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i incontriamo davanti a un caffé, a margine della marea umana che invade la trentesima edizione del Salone del libro di Torino. A dispetto di certe severe fotografie che appaiono digitando il suo nome, e dell’autorevolezza che emana da un’opera tra le più erudite e impegnate dell’attuale panorama letterario europeo, Mathias Énard è una persona affabile, sorridente e molto alla mano. Associo istintivamente i suoi modi semplici ai tavolini di metallo sulle corniches o nelle medine di città arabo-mediterranee dove immagino abbia consumato molti altri caffé. Nato nel 1972, dopo avere studiato lingue orientali a Parigi, Énard ha vissuto in paesi come Egitto, Tunisia, Siria, Iran, a Venezia, Berlino e Barcellona (dove attualmente risiede), ha tradotto dall’arabo e dal persiano ed è diventato un autore decisamente prolifico, considerata la sua età e la qualità dei suoi lavori: ha pubblicato una decina di libri, quasi tutti tradotti in diverse lingue, molti dei quali premiati in Francia e all’estero. La sua opera è strettamente legata a interessi orientali e allo sforzo di pensare un mondo, e una storia, diversamente globali.
Quando ci incontriamo a Torino le elezioni presidenziali francesi si sono svolte da pochi giorni, e nell’ormai endemica quotidianità del terrore mediatizzato si agitano i fantasmi che porteranno, di lì a poche ore, al panico di piazza San Carlo. Abbiamo parlato di storia, politica, viaggi, letteratura. Al momento di sistemare questa intervista apprendo che il suo ultimo romanzo, Bussola, già caso letterario e premio Goncourt in Francia nel 2015, dopo essere entrato nella shortlist del prestigioso Man Booker International Prize è stato superato dal romanzo di Grossman. In compenso, negli stessi giorni Énard è al Festival degli scrittori di Firenze per ritirare il premio Von Rezzori. Nella motivazione del premio, firmata da un autore importante come Edmund White, si legge: “Il brillante lavoro di Énard è imbevuto di quella profonda conoscenza culturale a cui la maggior parte degli scrittori fa soltanto accenni o riferimenti generici; Énard, al contrario, suppone che i suoi lettori siano tanto intelligenti e informati quanto lui”.
Queste parole mi riportano alla memoria una pagina di Calvino pubblicata sulla rivista Rinascita nel 1967, poi compresa nella raccolta intitolata Una pietra sopra. Un’altra epoca, un altro contesto politico e culturale, eppure quello che scriveva Calvino mi sembra ancora fondamentale e poco recepito da una società letteraria divisa tra il conformismo di una scrittura che pur di andare incontro al pubblico rinuncia a qualsiasi ambizione, e l’atteggiamento simmetricamente opposto e benintenzionato di chi interpreta in maniera paternalistica e pedagogica la vocazione civile dell’arte. La riporto per intero perché, con White, mi sembra che Énard si muova esattamente nella direzione che indicava Calvino:
La letteratura non è la scuola; la letteratura deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora. La letteratura non può che giocare al rialzo, puntare sul rincaro, rilanciare la posta, seguire la logica della situazione che necessariamente si aggrava: tocca alla società nel suo complesso trovare la soluzione.
La questione del mettersi al posto dell’altro è qualcosa che diventa molto concreto nei tuoi romanzi, dove spesso il narratore o personaggi importanti appartengono a un mondo che non è il nostro.
Un personaggio non è mai una persona reale quindi mettersi al posto dell’altro è pur sempre una finzione. Io parto dal principio che anche se non c’è nulla di inconoscibile nell’alterità, ognuno è un mondo a se stante e i miei personaggi sono tutti abbastanza unici per il loro destino, per il loro percorso. Poi ce ne sono alcuni più misteriosi che si possono disegnare soltanto dall’esterno, dal contorno, come Michelangelo [il pittore rinascimentale è protagonista del romanzo Parlami di battaglie, di re e di elefanti N.d.R.]. Ma nel caso di personaggi di mia invenzione come Lakhdar di Via dei ladri, con pochi accorgimenti linguistici e culturali posso facilmente riuscire a immaginare il suo mondo. Mettersi al suo posto in fondo presupporrebbe un’esistenza preliminare mentre sono io a inventarlo, e lo faccio con una certa dose di ibridazione.
