A rriva per tutti il momento in cui si smette di dare la realtà per scontata. Per la stragrande maggioranza, questo momento passa senza lasciare tracce evidenti. Per altri, vale quanto ha scritto Emmanuel Carrère in un passo del Regno: “Per queste persone l’esistenza è un punto di domanda e anche se non escludono che a questa domanda non ci sia risposta, loro la cercano, non possono farne a meno”.
Ognuno la cerca a modo suo e Therese, la giovane protagonista dell’ultimo romanzo di Francesco D’Isa, la cerca in una camera d’albergo dove si è rintanata per sfuggire alla vita secolare e immergersi in un tour de force intellettuale, una personale ricerca della Verità. In un mondo che non ha più misteri né segreti, niente di più ragionevole: anziché imbarcarsi in un viaggio per i quattro angoli del pianeta in cerca della strada che porta alla realtà, come potrebbe essere tentato di fare qualche bohémien che segretamente medita di far soldi con il suo diario di viaggio social, Therese sceglie l’immobilismo più radicale – non lasciare la sua piccola camera d’albergo, per nove mesi e oltre. Il suo diario esistenziale è condiviso solo con la sorella maggiore, destinataria delle sue densissime lettere.
Therese fa risalire il suo scetticismo cosmico a un episodio accaduto all’età di quattro anni, quando scopre l’esistenza dell’infinito. Da quel momento, nulla può più essere come prima:
Che importanza hanno le cose che facciamo se non cancellano il dubbio, il rumore di fondo della vita? Che valore hanno successo, potere, amore, piacere, dolore e desideri, davanti all’infinito? Una volta pensata la domanda non c’è via di ritorno.
Difatti Therese non intende tornare, nonostante i solleciti – peraltro assai poco convinti – della sorella, che interviene nel romanzo di D’Isa solo attraverso le annotazioni al margine delle lettere di cui è destinataria, con le quali minimizza riconducendo a una semplice depressione successiva a un incidente le elucubrazioni sempre più metafisiche di Therese. Abbiamo detto romanzo, semplice affibbiargli l’etichetta di “romanzo epistolare”; forse, però, bisognerebbe usare quella di “oggetto narrativo non identificato”, coniata dai Wu Ming, perché le lettere di Therese, oltre che delle glosse della sorella, sono infarcite anche di finti ritagli di illustrazioni e citazioni da libri che la protagonista si è portata con sé nella camera d’albergo (una lunghissima lista ci permette di ricostruire non solo la composizione di questa biblioteca ideale, ma anche – attraverso i titoli – il filo conduttore seguito da D’Isa nel ragionare intorno ai temi dell’opera). Funzionerebbe anche come saggio, probabilmente, sollevando la patina fittizia attraverso cui l’autore, utilizzando come suo alter ego una donna, sublima le sue personali riflessioni per tramite di quella che è la più vicina degli opposti, ossia una persona di genere diverso dal suo. Ma anche Therese ammette che l’operazione avrebbe i suoi limiti:
So che al posto mio avresti elaborato un saggio, ma a tua differenza non riesco a sacrificare la libertà in nome della precisione e sono portata ad accerchiare la verità più che a catturarne un aspetto.
D’altronde un saggio dovrebbe avere per obiettivo quello di circoscrivere la sua materia e dire su di essa, possibilmente, la parola definitiva; ma si può mai essere definitivi su un tema come l’infinito? D’Isa sceglie quella stessa forma che Philip K. Dick adottò per otto lunghi anni, una serie di lucidi e deliranti appunti confluiti poi, dopo la sua morte, nell’Esegesi, e nei quali, ogni volta che riteneva di aver finalmente trovato la risposta faticosamente cercata sulla vera natura della realtà, rimetteva di nuovo tutto in discussione, in cerca di nuove risposte. Analogamente, verso la fine del romanzo Therese riassume le sue elucubrazioni in tre pagine schematiche, auspicando di essere ormai vicina alla fine del suo viaggio iniziatico, ma poi le getta nel cestino (dal quale le recupererà, stropicciate, per spedirle alla sorella). E in effetti appaiono tre pagine piuttosto deboli se confrontate con una sola, stupenda frase che le anticipa nella lettera precedente:
Si direbbe che mi persuade più l’impossibile dell’improbabile, ma d’altra parte in molti credono in dio e in pochi nei cavalli volanti: mettere in dubbio l’intera realtà sembra più facile che accettarne alcune eccezioni.
