C helmsford, il capoluogo della contea dell’Essex, è una città di poco più di centomila abitanti a nord-est di Londra. Un tempo era un centro industriale importante, quando alla fine dell’Ottocento Guglielmo Marconi vi aveva stabilito la sua Marconi Company. Oggi, come tutta la contea, nell’immaginario popolare inglese è diventato simbolo di cattivo gusto e scarsa cultura, uno stereotipo sfruttato da uno show televisivo come The Only Way is Essex. L’area non possiede molti punti di interesse naturalistico, e il turismo nella zona è praticamente inesistente. Tuttavia a sud e a est di Chelmsford si dirama il cosiddetto estuario del grande Tamigi, il complesso sistema di corsi d’acqua minori, paludi e aree coltivate attraverso i quali il principale fiume britannico e i suoi emissari raggiungono il Mare del Nord. Questa, che un tempo era la porta di Londra al commercio con il mondo, oggi è un luogo dal “potere inquietante”, come ha scritto lo Spectator recensendo il recente libro di Rachel Lichtenstein dedicato appunto alla storia e alla cultura dell’estuario. Esattamente cinquant’anni fa, in questo luogo è stato scritto uno dei libri di saggistica naturalistica più sconcertanti del Novecento, il capostipite del moderno nature writing britannico: Il falco pellegrino di John Alec Baker.
Baker era nato proprio a Chelmsford nel 1926. Era il figlio unico di un ingegnere che lavorava in un’azienda locale e di una madre casalinga, e, nonostante le notizie sulla sua vita siano scarse, sappiamo che era molto miope e non aveva ricevuto studi universitari. Sappiamo anche che fin da giovane soffriva di una grave forma di artrite reumatoide che gli avrebbe reso sempre più difficile il movimento: come scrive in Landmarks Robert McFarlane, uno dei grandi scrittori naturalistici del nostro tempo e uno dei due fautori della riscoperta di Baker in anni recenti (l’altro, come vedremo più avanti, è Werner Herzog), le conseguenze dell’artrite erano così gravi che verso il 1970 “le nocche delle sue dita indice e medio sembravano essersi fuse l’una nell’altra, e il dorso della mano si era gonfiato e indurito in una forma spatolata”. Secondo i suoi biografi, sarebbero stati proprio i farmaci che Baker era costretto ad assumere per controllare il dolore a provocare il cancro che l’avrebbe portato via nel 1987, a sessantuno anni.
Nel 1956 John aveva sposato Doreen Coe e la coppia si era trasferita di poche centinaia di metri verso il centro della città. John, che fino ad allora aveva cambiato molti impieghi, aveva cominciato a lavorare per l’Associazione Automobilistica locale nonostante non avesse mai imparato a guidare, probabilmente a causa della grave miopia. A quel punto della sua vita Baker aveva già cominciato a praticare il birdwatching a livelli seri, prendendo note e compilando appunti che sarebbero confluiti dieci anni dopo nella stesura del Falco pellegrino. In attesa di una biografia che dovrebbe essere pubblicata proprio quest’anno da Little Toller Books, ma di cui al momento non si trova traccia, non sappiamo molto della vita di Baker negli anni della scrittura del suo capolavoro, a parte il fatto che conduceva un’esistenza molto riservata. Quando nel 1967 Il falco pellegrino era stato pubblicato da Collins, l’editore scozzese che prima di fondersi con Harper aveva dato vita alla feconda collana New Naturalist, ottenendo una risposta critica immediata e straordinaria, un giornale aveva commentato che dell’autore del libro si sapeva molto poco, a parte che “vive nell’Essex, in una casa popolare, e non possiede il telefono”.
Il falco pellegrino è il resoconto di dieci anni di birdwatching in un’area che si estende dall’estuario del fiume Blackwell, quasi ai confini con il Suffolk, fino a Canvey Island, a 30 miglia dalla capitale e non lontano da dove oggi si trova il London Gateway, quel che rimane del grande porto di Londra. Con una tecnica narrativa già utilizzata da Thoreau nella scrittura di Walden, il libro di Baker condensa dieci anni di annotazioni in un unico inverno, da ottobre a maggio: cioè nel momento di maggiore presenza dei falchi pellegrini sulle coste britanniche, nei mesi durante i quali alla popolazione locale, che non migra, si unisce quella scandinava che sverna a sud. Nei suoi spostamenti Baker segue solo i falchi pellegrini, osservandone soprattutto le abitudini caccia. I suoi spostamenti sono privi di toponimi, e costellati di indicatori che si ripetono sempre uguali (una diga, una ciminiera, l’estuario), tanto che non sarebbe stato possibile ricostruirli se non fosse stato per i diari e gli appunti custoditi dalla University of Essex. Il tempo o lo spazio del libro sono molto specifici, definiti da specie animali e vegetali stagionali così come dal riferimento alle paludi, i campi coltivati e coste che compongono l’area, e allo stesso tempo astratti. Potrebbero essere il tempo e lo spazio di un mondo mitologico, o simbolico, che con il mondo reale intrattiene soltanto rapporti di somiglianza.