In effetti il marocchino Lakhdar è una persona che un po’ ti somiglia: legge molto, è acculturato, di mentalità aperta, ma per esempio il caso del cecchino di La perfection du tir [il primo romanzo di Énard, non tradotto in italiano, racconta di un cecchino in un contesto di guerra non precisato molto simile a quello della guerra civile libanese, N.d.R.] mi sembra un’altra storia. Mi domandavo anche in quale misura il fatto di avere viaggiato molto e frequentato luoghi non occidentali ti abbia aiutato in questo lavoro di invenzione dell’alterità.
È certamente fondamentale. Penso che la grande curiosità che ho per le lingue, i luoghi, le persone mi aiutino a creare personaggi diversi. Se non avessi trascorso molto tempo in Libano difficilmente mi sarei interessato a mostrarlo in profondità o a inventare il personaggio del cecchino, che è un po’ un concentrato della violenza di guerra. Allo stesso tempo non sento particolarmente il bisogno di focalizzare sulla psicologia: il mio angolo di visuale non è tanto su come si arriva a quel punto, sulle reazioni psicologiche, non è tanto la genesi interiore della violenza a interessarmi quanto quella specie di costruzione della violenza collettiva che è la guerra, come poco a poco tutto si sfascia, tutti i codici, tutte le regole che conosciamo e diamo per scontate in tempo di pace collassano e si trasformano. È qualcosa che ho conosciuto in Libano attraverso le testimonianze di persone che hanno vissuto il conflitto da civili o da soldati: quello che veniva fuori in modo prepotente era proprio lo stravolgimento di codici, pratiche quotidiane, abitudini.
Hai raccolto materiale per i tuoi libri facendo delle interviste?
Ho fatto molte interviste ma informali. Un romanziere non ha l’obbligo dell’esaustività né di una metodologia precisa, quindi si è trattato di una documentazione legata alla casualità degli incontri, dei racconti, delle occasioni.
Il tema della violenza è centrale nei tuoi libri. Il multiculturalismo che descrivi non ha nulla di irenistico, di facilmente ecumenico, si direbbe piuttosto che l’incontro passi sempre, fatalmente, attraverso il filtro del conflitto.
Soprattutto negli incontri più culturalmente distanti c’è sempre una dimensione di violenza, ed è quello che mi interessa. Ovviamente nei contesti di guerra o di scontro armato la violenza diventa atroce ma la scoperta dell’altro, in generale, contiene sempre qualcosa di complicato, nel contatto e nello scambio l’accettazione della differenza richiede uno sforzo, e lo sforzo può facilmente trasformarsi in violenza. Non ho una visione angelica del pianeta come di un luogo dove tutti sono buoni e gentili verso il prossimo. Neppure il contrario d’altronde. Penso solo che ognuno, anche all’interno del mondo in cui vive, intrattenga rapporti molto diversi con l’altro, e a volte quando si esce dal proprio mondo l’impatto può essere duro. Lo vediamo bene oggi in Europa: per esempio in Francia è interessante notare come, al momento delle elezioni presidenziali, in zone dove non esiste quasi l’immigrazione si è votato per politici xenofobi. È la paura di un’alterità completamente immaginaria. Oggi ce ne rendiamo meno conto perché siamo sempre più abituati al fatto che esistono spagnoli, italiani, albanesi, individui linguisticamente e culturalmente diversi da noi, ma quando si esce dallo spazio europeo, quale in fondo si è costruito negli ultimi cinquant’anni, la cosa diventa più spaventosa, credo. Cos’è un rifugiato siriano, ad esempio, per un europeo? L’impossibilità di riempire con un contenuto reale questa idea fa sì che la maggior parte degli europei ne abbia paura. Se tutti sapessero o avessero abitato in Siria come ho fatto io, la situazione sarebbe completamente diversa.
