I l maledetto toscano Curzio Malaparte nasce come Kurt Erich Suckert a Prato il 9 giugno del 1898. Madre milanese, padre tedesco. Morirà a Roma il 19 luglio del 1957. Benedetto, convertito, eppure sfuggevole e fors’anche finto fino all’ultimo. Non è però uno scrittore dimenticato: nel 2017 i suoi libri si trovano ancora in libreria e vendono, eccome. Pubblicati quasi interamente da Adelphi.
Malaparte si è saputo muovere all’interno dei movimenti forti, muscolari e determinanti della prima metà del Novecento, ha raccolto la Storia e l’ha fatta sua, per disfarsene subito dopo, come un capriccio o solamente come esigenza di un uomo dichiarato libero, certamente scaltro, che ha aderito a tutto ma non ha incarnato fino in fondo nulla. Fascista, anarchico, comunista, repubblicano, libertario, dandy, paraculo, ricco, populista: si potrebbe continuare per cento righe in un elenco di aggettivi che gli aderiscono tutti, tutti efficaci e perciò ricacciati al mittente come non esaustivi. Per non poter rimanere niente è diventato tutto, un’icona che hanno in tanti voluto trasportare in processione ma di cui quasi tutti si vergognano tenere l’effigie sulla parete di casa.
“Io credetti mio dovere dar l’esempio”: a diciott’anni la sua biografia è già densa, e dolorosa. È un ragazzo diventato uomo soprattutto attraverso la guerra, che vive prima da volontario – finendo d’istinto nella Legione Garibaldina – fornendo già materia d’intuizione per i decenni a seguire. Un richiamo e un’attrazione durevole, ciò che ripugnava è anche ciò che è stato.
L’esordio è Viva Caporetto! (poi diventato un meno ruggente La rivolta dei santi maledetti), un atto d’accusa verso i capi, i condottieri, gli alti grado che non sono capaci di e forse nemmeno esistono per accompagnare l’Italia in una guerra, in una rivoluzione. Il nemico, come da copione, è Roma. Lì si annida il potere stantio, la corruzione, la negligenza; fuori da Roma è invece il popolo vessato, l’uomo semplice che bussa alle porte della città, inascoltato. Questa visione insoddisfatta e sindacale è il vocabolario più utilizzato da Malaparte, a cui ricorrerà quando la Seconda Guerra Mondiale lo vedrà di nuovo immergersi nella storia.
Non si capirebbero le ragioni della mia adesione al fascismo se non si tenesse conto di quella mia esperienza garibaldina. […] La guerra, per me, era già una mia tradizione personale, la mia prima, fondamentale, esperienza di vita. Non potevo, perciò, essere obbiettivo, né libero, di fronte alla guerra. Ed è appunto il fatto ‘guerra’ che mi ha impedito di essere un antifascista, allora.
Malaparte è stato un fascista. Di sinistra, stravagante, disattento, forse anche anti mussoliniano. Ma è stato un fascista. E ciò che comporta la sua adesione convinta all’iniziale e innegabile baldanza rivoluzionaria di quel movimento è la chiave per (provare a) comprendere tutto il resto della sua vicenda umana. Non si può evitare di richiamare la sua amicizia rispettosa con Piero Gobetti, che gli fece anche da editore per Italia barbara e che lo definiva “la migliore penna del regime”. I due, come cavalli di razza in corsa, avanzano quasi paralleli per tanti chilometri di gara, attenti uno dell’altro, compiaciuti della loro affinità. Tanto che Gobetti gli ribadisce la sua perplessità, “mi stupisco che lei sia lì dentro. Non se ne accorge ancora, ma se ne pentirà. Lei non è un fascista”. Gobetti morirà da antifascista e per colpa del fascismo nel 1926, Curzio inizierà la lenta e faticosa messa in atto di un allontanamento. Amico di Galeazzo Ciano e seduttore (corrisposto) di Mussolini, verrà allontanato con le dovute attenzioni dal regime, eppure mai schiacciato, lontano in un confino a Lipari accompagnato e morbido (“Sono un prigioniero molto raccomandato”).
