grazie a Kraus ho capito che non è necessario intervenire sull’Isis o sulle guerriglie sudamericane per ottenere una patente di legittimità intellettuale e dichiarare la propria presenza.
Prima di imbattermi in Aliens & Anorexia in libreria — scegliendolo in funzione del suo titolo e della sua copertina brutta e priva di qualsiasi aspirazione — la mia idea di intellettuale donna era quasi monastica e luterana, e trovava conferme in vecchie protagoniste della scena newyorchese: durante una conversazione telefonica piena di balbettii, Patti Smith mi ha detto che la mitologia dell’autodistruzione non l’ha mai sedotta perché lei doveva lavorare, era un’artista, non aveva tempo per quelle cazzate. Ancora oggi, quando leggo libri come Innocenti e gli altri di Dana Spiotta Meadow in cui una ragazza diciottenne decide di sfruttare il periodo marcescente dopo la fine di una storia d’amore per studiare come una pazza e diventare una grande regista (“Ho delle idee. Una linea di condotta, per così dire. Lavorare, lavorare” dice Meadow), non posso fare a meno di provare una fitta di rassicurazione, perché è solo attraverso questo tipo di inflessibilità e disciplina che si diventa qualcuno, quando una ragazza vuole diventare qualcuno più degli altri.
Ma cos’è di quegli spazi negativi in cui l’ego si illanguidisce, in cui c’è solo l’ozio e lo scrollare a vuoto di riviste femminili e l’ambizione risulta faticosa e vana; in cui l’idea di essere mantenute come lo è Chris da Sylvère non sembra un insulto al femminismo (e anche se lo fosse non importa) ma solo una strategia lungimirante di sopravvivenza? In cui non si è troppo disciplinate per essere di successo ma neanche troppo svanite, eccentriche e belle da diventare delle muse e accontentarsi di questo?
Nei suoi libri Kraus parla di tutte queste cose e offende certi miti adolescenziali con una disinvoltura che alla lunga ho trovato liberatoria: negli stessi anni in cui gli autori di Please Kill Me finivano di accumulare materiali per il libro e Patti Smith era impegnata a lavorare, Kraus si trasferiva dalla Nuova Zelanda a New York per lavorare in compagnie teatrali off off, finendo a spogliarsi in un topless bar, troppo timida, goffa e strana per intercettare qualcuno della scena no wave. Mentre le fidanzate dei filosofi sniffavano cocaina nei bagni e Joan Didion già stabiliva qual era il modello di autorevolezza per una scrittrice donna — non parlare troppo della tua appartenenza di genere e non avere paura di Washington — lei formava una lega Anti-Sesso con uno dei suoi amici mediocri e allampanati, imparando a diffidare della retorica romantica del margine e del nichilismo a tutti i costi. Ma anche dell’androginizzazione del pensiero al fine di essere accettata: già a quei tempi, la sua preoccupazione principale era chi ha diritto a dire cosa.
È una posizione che richiede un equilibrio che si auto-distrugge in continuazione e non garantisce una carriera stabile, né tra le femministe né tra i dipartimenti di cultural studies che amano le identità creole ma fondamentalmente categorizzabili: infatti da grande Kraus non guadagnerà soldi con le sue memorie della catastrofe, ma comprando appartamenti fatiscenti e rimettendoli a nuovo per affittarli a un prezzo equo, diventando una delle poche scrittrici che rivela apertamente di campare tramite la rendita immobiliare e non grazie al suo talento, suscitando sia rispetto sia imbarazzo tra i suoi interlocutori, come ogni volta che lo spettro di un’attività pragmatica si insinua nel campo sanitarizzato dell’arte. In una bellissima conversazione con Sheila Heti su The Believer di qualche anno fa, Kraus dice che a lei non interessa “il” politico, ma “la” politica: di quest’astrazione funzionale a rinforzare il proprio posizionamento teorico non sa che farsene; a lei interessa solo allargare i margini della conversazione per inglobare chi è escluso, senza dimenticare di riconoscerlo nella sua eventuale bruttezza, anche se è donna, nero, malato di HIV o povero.
Il rischio per una figura come la sua è trasformarsi nella grande rifiutata, quella a cui l’establishment accademico non ha mai offerto una cattedra a lungo termine. Ma la scrittura di Kraus è così viva e mutevole da distruggere qualsiasi tempio della coolness possa essere costruito in suo nome: tra le lettrici di I love Dick ci sono teoriche illuminate in grado di dibattere di femminismo e post-strutturalismo per ore, quanto adolescenti senza troppi riferimenti capaci di coglierne l’umorismo meglio di quanto abbiano fatto tanti critici sconvolti dal denudamento di sé dell’autrice, come se il suo chiamarsi Chris nel libro cambiasse davvero qualcosa: c’è una giocosità triste nelle pagine di I love Dick, che tanta auto-fiction femminista a venire ha perso, attribuendo all’uso dell’io una responsabilità e una magnitudo rivelatrice dei tempi che forse non è mai stata nelle intenzioni dell’autrice.
Più una maestra riluttante che una profetessa, e sempre generosa con le scrittrici di nuova generazione, Kraus ha dimostrato che non bisogna essere la ragazza più agile e svelta from the block per prendere parte al dibattito. Ha rivendicato la gioia di abitare il proprio corpo ma anche il diritto a fregarsene, facendosi simultaneamente portatrice di un’estasi della presenza quanto di una crisi dell’influenza. Se esiste un genere per tutte le ragazze non eccezionali che vengono scartate da un romanzo ma non si arrendono a un diario, è stata lei a inventarlo.