Come hai vissuto le elezioni in Francia?
È stato un po’ triste. Il contesto elettorale francese è tale per cui in occasione di queste elezioni straordinariamente importanti – troppo importanti – non si parla d’altro per sei mesi, e questo carattere esclusivo diventa stucchevole: ci si muove sempre sul piano personale, non si parla di idee, molto poco di programmi, il discorso diventa aggressivo, interminabile. Anche se in questo momento non abito in Francia, sono stato contento che sia finita.
Sei stato contento che sia finita in questo modo? Sarebbe potuta finire diversamente.
Non ho mai creduto all’opzione Le Pen. Non che abbia una fiducia particolare nei miei concittadini: penso che siano sprovveduti almeno quanto quelli delle altre nazioni europee, ma lei non ha saputo assolutamente essere brillante. Ha soprattutto berciato in maniera bovina e a un certo punto buona parte della popolazione si è resa conto che il suo progetto non si reggeva in piedi, che non avrebbe migliorato la situazione. Su Macron ho difficoltà a elaborare un pensiero, è il problema di questi politici che non si collocano da nessuna parte, sono difficili da giudicare prima che si mettano al lavoro.
C’è comunque una linea riconoscibile che parte da Blair in Inghilterra, passa per Renzi in Italia, e ora s’incarna in Macron.
Il centro sinistra che alla fine si rivela essere un centro destra, certo: è già stata la linea del cosiddetto “liberalismo sociale” di Hollande. Penso che Macron si muoverà in una certa continuità rispetto a François Hollande, tranne il fatto – ed è forse il solo vantaggio, almeno spero – che Macron è giovane, e mi auguro che una certa energia giovanile lo spinga a operare dei cambiamenti. Hollande era un uomo seduto che dava l’impressione di essere impegnato soprattutto ad attendere, a pazientare, evitando a tutti costi di fare le cose di fretta.
Tornando alla letteratura e alla questione dell’altro, tu stesso in Bussola chiami in causa la categoria di “orientalismo”. Nel libro c’è anche una specie di polemica nei confronti di Saïd per il quale l’orientalismo è anzitutto una questione di potere e dominazione, mentre tu – o meglio i tuoi personaggi orientalisti – sembrate vederci anche altro.
Non intendevo andare contro Saïd ma in qualche modo prolungare il suo lavoro.
Orientalismo è stato pubblicato nella metà degli anni settanta, quindi quarant’anni fa, ed è un testo veramente importante. Porsi quelle domande intorno al rapporto tra sapere e potere in Oriente è fondamentale e Saïd ha ragione quando parla di un legame tra dominazione coloniale e rappresentazione artistica, ma nei quarant’anni seguenti le ricerche si sono spinte oltre e hanno visto le differenze tra i diversi tipi di orientalismo: quello tedesco, per esempio, è molto diverso da quello britannico, francese, italiano o spagnolo. Sono tutti molto diversi tra loro.
E si è capito che esiste anche un secondo effetto dell’orientalismo, che vale per l’occidente stesso: i rapporti filtrati dalla moda orientalista hanno trasformato la storia della pittura, della musica e della letteratura in Europa, in una sorta di viavai ininterrotto tra est e ovest. La lunga storia dell’orientalismo è molto più diversificata e complessa di quello che si cominciava a capire negli anni settanta. Esiste un orientalismo orientale: ci sono stati orientalisti turchi, iraniani, egiziani. L’Europa non ha il monopolio dell’orientalismo. Si parla persino di un orientalismo giapponese: anche i giapponesi sono interessati al nostro medio-oriente, si continua a chiamarlo orientalismo ma nel loro caso si tratta evidentemente di occidentalismo.