Nel 1929 diventa direttore de La Stampa, chiamando come capo redattore Mino Maccari. Un rapporto, quello con il giornale di Torino, da subito difficoltoso – troppo giovane lui, troppo rigidi e governativi loro. Nel 1936 intreccia una relazione con Virginia, la nuora (vedova di Edoardo) del fondatore della FIAT Giovanni Agnelli, e addirittura si sta per arrivare alle nozze. Rischia di diventare uno di famiglia, ma il senatore Agnelli fa ferocemente saltare tutto, troppi casini, il forziere non si tocca. Gli anni dal 1940 all’armistizio Badoglio dell’8 settembre sono soprattutto anni di viaggio, di scritture da altri mondi per il Corriere della Sera. Russia, Jugoslavia, Finlandia: pubblica quindi Il Volga nasce in Europa e intanto lavora e termina Kaputt.
Il protagonista principale è Kaputt, questo mostro allegro e crudele. Nessuna parola, meglio della dura, e quasi misteriosa parola tedesca Kaputt, che letteralmente significa ‘rotto, finito, andato in pezzi, malora’, ormai è l’Europa: un mucchio di rottami. E sia ben chiaro che io preferisco questa Europa kaputt all’Europa di ieri, e a quella di venti, di trent’anni or sono. Preferisco che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare come un’eredità immutabile.
Uno scrittore per essere considerato grande potrebbe consegnare al futuro anche solo un libro, un romanzo. A Curzio Malaparte, al suo personaggio e alla sua distruzione, ne sopravvivono due: Kaputt e La pelle. Dentro vi è tutta la sua delicatezza e il distacco, l’empatia e l’elegante snobismo, la sensibilità verso gli ultimi e la sua necessità di scomparire attraverso le vie di fuga esclusive.
Aggiungo una terza opera, altrettanto meritevole, ambigua, potente: la Villa Malaparte. Un meraviglioso abuso edilizio situato a Punta Massullo (Capri), una costruzione (opera soprattutto dell’architetto Adalberto Libera) in cui Malaparte getta la sua anima e la sua tristezza, la sua vitalità mondana, il suo essere animale raro. Definita da lui stesso “casa come me”, diventerà luogo di studio e festa, di mistero (la mitologica eredità alla Repubblica Popolare Cinese), di eccentricità, di ulteriori pubblicazioni, di ammirazione da parte degli architetti a venire. Un divertissement autocelebrativo, tragico e spettrale, scalfito dal vento e dalla bellezza del paesaggio a metà tra Greco e Maestrale. Una portaerei nascosta, dura e mascellare, elegante e timida poi nei suoi interni. Insomma, un capolavoro quanto Kaputt e La pelle.
Non era colpa mia, del resto, se la carne di negro aumentava di prezzo ogni giorno. Un negro morto non costava nulla, costava meno di un bianco morto. Perfino meno di un italiano vivo! Costava press’a poco quanto costavano venti bambini napoletani morti di fame. Era veramente strano che un negro morto costasse così poco. Un negro morto è un bellissimo morto: è lucido, massiccio, immenso, e quando è disteso per terra occupa un bianco morto. Anche se il negro, da vivo, in America, non era se non un povero lustrascarpe di Harlem, o uno scaricatore di carbone nel porto, o un fuochista delle ferrovie, da morto ingombra quasi altrettanto terreno quanto ne ingombravano i grandi, splendidi cadaveri degli eroi di Omero.
Subito nella dedica in esergo a La pelle Malaparte porge al lettore il suo manifesto. I soldati americani venuti a combattere per la libertà dell’Europa sono morti inutilmente, soldati che lui ha accompagnato, di cui è divenuto amico e con cui ha condiviso il sangue, la gloria e il pianto. La pelle. Il sangue è un elemento onnipresente, inizia a spargersi nelle prime pagine, ed è ovunque, sulle divise dei morti che vengono date ai vivi, come uso in guerra, il sangue del popolo napoletano martoriato dai secoli, dalle invasioni e dalle guerre. Un popolo che non è vinto, dice lo scrittore, nemmeno dalla peste, che piomba sulla città come un mostro sovrannaturale (proprio La peste doveva essere il titolo del romanzo, ma Camus lo scelse per il suo libro). Un testo feroce, avvilente, ma carico di sensualità e dolce malinconia, un romanzo, La pelle, che Kundera non esita a porre tra i massimi del Novecento. C’è una pagina in cui avanza con toni camp che parrebbero quelli di un Tondelli di weekend postmoderno:
Gli omosessuali sbarcati dai trasporti militari inglesi e americani, e quelli che giungevano a frotte, attraverso le montagne degli Abruzzi, da tutti i paesi d’Europa ancora in pugno ai tedeschi, si riconoscevano all’odore, a un accento, a uno sguardo: e con un alto grido di gioia si gettavano gli uni nelle braccia degli altri, come Virgilio e Sordello nell’Inferno di Dante, facendo risuonare le via di Napoli delle loro morbide, e un po’ rauche, voci femminili: “Oh dear, oh sweet, oh darling!”. La battaglia, a Cassino, infuriava, colonne di feriti scendevano in barella verso la Via Appia, giorno e notte battaglioni di sterratori negri scavavano tombe nei cimiteri di guerra: e, per le strade di Napoli, le gentili schiere dei Narcisi passeggiavano dondolandosi sui fianchi e volgendosi a mirare golosamente i bei soldati americani e inglesi dalle larghe spalle, dal viso roseo, che si aprivano il passo tra la folla con quella loro sciolta andatura di atleti appena usciti dalle mani dei masseurs.
