H ai firmato l’appello? Hai condiviso la petizione? Hai letto il tal libro e l’hai commentato? Perché non fai parte di quel gruppo? Perché non sei venuto a questa presentazione? Hai saputo di questo e quello? Credi forse di essere migliore di noi? Pensi ti faccia bene? Non sai che si cresce solo con il reciproco confronto?” Tutto questo genere di domande — a volte peregrine, a volte in buona fede — tradisce un equivoco che credo sia bene dissipare; non fosse che ne sono stato protagonista più di una volta. È l’equivoco seguente: lo scrittore deve, forzatamente, far parte di una comunità qualsiasi; e soprattutto deve intervenire, essere presente, dar battaglia quotidiana. Esserci, su carta e sul web. Altrimenti è sospetto, o tacciabile di snobismo e menefreghismo. Ho qualche obiezione da muovere — con la premessa che in nessun caso vorrei passare per menefreghista, o peggio ancora elitario.
Io la penso così. Lo scrittore non deve coltivare solo un orrore assoluto per il potere, ma anche un minimo distacco nei confronti delle formazioni fraterne. Deve militare di sghembo, per non farsi irretire nell’impulso maggioritario che anima anche la migliore minoranza. Deve costringersi a una certa solitudine, sempre e comunque, al fine di evitare qualunque ricatto esteriore o interiore, qualsiasi cedimento di coscienza di fronte a rapporti che inevitabilmente si sedimentano: stima, rispetto e amicizia che possono essere dovute anche a chi discorda con noi.
Ora tutto questo viene scambiato, in genere, come un rifiuto dell’impegno. L’antico elogio della turris eburnea è un esempio perfetto dell’individualismo che i padri ci rimproverano. Ecco, io invece rivendico il diritto dell’artista, del filosofo, del poeta, del pensatore, dell’intellettuale, a tacere se crede e a salvaguardare il proprio isolamento. Non per disimpegno, semmai l’opposto: per pensare in modo isolato e offrire ai compagni di percorso delle riflessioni esterne, che possano aiutare a capire meglio come e dove muoversi, o dove fermarsi. Pensare in modo incondizionato, più integro, meno affetto dalla continua verifica — che poi è solo desiderio di continua conferma — offerta dal mondo in cui viviamo: un altro pollice alzato, un’altra stellina sulla mia frase icastica.
Intendiamoci: non voglio proporre alcun vangelo disconnessionista, né sollecitare a uscire in massa dai social network. È un’idiozia. Ciò che importa invece è ricordare un’etica di base del lavoro individuale — perché questo è scrivere: imparare a stare da soli in una stanza vuota — e insieme difendersi da tutte le sirene, anche e soprattutto quelle che non promettono soldi o potere, bensì la più diffusa merce della soddisfazione dell’ego: un coro di amici sempre pronti a dare ragione, una comunità d’intenti, persino un contropotere (che pur potere rimane).
Certo è faticoso riconoscere questo genere di impunità, quando si presenta, e stanarla. Se scrivo questo pezzo è proprio perché, come tutti, indulgo in errori e mancanze. Inoltre anche lo scrittore più indipendente, autonomo e disinteressato fa comunque parte di un gruppo sociale, di una classe, di un cerchio di affetti comuni. Sarebbe disumano il contrario: il solitario a oltranza è tendenzialmente un individuo che pensa di avere sempre ragione e rifiuta il dialogo così come qualsiasi mediazione o compromesso. Al riguardo ebbe parole definitive Camus, nell’Uomo in rivolta:
Platone ha ragione contro Mosè e Nietzsche. Il dialogo ad altezza d’uomo costa meno caro del vangelo delle religioni totalitarie, monologato e dettato dall’alto di una montagna solitaria. Sulla scena come nella realtà, il monologo precede la morte.
Sì, il monologo precede la morte: ma non è affatto una figura del genere che ho in mente. Niente santoni, niente profeti — soltanto il riconoscimento di un limite esplicito, per quanto rinegoziabile: arriva un punto in cui occorre disertare e tornare allo spazio solitario della scrivania. Rifiutare gli incarichi, rifiutarsi di rappresentare altri, rifiutarsi di giocare il gioco che porta l’intellettuale a diventare il capo o l’interprete di qualcun altro (soprattutto se questo “qualcun altro” sembra desiderarlo).
Conviene forse rileggere quanto scrisse Erwin Panofksy nella sua Difesa della torre d’avorio (ripubblicata da il Mulino nel dicembre 2016). Il grande storico dell’arte osserva che il termine “combina in sé il marchio dell’isolamento egocentrico (a causa della torre) con quelli dello snobismo (a causa dell’avorio) e di una trasognata inefficienza (a causa di entrambe)”. Ma aggiunge che “la torre dell’isolamento, la torre della ‘beatitudine egoistica’, la torre della meditazione — questa torre è anche una torre di guardia. Ogni qualvolta l’occupante avverta un pericolo per la vita o la libertà, ha l’opportunità, o anche il dovere, non solo di segnalare ‘lungo la linea da cima a cima’, ma anche di gridare, nella flebile speranza di essere ascoltato, a quelli che stanno a terra”. Dove la parola chiave, naturalmente, è dovere: un dovere facile da disattendere, e che può essere ancor più facilmente preso in giro e scambiato per inutile retorica. Ma proprio per questo tanto attuale.