Credi che oggi, in un mondo così interconnesso, si possa ancora parlare di orientalismo?
No, non credo. Quello orientalista è stato un paradigma legato a un rapporto tra mondo scientifico e artistico che non esiste più. All’epoca il suo soggetto era l’oriente inteso come mondo arabo, turco, iraniano, e gli orientalisti erano allo stesso tempo storici, linguisti, etnografi, e altro ancora. Oggi questo genere di lavoro enciclopedico è scomparso: si è anzitutto storici, quindi specialisti di un tale periodo o luogo, oppure linguisti e poi specialisti di un determinato aspetto della lingua, e così via. Il paradigma scientifico in Europa, Stati Uniti, mondo arabo, Iran, India è completamente cambiato: di conseguenza, non si può più parlare di orientalismo nel senso storico del termine.
Il romanziere può occupare il posto lasciato vacante dei vecchi sapere enciclopedici?
Penso di sì. Il romanzo è il luogo dove si possono mettere in scena e in azione saperi diversi, condividere la conoscenza in un mondo di finzione al di là della settorializzazione delle competenze scientifiche.
C’è una parte che mi ha molto colpito in Bussola: racconti la rivoluzione iraniana e mostri come all’inizio, prima che prevalesse l’opzione islamica, tra studenti e intellettuali ci fosse un forte movimento sociale di matrice laica con personaggi al confine tra mondi diversi come il socialista-islamico Ali Shariati. Questo mi ha fatto pensare anche alle primavere arabe che sono nate democratiche e sono finite islamiste.
È una delle specificità della rivoluzione iraniana, che ritroviamo anche in certi momenti delle primavere arabe. In Iran le forze rivoluzionarie erano abbastanza variegate, c’erano marxisti, moderati, liberali, ma tutti con l’obiettivo comune di mettere fine al potere quasi assoluto dello Scià. Molto presto ci si accorge che quelli che riescono a raggruppare il maggior numero di partigiani, grazie al denaro e all’uso di strutture sociali preesistenti, sono i religiosi.
Questo è possibile perché i religiosi hanno un alleato molto potente: il bazar, il mercato. Tutta la classe media dei commercianti, molto influente a Teheran e nelle grandi città, è abbastanza tradizionalista ed è alleata con il clero. Sono loro che firmano un assegno in bianco ai religiosi perché tornino ad affermarsi politicamente. Il clero, che in Iran non era protagonista della vita politica dal tempo della rivoluzione costituzionale d’inizio novecento, si rende conto in quel momento della possibilità di tornare al potere e s’inventa degli strumenti teorici adeguati, in particolare il famoso concetto di Khomeini del Velayat-i-Faqih, ovvero la superiorità dei giuristi, del governo dei giuristi. Appoggiandosi su alcuni testi della tradizione sciita affermano sostanzialmente che nell’attesa della fine del mondo è il clero il depositario dell’autorità non soltanto morale ma anche politica, ed è un concetto, questo, del tutto moderno perché prima di allora il clero doveva limitarsi al ruolo di giureconsulto e guida spirituale.
Anche in Tunisia al tempo della primavera araba esisteva questo connessione tra il mercato e il clero?
Nei paesi sunniti non esiste un clero organizzato, gerarchizzato, come per gli sciiti. Più che di un clero staccato dal resto della società, si tratta di un islam associativo dove tutti possono partecipare, molto più vicino ai partiti politici come Ennahda. I quali sono cresciuti nel corso degli eventi sebbene fossero del tutto minoritari quando si trovavano in esilio e nessuno sembrava interessarsi a ciò che passava per la testa degli islamisti. La gente ha votato per loro perché li vedevano come una forza di cambiamento, salvo capire abbastanza rapidamente, tre o quattro anni dopo, che non sarebbe stato così. Chiedevano delle soluzioni sul piano economico politico che Ennahda non è stato in grado di realizzare.