Niente di più vero: uno scienziato perderebbe la sua reputazione se dichiarasse di credere nei dischi volanti o negli unicorni, ma nessuno ci vedrebbe nulla di male se affermasse che l’universo in cui viviamo non è reale: non sono in pochi a sostenerlo, ultimamente. Therese non è, d’altronde, una scienziata (a differenza della sorella, neuroscienziata, che diventa l’incarnazione stessa di una scienza pratica e diffidente nei confronti di qualsiasi tentazione metafisica, sempre pronta a ricondurre ogni volo pindarico dell’immaginazione a uno scompenso biochimico); però la sua personale ricerca sul tema dell’infinito l’ha resa un’esperta, cosicché attraverso le sue lettere D’Isa accenna a tutta una serie di teorie più o meno recenti sull’argomento. Una di esse è quella del rapporto tra limite e finitezza, per cui ogni cosa può essere considerata finita solo se possiede un limite, nonostante il fatto che l’infinito sia considerato in matematica un limite, o proprio in ragione di questa considerazione. In termini cosmologici, ciò è alla base della crescente convinzione che l’universo esista perché possiede un bordo, e che quel bordo gli conferisca al tempo stesso la realtà in un oceano infinito di esistenza solo probabile. Scrive infatti Therese:
l’infinito è una sorta di ‘limite dei limiti’ che mi sfugge di mano non appena lo definisco, perché per essere colto richiede necessariamente un nuovo limite (il ‘limite dei limiti dei limiti’). È un confine inafferrabile, eppure mi sembra necessario per l’esistenza di una qualunque cosa finita. Credimi se ti dico che non riuscivo a pensare ad altro, tutto quel che appariva nel mio orizzonte non era più una mela, un giocattolo o un sorriso, ma un frammento di infinito.
L’altra idea a cui Therese approda è che a dare senso alla realtà siano le relazioni tra le cose, come già sosteneva Leibnitz. La Monadologia di Leibnitz compare del resto nella lista di acquisti bibliografici di Therese (tra questi, come una sorta di easter egg, o di riferimento al paradosso di Rusell nella teoria degli insiemi, troviamo anche il titolo del romanzo che siamo leggendo) ed è tra le letture obbligatorie di quei fisici impegnati nelle ricerche sulla gravità quantistica che s’interrogano sulla natura ultima della realtà. La citano Lee Smolin e Carlo Rovelli, colleghi di settore entrambi impegnati nello sforzo di comprendere la natura del tempo nel quadro della gravità quantistica; e se si legge l’ultimo testo di Rovelli, L’ordine del tempo, ci si imbatterà nello stesso concetto che Therese nel romanzo esprime in modo così semplice e poetico: “il tempo non esiste senza le identità e le identità senza le relazioni, è il mutare delle cose a costituirne l’essenza, e se tutto rimanesse congelato per la durata di un minuto, il minuto non trascorrerebbe.”
Saremmo allora tentati di concludere che La stanza di Therese sia un testo di filosofia della scienza realizzato sotto forma di romanzo epistolare, se non per il fatto che proprio nella relazione con la sorella scienziata – perché è nella relazione con l’altro che si costruisce la propria identità – Therese intende prendere le distanze dai tentativi di ridurre la sua ricerca esistenziale all’interno delle limitate categorie del pensiero scientifico. Analogamente a Ettore Majorana, la cui scomparsa è stata recentemente interpretata da Giorgio Agamben nel suo libro Che cos’è reale come un tentativo di mettere in atto i paradossi radicali della fisica quantistica, rendendo la sua sparizione “indeterminata”, così Therese sembra voler realizzare uno dei paradossi più celebri della matematica dell’infinito, quello inventato da David Hilbert e noto come il paradosso dell’Albergo Infinito, grazie al quale Therese potrebbe rendersi irreperibile restando sempre nello stesso hotel, limitandosi a cambiare sempre stanza, all’infinito.
È l’invenzione, l’immaginazione, insomma, la chiave attraverso cui trovare una risposta ai dilemmi insolubili del pensiero scientifico? Lo pensava Chesterton, citato da David Foster Wallace nell’introduzione del suo saggio dedicato alla matematica dell’infinito Tutto, e di più: “I poeti non impazziscono, ma i giocatori di scacchi sì. Impazziscono i matematici, e anche i cassieri; ma agli artisti creativi accade assai di rado. Non voglio, come si vedrà, attaccare in alcun senso la logica; dico soltanto che questo pericolo è insito nella logica, e non nell’immaginazione”. Wallace citava questo passaggio per parlare della malattia mentale di Georg Cantor, il pioniere dello studio dell’infinito; ma a posteriori, ricordando la sua drammatica scomparsa, verrebbe da chiedersi quanto nella sua irriducibile depressione contasse la logica e quanto l’immaginazione creativa. Lo stesso dubbio che vorremmo porre a Therese; ma lei ci risponderebbe probabilmente, come nella sua ultima epistola, con l’ennesimo paradosso: La risposta a qualunque domanda è sia sì che no.