Di nuovo, ciò non significa sdegnare la realtà; né pensare che la ricerca del vero e del giusto passi soltanto per una via eremitica. Significa anzi gettarsi nella realtà con coraggio e abnegazione, ma il più possibile seguendo un principio di autonomia. Appartarsi, appunto: stare da parte, mettersi di lato, anche e soprattutto quando si è scelto un gruppo di appartenenza; per consentire di vederne e denunciarne, nel caso, gli abusi e le disparità. L’intellettuale perfettamente integrato rischia invece di peccare di presbiopia, quasi per contratto: che sia integrato in un partito (ormai non ce n’è più), o in un movimento, o in questo o quel contesto. E non importa che certi contesti siano mille volte preferibili di altri: anche in essi, anche quando si è in due, bisogna stare attenti a non cedere alle lusinghe del “gruppo”. Attenti a non sentirsi impuniti, difesi in automatico, ben recensiti ogni volta, costretti a ben recensire chiunque faccia parte del gruppo. Per non dire peggio.
Lo stesso vale per il silenzio. Seguendo un equivoco comune a quello dell’isolamento, anche il silenzio passa come volontà di disimpegno: “Non dico nulla perché potrebbe compromettermi”. Chi tace è considerato l’alleato più subdolo dello status quo — o alla meglio, un rinunciatario e un pavido.
Ma è davvero così? È sempre così, mi chiedo? A me appare invece il contrario. Se io non intervengo nell’ultima polemica letteraria o editoriale o sociale o civile che sia, è sempre perché ho paura a esprimere la mia opinione, o perché ritengo di non averne una sensata, che contribuisca davvero al discorso? O perché non penso di aver studiato a sufficienza la questione? O anche, e legittimamente, perché di quella tal cosa non me ne importa nulla? Non è un tic che rischia di farci smarrire la meraviglia della specificità e la passione del ragionamento? E di converso: perché nelle polemiche dove costa pochissimo dire la propria ognuno si affanna a dirla, e quando si tratta di difendere un collega — o chiunque altro — da un attacco che potrebbe metterlo in reale difficoltà, si tace? Se è questo “l’impegno” che l’interventismo a tutti i costi suppone, è davvero ben poca cosa.
Se la capacità di costruire qualcosa insieme — una comunità orizzontale di beni e valori, senza capi né profeti — è la maggiore realizzazione umana, mi sento a maggior ragione di consigliare una misura di isolamento. Come cura, come medicina sociale. C’è bisogno di qualcuno che ogni tanto — a turno, direi — si metta ai margini, osservi in modo il più indipendente possibile la situazione, e provi a esporla con razionalità. Non fosse altro che per offrire un punto meno conforme all’ambito cui è di solito destinato: questo o quel gruppo, questi o quei lettori, questo o quel giornale. In un brano del suo intervento Lo scrittore e la coscienza (pubblicato da Iperborea ne La politica dell’impossibile), il mio amatissimo Stig Dagerman mette la questione nei termini più chiari e coraggiosi:
È trascorso infatti tanto di quel tempo che si è dimenticato che la letteratura va difesa giorno per giorno, momento per momento. Non c’è una difesa definitiva, così come gli attaccanti, i sostenitori dell’ordine più o meno stabilito, non ritengono mai che il loro attacco sia l’ultimo. Se lo scrittore se ne dimentica e si accontenta di scrivere una volta all’anno sugli almanacchi letterari fiacchi resoconti delle più recenti polemiche, si è mandato in pensione da solo. Se va avanti a lavorare come se niente fosse, come se non ci fosse alcuna frizione tra la poesia e la realtà, è perduto anche a una vita da pensionato. Lo scrittore deve sempre partire dal presupposto che la sua è una posizione incerta, che l’esistenza della letteratura è minacciata. Per questo è costretto ad andare sempre in cerca dei punti deboli della sua difesa e, con assoluta spietatezza, dare la caccia alle quinte colonne che si nascondono dentro di lui e fucilarle senza alcuna pietà, anche se sa che gli sarà difficile vivere senza di loro.
Suonerà enfatico, ma la penso esattamente come lui. E ho come l’impressione che pensieri di questo tipo siano moneta fuori corso, anche perché propongono una linea di attività diversa dal megafono auto-assolutorio, dalle parole battute e ribattute minuto dopo minuto, dall’interventismo spicciolo. Una linea appartata ma niente affatto rinunciataria, che intervenga poco e bene, con coraggio e cura, e non alimenti quel torrente senza fine di chiacchiere dentro cui distinguere la ragione o il torto, le sfumature e le distinzioni, e persino i fatti — i fatti, che dell’opinione dovrebbero essere il fondamento — diventa sempre più difficile e oneroso.