Nei tuoi libri ci sono molte storie d’amore. Anche quello è un modo per raccontare l’incontro (e scontro) culturale?
C’è qualcosa che interviene nell’amore e che allude a una dimensione più grande, un adattamento tra l’uno e l’altro, l’incontro profondo delle alterità nel desiderio. Raccontare storie d’amore è inoltre un modo di avvicinarmi a un enorme corpus letterario: se c’è una costante nella letteratura universale è sicuramente il tema dell’amore, che in quanto tale va al di là di ogni inquadramento culturale. È dunque qualcosa che mi interessa in sé, e come modo specifico del romanzo.
Da scrittore cosmopolita quale sei hai in mente un pubblico specifico quando scrivi un libro?
Penso che per definizione ogni scrittore abbia una sorta di lettore immaginario, una finzione di lettore di cui tuttavia non è cosciente. Io, in ogni caso, non ci penso mai.
E com’è stata la ricezione dei tuoi libri nei paesi arabi o extraeuropei? Sono stati tradotti?
Sono stati tradotti ma il problema dei libri in arabo è che non circolano. Anzitutto è molto difficile che circolino da un paese all’altro perché manca un’unione doganale, e in generale manca un vero mercato editoriale. Gli editori per vendere qualcosa riempiono le valige di libri e vanno in giro per fiere, ma resta una distribuzione minima. In compenso, in molti paesi arabi si legge in lingua originale e la stampa ne parla direttamente quando sono pubblicati in inglese o francese, il che è un altro problema per le traduzioni perché quando escono solitamente i giornali ne hanno già scritto. Gli intellettuali e i giornalisti arabi si sono mostrati molto interessati ai miei lavori. L’idea secondo cui l’orientalismo non era solo una condanna e un dominio ma anche possibilità di condivisione e scambio è piaciuta molto nel mondo arabo.
E nel mondo turco?
La Turchia è un mondo a parte. I turchi hanno molto apprezzato il libro su Michelangelo [ambientato a Costantinopoli NdR] ma Zona e Bussola non sono ancora usciti, usciranno presto.
Come è cambiata la tua carriera dopo avere vinto il Goncourt?
In Francia il Goncourt è il premio più importante in termini di riconoscimento pubblico. Ci sono persone che nel corso dell’anno leggono un solo libro, ed è quello che ha vinto il Goncourt. Vincerlo significa arrivare automaticamente a circa trecentomila lettori. È stato davvero molto importante per me scoprire che persone che di solito non si interessano alla letteratura potevano avvicinarsi alla mia scrittura. Non mi aspettavo di farcela, Bussola sembrava a molti un libro troppo complesso, ed è bellissimo rendersi conto che invece può raggiungere un così gran numero di lettori. Questo dimostra che la percezione della “difficoltà” spesso è influenzata da fattori esterni, che il lettore medio è più aperto di quello che pensiamo o che pensano gli addetti ai lavori.
Anche se guardano ai piani alti della letteratura, nei tuoi libri sono spesso presenti riferimenti alla letteratura popolare e di genere.
Amo molto la letteratura popolare, come lettore ho iniziato leggendo moltissimi polizieschi, romanzi di fantascienza, di avventura, prima di interessarmi ad altri tipi di letture. Per me non esiste una vera distinzione tra alto e basso, tra letteratura di genere e colta: quella popolare è il passaggio obbligato verso una letteratura diciamo più esigente. Più che una divisione io ci vedo un prolungamento.
In quale momento della tua vita hai cominciato a considerarti uno scrittore?