In questo mondo il lettore del Falco pellegrino entra immediatamente, come passando attraverso un portale. Dopo una breve introduzione in due parti, Gli inizi e Falchi pellegrini, che contestualizzano il lavoro e la specie investigata, comincia il vero e proprio corpo del libro, una lunga sezione intitolata La vita da cacciatore e strutturata come un diario. Tutto quello che capita nel libro da qui in poi è che un narratore senza nome, di cui non ci viene detto niente (niente dell’aspetto fisico, niente dei sentimenti che prova) si sposta da un luogo all’altro per osservare la caccia dei falchi pellegrini, descrivendone le azioni con precisione naturalistica e linguaggio lirico al tempo stesso. L’azione è sempre circoscritta alla comparsa del falco sulla scena, non c’è un prima né un dopo. L’effetto è quello di un’unica azione che si ripete, sempre uguale e sempre incredibilmente diversa, ancora e ancora.
La morte è la grande protagonista delle pagine di Baker: le scene più intense del libro sono quelle che descrivono l’uccisione delle prede del falco, la loro spennatura e la maniera metodica in cui le loro carni vengono mangiate. Sono scene di estrema violenza ma allo stesso tempo stranamente sospese, liriche e allo stesso tempo impersonali, perché a mancare è lo sguardo umano che sarebbe in grado di colorarle d’orrore. In un libro intitolato The Silence of Animals, il filosofo John Gray ha definito il mondo descritto da Baker come pervaso da una forma di “misticismo senza dio” (un argomento che non sorprende abbia colto l’attenzione anche di un altro pensatore interessato ai temi del nichilismo come Simon Critchley). E proprio questo misticismo senza entità superiori, e per dirla tutta anche senza entità umane, è la costante dell’aspetto che più di tutti rende Il falco pellegrino un capolavoro della letteratura: la lingua, che è densa fino all’impenetrabilità e capace di aprirsi in improvvisi momenti di chiarezza, e che accomuna il libro a un atipico poema in prosa. Non stupisce scoprire che gli unici testi pubblicati da Baker in giovinezza fossero poesie, e nemmeno constatare che le pagine del Falco pellegrino sono quasi intraducibili. Descrivendo la maniera in cui i trampolieri si spostano in un campo “simili a soldatini di piombo in ordine di battaglia”, Baker scrive che
Procedevano in linea retta, oppure si fermavano a mangiare. Quando un trampoliere non voleva spostarsi, cercavano di passargli sopra. Per un uccello, gli uccelli sono di due specie: i suoi e quelli pericolosi. Non ne esistono altri. Il resto è formato da oggetti innocui, come i sassi o gli alberi, o gli uomini quando sono morti.
Oppure, poche pagine prima, parlando di un topo campagnolo Baker dice che “non si accorgeva del mio tocco […] per lui ero come una galassia, troppo grande per essere visibile”. Il narratore pensa di prendere il topolino in mano, ma poi si dice che “non m’è parso giusto staccarlo dalla superficie che non avrebbe lasciato fino alla morte”. E infine conclude questo breve passaggio così:
Mangiare per vivere, per mantenersi in efficienza, per guadagnare il tempo perduto: a questo si riduce la sua vita; senza mai fare progressi, muovendosi sempre nello spazio angusto tra una morte e una morte; tra donnole ed ermellini, volpi e civette, la notte; tra macchine, gheppi e aironi di giorno.
O ancora, una scena di caccia sull’estuario viene descritta come segue:
Con una picchiata improvvisa [il falco] è uscito dal vortice, inseguendo nel cielo una tringa solitaria. Sembrava che la tringa fosse attirata pian piano dal falco. È passata dietro la sua sagoma scura e non è riapparsa. Nessuna brutalità, nessuna violenza. Gli artigli del falco si sono distesi, hanno afferrato la preda, l’hanno stretta nella loro morsa e hanno spento il cuore della tringa con la stessa facilità con cui il dito di un uomo estingue un insetto. Languidamente, tranquillamente, il falco è sceso su un olmo dell’isola per spennare e mangiare la sua preda.
Nella meravigliosa postfazione scritta per l’edizione William Collins del cinquantenario, quasi un libro a sé stante alla fine del libro principale, Robert McFarlane scrive che “Il falco pellegrino è una storia di ossessione, e ha prodotto a sua volta storie di ossessione”. Una di queste storie di ossessione è quella di Werner Herzog, che ha inserito il libro nell’elenco di letture obbligatorie della sua Rogue Film School, insieme alle Georgiche di Virgilio e al racconto La breve vita felice di Francis Macomber di Hemingway. Da qualche anno a questa parte Herzog sta anche promuovendo la lettura del lavoro di Baker in giro per il mondo: ad esempio nel 2016 era alla Stanford University a spiegare che Il falco pellegrino non è solo un libro su come osservare un falco (caratteristica che sarebbe già molto importante per un filmaker) ma piuttosto su come diventare un falco (caratteristica fondamentale nel cinema visionario di Herzog), citando le raccomandazioni fornite da Baker a un aspirante birdwatcher nel capitolo Gli inizi:
Non nasconderti mai, se l’occultamento non è completo. Sii solo. Evita la furtiva stranezza dell’uomo, fuggi gli occhi ostili delle fattorie. Impara ad aver paura. Avere la stessa paura è il legame più forte di tutti. Il cacciatore diventi la cosa che caccia. Quel che è, lo è oggi, e deve avere la vibrante intensità di una freccia che si pianta in un albero. Ieri è vago e monocromo. Una settimana fa non eri nato. Insisti, continua, segui, osserva.
