I l 15 agosto 1977, dall’Università dell’Ohio, dove lavora al progetto scientifico SETI (Search of Extraterrestrial Intelligence), l’astronomo Jerry R. Ehman capta uno strano segnale con il suo radiotelescopio Big Ear. Puntato sulla costellazione del Sagittario, il telescopio riceve un segnale radio a banda stretta almeno trenta volte più intenso del rumore di fondo, dalla durata di 72 secondi e caratterizzato da una frequenza di 1420 MHz; la stessa frequenza delle emissioni di idrogeno neutro che, in un paper del 1959, i fisici Philip Morris e Giuseppe Cocconi ritenevano potesse essere il mezzo più adatto alle comunicazioni extraterrestri, vista la sua diffusione nell’universo.
In un certo senso, quindi, quella frequenza avrebbe rappresentato una scelta obbligata (o comunque molto probabile) nel caso in cui gli extraterrestri avessero provato a mettersi in contatto con altre civiltà. Jerry Ehman fu talmente colpito da quel segnale inspiegabile da cerchiare in rosso il codice che descrive la variazione del segnale e annotare di fianco un’esclamazione: “Wow!”. Si trattava di alieni che stavano tentando di entrare in contatto con l’umanità? Purtroppo, non c’è mai stato modo di saperne di più: nonostante i vari tentativi (condotti a intervalli irregolari fino al 1999), quel segnale non è più stato osservato ed è tuttora privo di una spiegazione ufficiale.
Il buco nell’acqua fu di quelli dolorosi, ma il cofondatore del SETI, Frank Drake, non ha smesso di sperare che quel segnale arrivasse da una civiltà aliena: “Tra tutti i possibili indizi di intelligenza extraterrestre, è ancora oggi uno dei nostri migliori candidati”, scrive nel saggio Is Anyone Out There?. “Ma, come tutti gli altri candidati finora, non si è più ripetuto. Nessuno ha più udito quel segnale, alla Ohio State o in altri luoghi”. Forse, ipotizzò lo stesso Drake, proveniva da una civiltà molto lontana, che aveva convogliato tutta l’energia possibile per emettere un segnale molto stretto e dalla durata limitata, in modo che potesse essere ricevuto a grandi distanze.
Quando una spiegazione astrofisica naturale è debole o non troppo convincente, c’è sempre la tentazione di immaginare che ci siano dietro gli extraterrestri.
Più probabilmente, la vera origine di quel segnale è un’altra ed è stata individuata nel 2016 da Antonio Paris, professore universitario in Florida, secondo il quale fu causato dal rilascio di idrogeno neutro da parte di due comete, la 266P/Christensen e la 2008 Y2 (Gibbs), che proprio quel giorno del 1977 stavano transitando nell’area di cosmo incriminata (anche se non tutti ritengono che questo fenomeno sia sufficiente per emettere un segnale così intenso).
Little green men e forni a microonde
In parecchie altre occasioni l’uomo ha creduto (o temuto) di trovarsi in contatto con civiltà extraterrestri. Nel 1967, l’astronoma Jocelyn Bell Burnell individuò da Cambridge un segnale inusuale: una fonte stava inviando dal cielo scariche regolari e ripetute, separate tra loro da una precisa pausa di 1,33 secondi. Incapace di trovare una spiegazione al fenomeno, lo chiamò LGM: “little green men”. L’interpretazione “marziana” iniziò rapidamente a venir meno quando ci si rese conto che quei segnali non erano poi così rari e anzi provenivano da numerose fonti; per la precisione dalle stelle di neutroni: erano appena stati scoperti i pulsar.
Più dura fu la realtà che risvegliò dai sogni di gloria gli scienziati dell’osservatorio di Parkes, Australia, nel 1998: i “peritoni”, i segnali che almeno una o due volte l’anno venivano regolarmente individuati – e che gli scienziati erano certi aver origine extraterrestre – erano invece causati dall’apertura del forno a microonde che si trovava nell’area ospiti del centro (come dimostrò il ricercatore Emily Petroff). Avete presente quando aprite il microonde prima che abbia finito? Quel modello non si spegneva immediatamente e faceva fuoriuscire una minima quantità di “peritoni”. Niente origine extraterrestre, purtroppo.
In effetti, il problema delle ricostruzioni che tirano in ballo gli alieni, come si legge su Space.com, è che “quando una spiegazione astrofisica naturale è debole o non troppo convincente, c’è sempre la tentazione di immaginare che ci siano dietro gli extraterrestri. Dopotutto, non possiamo mai escludere gli alieni. (…) Ma non poterli escludere è una posizione scientificamente inutile”.
Il punto, allora, è capire in che circostanze potremmo affermare “sono davvero gli alieni” invece che “non possiamo escludere che siano loro”. Il che ci porta a dover rispondere a una domanda precisa: come proverebbe a comunicare con l’umanità una civiltà aliena? “Se una civiltà avanzata volesse comunicare con noi, probabilmente sceglierebbe di basare la sua comunicazione su qualcosa che abbiamo in comune con loro, per esempio il fatto che viviamo nello stesso universo fisico”, ha spiegato a Gizmodo il direttore del SETI, Andrew Siemion. “Potrebbero usare le proprietà degli oggetti astrofisici, come i pulsar, i quasar o la forma della nostra galassia; sarebbe un primo passo per insegnarci il loro linguaggio”.