Credo che si diventi scrittore quando lo decidono gli altri. È il pubblico, i giornalisti, le persone che ti circondano che cominciano a considerarti tale, a utilizzare quella parola riferendosi alla tua persona, fino a quando non finisci con l’ammetterlo anche tu. Certamente la pubblicazione è una tappa importante, ma c’è una differenza netta tra l’essere uno scrivente – uno che scrive – e uno scrittore. Mentre scrivevo il mio primo libro non ero uno scrittore, anche se aspiravo a esserlo, lo sono diventato quando lo hanno voluto i lettori e i critici.
Recentemente hai pubblicato un libro di poesie, Dernière communication à la société proustienne de Barcelone. Ci puoi dire qualcosa della tua attività poetica?
Ho sempre scritto poesia, parallelamente ai miei libri. In questa raccolta ci sono poesie che ho scritto dagli anni novanta a oggi. È una specie di autobiografia in versi che accompagna e fa da contraltare ai libri che ho scritto nel corso degli anni. C’è una parte chiaramente legata a Zona, una a Bussola, ecc. Formalmente si tratta di poesia ma è anche abbastanza narrativa e mi piace considerare quel libro come una specie di diario di viaggio.
Il viaggio è un altro tema centrale nei tuoi libri. I due romanzi maggiori, Zona e Bussola, sono pieni di spostamenti, luoghi del mondo diversi e distanti, avventure, eppure entrambi si svolgono a partire da spazi chiusi, interiori, quasi claustrofobici. Zona è tutto immaginato dall’interno di un vagone ferroviario, Bussola dall’appartamento di Franz Richter a Vienna. Delle cornici molto strette per dei romanzi molto aperti.
Ho usato questo schema istintivamente, perché mi sembrava quello più adatto. Dietro c’è un principio tecnico e di ordine: avevo moltissime cose da raccontare molto distanti nel tempo e nello spazio, dovevo trovare un modo di tenerle insieme, una struttura affinché il lettore non si perdesse. In un certo senso il vagone di Mirković o la stanza di Richter sono un po’ come metafore del libro stesso: un oggetto chiuso e compatto, di cui fruire in maniera statica, grazie al quale tuttavia si può viaggiare lontano nello spazio e nel tempo.
Il tuo libro di poesie è stato pubblicato da un piccolo editore, Inculte, nato da un collettivo di cui fai parte e che pubblicava una rivista omonima fino a qualche tempo fa. Mi puoi dire qualcosa di questa esperienza?
Ci ritroviamo, parliamo, ci leggiamo reciprocamente, siamo molto vicini. Fanno parte del collettivo molti autori conosciuti anche in Italia come Maylis de Kerangal, François Bégaudeau, Claro. È un’esperienza interessante. Sono usciti venti numeri della rivista, ognuno intorno a un tema diverso, non c’era una linea politica, non c’era un manifesto, per noi era più un laboratorio dove pubblicare cose che ci permettevano di avanzare nei romanzi che stavamo scrivendo, o di sperimentare forme di scrittura molto diverse. Eravamo davvero molto liberi. Inoltre c’era, e ancora esiste, una dimensione di socialità importante perché la scrittura è qualcosa di molto solitario e il collettivo è stato anche un modo di uscire dalla solitudine.
Come funziona il tuo lavoro da un punto di vista stilistico? Spesso i tuoi libri sono molti diversi uno dall’altro, come trovi la voce per un romanzo?
Nella costruzione di un progetto di libro c’è un momento di ricerca importante relativo alla voce, al suono, alla materia del testo. Ovviamente non è la stessa cosa scrivere su un episodio della vita di Michelangelo all’inizio del sedicesimo secolo o sull’orientalismo di un musicologo perduto nella Vienna del ventesimo. In ogni caso bisogna trovare una voce che vada bene a noi e alla situazione descritta, una sorta di mediazione. In Bussola ci sono frasi lunghe, in Zona una sola, altri libri sono scritti con frasi brevi. Non so dirti come succeda: nell’economia di un testo ci si rende conto a un certo punto che quella è la forma giusta, anche se ci sono tic e costanti che i lettori possono ritrovare tra un romanzo e l’altro. Non sono in grado di prevedere come sarà il prossimo romanzo. Un libro è sempre anche il modo in cui è stato scritto.