“L’attrattiva esercitata dal Falco pellegrino su un regista è ovvia”, scrive McFarlane, e altrettanto chiara è la fascinazione che può esercitare su un regista come Herzog attratto “dall’ossessione, dall’estremo e il selvaggio”. Come mai allora il regista tedesco non ha mai girato un film sul lavoro di Baker? Aneddoto simpatico, un giorno del 2015 McFarlane decide di scrivere una lettera a Herzog, che non ha mai incontrato di persona, e di chiederglielo. “Se qualcuno può farlo quello sei tu”, gli scrive, convinto di lusingarlo. La risposta arriva il giorno successivo e ha un tono bernhardiano: “Fare un film dal libro sarebbe molto sbagliato. Ci sono testi che non dovrebbero mai essere toccati. Lenz di Georg Büchner è un altro di questi. In effetti, chiunque provi a fare un film dal Falco pellegrino di Baker dovrebbe essere fucilato senza processo”.
Ma al di là dell’interesse di un regista di culto come Herzog, c’è un’altra ragione per cui nel corso degli ultimi anni si è tornati a parlare del Falco pellegrino: perché decenni prima che il concetto venisse coniato dai geologi e dai climatologi, Baker ha scritto il perfetto poema in prosa dell’antropocene. Da un lato questo aspetto è evidente nel panorama dell’estuario in cui il libro è ambientato, che non ha niente dell’innocenza della natura incontaminata tipica della scrittura naturalistica prima degli anni Duemila: al contrario è un territorio profondamente antropizzato, dove alla mutevole geografia dei fiumi che convergono nell’estuario si alternano vaste aree coltivate e artefatti industriali come le già citate ciminiere e dighe che ritornano spesso nella narrazione. L’altra ragione va ricercata nella scelta dell’argomento del libro, cioè nel falco pellegrino stesso.
Il soggetto non era stato scelto da Baker per semplici ragioni ornitologiche, e nemmeno letterarie (anche se non è difficile immaginarci Baker, che portava occhiali alla T.S. Eliot, aggirarsi nel suo mondo insieme postumano e medievale al suono della quasi coeva The Falconer di Nico e John Cale), ma anche perché alla metà degli anni Cinquanta il falco pellegrino si era quasi estinto non solo in Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti. A provocare l’improvvisa moria, si era scoperto intorno al 1956, era stata l’introduzione massiccia a scopo prima medico e poi agricolo del DDT, il primo insetticida moderno. Come spiega ancora la Stanford University, i falchi si nutrivano di uccelli che a loro volta si nutrivano di semi contaminati. L’alta concentrazione di sostanze inquinanti impediva all’organismo del falco di produrre la corretta quantità di calcio: il risultato erano uova fragili che non riuscivano a portare a termine la gestazione dei piccoli. Questo spettro dell’estinzione contribuisce ad illuminare il libro di Baker della sua luce cupa, come già chiarito alla fine della sezione di apertura del libro:
Restano pochi falchi pellegrini, sempre di meno, forse non sopravviveranno. Molti muoiono rovesciati sul dorso, artigliando follemente il cielo nelle ultime convulsioni, bruciati e inariditi dal polline sordido e insidioso dei prodotti chimici usati in agricoltura. Prima che sia troppo tardi, ho cercato di richiamare alla memoria la straordinaria bellezza di quest’uccello e di abbozzare un ritratto della splendida terra in cui viveva, una terra, per me, prodiga e gloriosa come l’Africa. È un mondo che muore, come Marte, ma che irradia ancora il suo fulgore.
Per fortuna il falco pellegrino non si è estinto: nel 1973 il DDT è stato bandito dal Congresso americano in una delle prime battaglie ambientaliste del secolo scorso e la popolazione di falchi è tornata a crescere sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. E per fortuna il libro di Baker non è stato dimenticato, anche se in Italia non è mai stato veramente riscoperto: è stato tradotto in italiano nel 2006 da Franco Muzzio, un editore che pubblica testi divulgativi di scienze naturali, con la traduzione di Vincenzo Mantovani (le citazioni in italiano sono tratte da questa edizione). È classificato nella categoria “birdwatching”, quando dovrebbe finire nella sezione di poesia, o in una categoria a sé stante dove si trovano quei libri che non hanno genere e vengono scritti una sola volta nell’arco di un secolo. Dopo Il falco pellegrino Baker ha scritto un solo un altro libro, The Hill of Summer, pubblicato nel 1969. Nonostante il buon riscontro tra la critica il libro non ha goduto del successo del suo predecessore: dal 1970 l’artrite di Baker è peggiorata e fino al 1987, l’anno della sua morte, da quel che sappiamo non ha più scritto.