Alla base della matematica ci sono forme logiche elementari che potremmo avere in comune anche con forme di vita aliene, o che comunque gli alieni potrebbero essere in grado di comprendere.
In alternativa, si potrebbe pensare di lasciar perdere la comunicazione simbolica e lavorare con la logica matematica. Sempre su Gizmodo si legge come, attraverso la matematica, potremmo comunicare virtualmente qualunque cosa si possa quantificare: “Per esempio, potremmo spiegare la successione di Fibonacci partendo dai numeri più semplici, sommandoli tra di loro e ripetendo il processo più e più volte”.
Il concetto, quindi, è che alla base della matematica ci sono forme logiche elementari che potremmo avere in comune anche con forme di vita aliene, o che comunque gli alieni potrebbero essere in grado di comprendere. Secondo Spencer Greenberg, autore del sito Ask a Mathematician, si può confidare nel fatto che le civiltà aliene abbiano sviluppato il concetto di numero intero. In questo caso, per farci capire non dovremmo fare altro che inviare impulsi in codice binario, in cui una frequenza bassa rappresenta lo zero e una frequenza alta rappresenta il numero uno. Se decidessimo che i nostri numeri vengono comunicati in 16 bit, il numero 1 sarà rappresentato da una successione di 16 zeri, il numero 2 da una successione di 15 zeri e un 1 e così via. Per un alieno dovrebbe essere ovvio capire che queste successioni sono inviate da un’entità intelligente. E, di conseguenza, anche per loro dovrebbe essere abbastanza facile inviare a noi messaggi sufficientemente intelligibili da consentirci di capire, come minimo, che sono frutto di un’intelligenza e non emissioni naturali.
Ma se è così facile, perché non è ancora successo? Pensare che gli alieni non esistano proprio, d’altra parte, sfida ogni logica. Di più: là fuori dovrebbe essere pieno zeppo di forme di vita extraterrestri dotate di un’intelligenza assimilabile in qualche maniera alla nostra. Anche lasciando perdere i cento miliardi di galassie dell’universo – che ospitano ognuno centinaia di miliardi di stelle (e quindi trilioni di pianeti) – e prendendo in considerazione solo la Via Lattea, il numero totale di pianeti si aggira comunque attorno ai 100 miliardi. Di questi, circa un miliardo è potenzialmente abitabile: se anche solo lo 0,1% ospitasse un’altra forma di vita, arriveremmo comunque a un milione di pianeti abitati da alieni. E invece, per ora, il nulla: forse non saremo soli nell’universo, ma di sicuro ci sentiamo tali. Il cuore del paradosso di Fermi, d’altra parte, è proprio questo: è praticamente ovvio che esistano altre forme di vita (come diceva la canzone), eppure non riusciamo a entrarvi in contatto.
Il protocollo per rapire gli alieni
Se per caso, però, dovessimo riuscire a scovare un pianeta abitato, l’esercito USA si è premurato di stilare, attorno al 1950, un protocollo da seguire per fare incontri ravvicinati del terzo tipo (almeno così sostiene l’autore di romanzi a tema extraterrestre Robert Freitas). Come ci dovremmo comportare, allora? Prima di tutto, una volta individuato il pianeta abitato, dovremmo iniziare un programma di sorveglianza a distanza, in modo da raccogliere quanti più dati e informazioni possibili. Il secondo passo, prevede di fare delle brevissime incursioni nascoste nelle vicinanze del pianeta, per dare un’occhiata alle armi, ai veicoli e in generale capire come procedono le cose da quelle parti.
Una volta raccolte le informazioni principali, arriverebbe il momento di scendere di nascosto sul pianeta, allo scopo di capire se si tratta di alieni ostili o pacifici. Nel primo caso, dovremmo capire di che tipo di ostilità stiamo parlando; se invece andasse tutto per il verso giusto, l’obiettivo sarebbe a quel punto di piantare un campo base in qualche zona molto isolata e raccogliere a scopo di studio esemplari di piante e di alieni (vale la pena notare che la prima segnalazione di rapimento da parte degli alieni risale al 1957, sette anni dopo la compilazione di questo protocollo; è possibile, quindi, che questo report abbia influenzato i primi casi di “rapimenti alieni”).
Compiuti i test, sarebbe il momento di rendere nota la nostra presenza, con un approccio cauto e da una posizione sicura, mostrandosi a un’ampia fetta di popolazione e dando prova di non avere intenzioni ostili. Infine, se tutto procedesse per il verso giusto, sarebbe il momento di entrare fisicamente in contatto, provando a comunicare faccia a faccia.