per riuscire subito dopo a recuperare tragicità, epica:
Gli invertiti accorsi a Napoli attraverso le linee tedesche erano il fiore della raffinatezza europea, l’aristocrazia dell’amore proibito, gli upper ten thousand dello snobismo sessuale e testimoniavano, con incomparabile dignità, di tutto ciò che di più eletto, di più squisito, moriva nella tragica decadenza della civiltà europea. Erano gli dei di un Olimpo posto fuori della natura, ma non fuori della storia.
E tutto si muove dai toni grigi del reportage inventato, al memoir drammatico, carezzando ogni tanto persino la commedia. Basti pensare alla scena della vergine di Napoli, in cui i soldati in fila pagante attendono il proprio turno per mettere un dito nel sesso di una ragazzina, o la divertente complicità con cui Malaparte descrive la compravendita degli schiavi (i soldati neri) da parte dei cittadini, che si passavano di mano in mano quei salvadanai viventi. Un romanzo carico di una potenza espressiva al servizio della scena, affrontata con una lingua mai sofisticata eppure costruita attorno a riferimenti sempre alti. Curzio Malaparte non è uno scrittore semplice da affrontare e nemmeno i suoi due capisaldi, pur possedendo ingredienti divulgativi, lo sono.
“Sono esiliato in Italia”: l’ostinazione con cui Malaparte tenta di difendersi nel dopoguerra per riabilitare la sua figura è il sudato emblema del suo rapporto con l’Italia. Un intellettuale ampio, uno dei pochi di caratura europea e mondiale che abbiamo posseduto, capace di usare il cinema, la letteratura, il teatro, la musica. Un talento sempre visto con sospetto. Non è mai stata accettata e digerita la sua adesione al regime, e il cambio di fronte susseguente, nel paese dei furbi per eccellenza, è comunque imperdonabile. Rifiuterà l’amnistia Togliatti per difendersi (e venire scagionato) da solo, servendosi anche della pesante testimonianza in suo favore proprio di Togliatti, che gli resterà sodale fino alla morte. Da Togliatti ricevette in dono, in punto di morte, la tessera del PCI. Ricevette la tessera del Partito Repubblicano, cui si sentiva molto vicino, e chissà quante altre. La Chiesa lo volle benedire, lui che aveva sul davanzale della finestra raffigurazioni di ogni dio.
Ed è proprio questa morbosità interessata un’altra consuetudine nella sua vita da cui non si è mai provato troppo a sganciare, bisogna dirlo, ma che gli ha privato il lusso della compassione. Leo Longanesi disse: a un matrimonio vuole essere la sposa, a un funerale il morto. Ai protagonisti non è concesso di abbandonare la scena, di rifiutare l’applauso, di riposare le gambe. A Curzio Malaparte la storia non ha concesso pause, nemmeno da morto: la placida sicurezza è vinta dagli strappi e dai morsi, come sempre quando si affronta la sua biografia e la sua poetica. La storia non lo ha umiliato con l’incomprensione, troppa era la forza di quest’uomo per lasciarlo sparire. Ciclicamente scende su di lui una coltre di polvere, come su quegli oggetti di cui si potrebbe fare a meno, o quei dipinti su cui si posano meno occhi rispetto ad altri. Ma ecco un colpo di tosse, un sussulto, un colpo di reni, o banalmente un anniversario, a ricordarci la sua statura.
E vorrei avere la tomba lassù, in vetta allo Spazzavento, per poter sollevare il capo ogni tanto e sputare nella gora profonda del tramontano.