Scrivi dei libri molto euriditi, in particolare Bussola contiene tonnellate di sapere: hai degli assistenti che fanno ricerche per te o è tutta farina del tuo sacco?
No, non voglio assistenti perché amo la ricerca. A volte chiedo consigli bibliografici ad amici ricercatori specializzati in ambiti diversi, ma questa è una delle parti del lavoro che preferisco e non lascerei nessun altro farla al posto mio. Per molti non è così. Alexandre Dumas ad esempio aveva Maquet, il quale compilava schede su determinati luoghi e personaggi storici che Dumas utilizzava in fase di scrittura. Io lavoro da solo ed è qualcosa che si sviluppa in due tempi: nella fase preliminare, prima di lanciarmi nella creazione di un libro, accumulo letture, viaggi, ricerche varie per creare una specie di mondo mentale sul quale appoggiarmi. Quando poi possiedo un primo schizzo o piano di quello che sarà il libro e inizio a scrivere, mano a mano che procedo affino le prime ricerche. Il lavoro di ricerca quindi prosegue anche in corso d’opera.
Quanto tempo è durata la ricerca preliminare per Bussola?
Qualche anno, quattro o cinque, la bibliografia che sta dietro Bussola conta circa trecento titoli. Non l’ho inserita nel libro perché all’editore sembrava troppo accademico, secondo lui avrebbe un po’ rovinato lo spirito romanzesco.
Bussola inizia con la tesi di dottorato di Sarah. Nel libro è espressa una certa delusione verso il mondo accademico.
La tesi di Sarah è un pezzo della mia tesi di dottorato. Un aspetto del mondo accademico che trovo un po’ triste è la sua chiusura, quello che Bourdieu chiamava “riproduzione”, nel senso che l’università funziona un po’ come uno stampo dove i pensieri si formano e riproducono in maniera simile. Si è inoltre costretti a redigere i testi con molti vincoli formali, quindi anche sul piano della scrittura i risultati sono poco interessanti.
Eppure parli di un’università, quella francese, dove c’è spazio anche per gente come appunto Bourdieu, o Foucault, che potevano criticarla molto severamente.
Ma il cambiamento e la trasformazione vengono sempre dall’esterno, da qualcuno che non appartiene fino in fondo a quel mondo: dagli “imbucati”. Solo in quei casi riescono a emergere testi che poco a poco sconvolgono le abitudini del pensiero incanalato nel flusso, diciamo così, mainstream. Quando ho lavorato all’università ho capito che quel genere di scrittura non faceva per me, sentivo sempre il bisogno di uscirne, fare digressioni, parlare d’altro. Anche se devo ammettere che per un certo periodo ho provato a lavorare nell’università di Venezia. Era fantastico perché c’erano pochi studenti: te ne stavi a guardare le barche passare, poi andavi a piedi a lavorare in biblioteca. Una dimensione quasi medievale. Mi sembrava bellissimo, poi mi sono reso conto che non era una situazione reale.
Hai passato molto tempo in Italia, hai anche ambientato un libro, o almeno la cornice di un libro, Zona in Italia. Mi puoi dire qualcosa dell’Italia, della tua immagine del nostro paese?
La diversità. Vivendoci ci si rende conto di quanto le parole “Italia” e “unità italiana” siano qualcosa di molto recente. Questo è per me un motivo di grande fascinazione: il fatto di parlare tutti la stessa lingua non determina immediatamente l’identità nazionale. Per non parlare della ricchezza dialettale ancora viva in questo paese, e causa della sua unità tardiva, cosa che purtroppo in Francia è andata perduta. In Italia come altrove mi hanno sempre interessato quelle frizioni che trovi dove meno te l’aspetti. E mi piace il fatto che sia il paese Alpino di Rigoni Stern e quello Mediterraneo di Montale, fino ad arrivare al sud, in Sicilia, dove se non si parla arabo è quasi per caso. A Malta, qualche chilometro più giù, la lingua è un dialetto arabo.