Perché si dà sempre per scontato che gli alieni debbano essere intelligenti? Dopo tutto, l’uomo è l’unica specie che abita la Terra abbastanza intelligente da sapere che ci sono altri pianeti oltre a quello su cui si muove.
Tutto è pronto, insomma: abbiamo radiotelescopi puntati ovunque, abbiamo un’idea di come potremmo iniziare a comunicare e anche un protocollo da seguire se fossimo noi ad avvistare un pianeta abitato. Non resta che riuscire a trovarli, questi alieni. Ma quando succederà? Al di là degli esperti che ritengono che, semplicemente, l’incontro non avvenga perché l’universo (o anche solo la galassia) sia troppo vasto per incontrare un’altra forma di vita, ci sono altre questioni da valutare: per esempio, perché si dà sempre per scontato che gli alieni debbano essere intelligenti? Dopo tutto, l’uomo è l’unica specie che abita la Terra abbastanza intelligente da sapere che ci sono altri pianeti oltre a quello su cui si muove; come si può escludere che le eventuali forme di vita extraterrestri non siano affatto intelligenti (e quindi molto più difficili da scovare)?
Una teoria simile a questa afferma che, se mai noi dovessimo scoprire una forma di vita aliena, questa sarebbe quasi sicuramente primitiva. Ciò avverrebbe per due ragioni: prima di tutto, nessuno dei pochi pianeti potenzialmente abitabili (per esempio o Marte o Europa, il satellite di Giove) con cui possiamo entrare in contatto visivo mostra segni di una civiltà avanzata (altrimenti li avremmo già notati); inoltre, se si prende come misura il tempo durante il quale l’uomo ha mantenuto uno stato primitivo o quasi rispetto al tempo da civilizzato, si capisce come ci sono maggiori possibilità di entrare in contatto con una specie arretrata. D’altra parte, è opinione comune che sarà la civiltà più evoluta a scoprire quella meno evoluta (per ovvie ragioni, che peraltro ci fanno augurare che sia l’uomo a scoprire gli alieni e non viceversa).
Gli alieni c’erano, ma sono morti
Intelligenti o meno, evoluti o primitivi, vicini o lontani; l’importante è riuscire prima o poi a dare risposta alla più celebre delle domande: siamo soli nell’universo? Secondo una ricerca della Australian Nation University, la risposta è positiva. Sì, siamo soli; perché gli alieni sono tutti morti, si sono estinti. L’ipotesi suona decisamente assurda, ma ha invece basi ben più solide di quel che si potrebbe credere: nei primi miliardi di anni di formazione, infatti, l’ambiente del pianeta è estremamente instabile; le fluttuazioni della temperatura e della composizione atmosferica sono così forti da rendere quasi impossibile che una forma di vita si evolva.
È possibile che solo sulla Terra si siano verificate le condizioni necessarie che consentono alle forme di vita intelligente di evolvere e prosperare?
“Probabilmente l’universo è pieno di pianeti abitabili”, ha spiegato il coordinatore dello studio Aditya Chopra. “Ma le forme di vita nate da poco sono troppo fragili: noi crediamo che semplicemente non siano riuscite a sopravvivere. (…) Se su un pianeta sorge la vita, raramente si evolve abbastanza rapidamente da regolare l’effetto serra – che a sua volta influenza l’albedo (la quantità di luce riflessa da un corpo celeste e che ne condiziona il clima) – in modo da mantenere la temperatura superficiale compatibile con quella dell’acqua allo stato liquido e quindi con l’abitabilità. (…) L’estinzione è una condizione di default sui pianeti rocciosi e umidi”. Secondo i ricercatori, 4 miliardi di anni fa sia Venere che Marte erano abitabili e avrebbero quindi potuto ospitare delle forme di vita. Qualche miliardo di anni dopo la loro formazione, però, i due pianeti potrebbero aver ucciso tutti i loro abitanti a causa del cambiamento nelle temperature.
E allora, perché noi siamo sopravvissuti? Semplicemente perché, come dimostrato da alcuni studi, la vita sulla Terra si è evoluta in maniera sufficientemente rapida: “In alcuni rarissimi casi, come sul nostro pianeta, l’evoluzione da organismi monocellulari a pluricellulari a forme di vita complesse non produce una quantità tale di gas serra da causare il riscaldamento del pianeta e l’evaporazione di tutta l’acqua”, scrive Campbell Simpson. “È questo unico, piccolo particolare ad aver reso possibile la vita sulla Terra”. Questo, ovviamente, dando per scontato che la teoria del “collo di bottiglia di Gaia” dei ricercatori australiani sia corretta.
Se così fosse, si ritornerebbe in un certo senso al punto di partenza del paradosso di Fermi: è possibile che solo sulla Terra si siano verificate le condizioni necessarie che consentono alle forme di vita intelligente di evolvere e prosperare? Le ricerche degli alieni non si fermeranno probabilmente mai e i nostri occhi continueranno a essere puntati verso altri pianeti e altre galassie. Ma a questo punto, non si può nemmeno escludere la più drastica delle ipotesi: l’uomo è davvero solo nella vasta immensità dell’universo.