Quali altri scrittori italiani sono importanti per te?
Considero Claudio Magris come un maestro. Danubio è uno dei miei libri preferiti e Bussola gli deve molto. Amo le persone che vengono dai margini, decentrate. Magris è doppiamente marginale perché è di Trieste, territorio di confine, e pur facendo parte del mondo accademico si è messo a scrivere romanzi. Credo che uno dei maggiori scrittori del ventesimo secolo sia Malaparte, sfortunatamente. Ma è vero.
Lo hanno spesso definito il Céline italiano.
È forse superiore a Céline, perché Céline, a parte due capolavori, è rimasto impantanato in un flusso di risentimento. Poi c’è qualcosa di molto onirico in Malaparte, che gli dà una forza che secondo me manca a Céline.
E a livello di letteratura europea? Io, ad esempio, vedo molte affinità tra te e Orhan Pamuk.
Mi piace molto Pamuk, Rosso in particolare, e il libro su Istanbul che è magnifico, lo considero un grande autore. Se ti devo dire i primi scrittori europei che mi vengono in mente farei il nome di Marías per la Spagna, poi forse un tedesco che si chiama Marcel Beyer, un belga che si chiama Stefan Hertmans, Pierre Michon in Francia.
Da qualche parte hai scritto che “nel ventunesimo secolo il romanzo può tutto”. Da un punto di vista formale, però, il romanzo di oggi sembra più limitato rispetto a quello del novecento con i suoi sperimentalismi e le sue avanguardie.
Proprio perché ci sono state quelle aperture nel ventesimo secolo oggi le forme sono tutte a disposizione. In un testo narrativo si possono mettere immagini, suoni, non esistono limiti predefiniti. Molti scrittori lavorano come lavoravano le avanguardie storiche. Un autore per me molto importante è Sebald. Sebald scriveva romanzi? Non si sa. Sono narrazioni, contengono immagini, si tratta di storie di cui non sappiamo con esattezza se siano vere o fittizie, e oggi ci sono sempre più romanzieri che seguono le sue orme. La libertà del ventunesimo secolo riguardo le forme espressive è enorme.
Mi viene ad esempio in mente il vostro Targhetta che ha fatto un romanzo in versi, come Gonçalo M. Tavares in Portogallo [il romanzo di Tavares è Uma Viagem à Índia N.d.R.]. Oggi si può proporre un romanzo pieno di link ipertestuali. Non credo ci sia un grande futuro per la lettura di romanzi on line ma io stesso in Bussola ho controllato che tutto ciò che era presente nel libro in termini di musica, luoghi, persone ecc. fosse reperibile su internet. Se potevo scegliere tra due brani musicali da citare, ho sempre dato la precedenza a quello che si poteva trovare su youtube. In questo modo il lettore può continuamente uscire dal libro per cercare dettagli nell’immenso crogiolo del web. Questo è molto da romanzo del ventunesimo secolo.
Dunque sei ottimista, credi che nel futuro secolo ci sarà ancora spazio per il romanzo nonostante il successo di nuovi media e nuove forme espressive?
Le serie tv funzionano bene per ragioni economiche e di produzione, ma questo significa anche che le persone hanno voglia dei tempi lunghi della finzione. Non penso che la serie tv, come dice qualcuno, abbia preso il posto del romanzo, ma che al contrario sia segno della vitalità del romanzo, di qualcosa che può durare oltre l’ora e mezzo di un film. Sì, sono abbastanza ottimista, credo che sia possibile trovare equilibri economici per continuare a produrre libri e lettori [ indica la folla che cammina davanti alle vetrate dell’Hotel al Lingotto, diretta verso l’ingresso del Salone del libro.]