S ono passati più di due anni da quando il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker apostrofò il premier ungherese Viktor Orbán “dittatore” al summit di Riga nel 2015. Una boutade goliardica, forse dovuta ad un momento di ebbrezza (evento non infrequente), ma che tradì la percezione del leader magiaro negli ambienti UE. Da allora la situazione è ulteriormente deteriorata. Da quando il parlamento ungherese ha approvato la legge anti-CEU a marzo, spingendo il Parlamento Europeo a chiedere l’applicazione dell’articolo 7 contro l’Ungheria (possibile sospensione del diritto di voto nel Consiglio), la relazione tra il paese magiaro e l’Unione sembra essere giunta ad un punto di non ritorno. Il governo di Fidesz, il partito guidato da Orbán, è diventato più esplicito nella sua sfida a Bruxelles negli ultimi due anni, prodigandosi in iniziative atte ad istigare la rabbia popolare contro l’Unione. Il casus belli, ovvero la crisi dei rifugiati, ha permesso al premier magiaro di indebolire l’opposizione interna e candidarsi a capo della fazione ribelle che mira a scatenare una contro-rivoluzione nel Vecchio Continente.
Iniziative radicali come la costruzione di una doppia barriera al confine con la Serbia ed il referendum contro la ricollocazione dei rifugiati (quorum non raggiunto), sono coagulate in un provvedimento ancora più controverso. Il governo di Budapest ha varato una campagna governativa contro Bruxelles, inviando questionari a risposta chiusa a tutti i cittadini, dove si chiede “come l’Ungheria dovrebbe relazionarsi con l’UE”. Se a prima vista la campagna Let’s stop Brussels potrebbe sembrare un esercizio di democrazia diretta, la formulazione capziosa delle domande rende l’operazione molto ambigua. Sulla falsariga del referendum, per esempio, alla domanda riguardo la crisi dei rifugiati – “Cosa dovrebbe fare l’Ungheria, se, nonostante la recente serie di attacchi terroristici in Europa, Bruxelles vuole obbligarci a far entrare immigrati clandestini?” – è possibile rispondere solo “gli immigrati clandestini dovrebbero essere detenuti finché le autorità non abbiano deliberato sul loro caso”, oppure “dovremmo lasciare gli immigrati clandestini circolare liberamente per l’Ungheria”. Il modello di “democrazia illiberale”, lanciato da Orbán nel 2014, che consisterebbe nella creazione di una workfare-society dove diritti civili e politici individuali sarebbero subordinati all’interesse nazionale e quelli socio-economici accordati soltanto ai segmenti produttivi, è incompatibile con la permanenza nell’UE. Oggi è Orbán stesso a dichiarare che un voto a lui equivale ad un voto contro l’Unione Europea.
Un dato spesso trascurato dalla tonante retorica del condottiero mitteleuropeo rende più imprevedibile l’esito dell’insurrezione di Budapest. Stando ai dati della Commissione, non solo l’Ungheria rientra nella lista dei beneficiari netti, come tutti i paesi entrati nell’Unione nel nuovo millennio, ma è addirittura il paese che più ha guadagnato in percentuale dall’adesione al club dei 28. Nel periodo 2006-2014 gli ungheresi hanno ricevuto da Bruxelles il 5.64% in più rispetto a quello che hanno pagato. Si tratta di quasi sei miliardi di euro, quando, per esempio, la Germania, ha un rapporto negativo che supera i 15 miliardi (-0.52%). L’economia magiara è massicciamente sostenuta dall’iniezione di fondi strutturali UE, sebbene il primo ministro abbia in più occasioni imputato la crescita, stimata al 3.5% per il 2017, alle misure non ortodosse implementate dal proprio governo. È la cosiddetta Orbanomics, che comporta un imponente interventismo statale.
Il modello di ‘democrazia illiberale’, lanciato da Orbán nel 2014, è incompatibile con la permanenza nell’UE.
Benché sappia di non potersi permettere di perdere queste sovvenzioni, Orbán è anche consapevole di avere il coltello dalla parte del manico, come spiega l’esperto Balász Jarábik. Specialmente dopo la Brexit, l’Unione non si può permettere di perdere un altro membro; sarebbe la conferma che l’uscita della Gran Bretagna avrebbe rappresentato l’inizio della fine, il primo tassello del domino il cui esito finale sarebbe lo smantellamento dell’architettura sovranazionale sognata da Altiero Spinelli e compagni. Quindi, Orbán e Fidesz – tuttora membro del PPE, il partito maggioritario nel Parlamento Europeo – tirano la corda e spingono l’asticella sempre più in basso, continuando ad attaccare società civile, in primis le ONG, e libertà di stampa. L’intenzione è quella di testare la resistenza di Bruxelles, strappando sempre più concessioni alle istituzioni UE, costrette ad assistere impotenti al degradarsi della condizione democratica del paese. Il caso dell’ampliamento dell’impianto nucleare di Paks, inizialmente bloccato dalla Commissione, che ha infine accordato il nulla osta a denti stretti, è un esempio dell’intelligente strategia che il paese post-socialista sta giocando. L’affaire Paks, inoltre, è una partita centrale anche per un altro aspetto. L’ampliamento è finanziato dalla Russia di Vladimir Putin, ostracizzata dall’establishment europeo, ma non da Budapest.
Da navigato politico qual è (vive di politica dal 1988), Orbán sa bene come fare la voce grossa sia un’opzione efficace nel breve termine, ma a lungo andare può nutrire un’opposizione progressivamente più intransigente e meno disposta a garantirgli immunità. Per questo motivo, cerca di rafforzare i legami con la Russia.
Il Cremlino non sembra avere oggi la capacità di costituire un effettivo polo alternativo come ai tempi della Guerra Fredda. Dal punto di vista ideologico, i russi accettano il sistema capitalista senza riserve e si limitano, in maniera simile ai partiti euroscettici, a criticare il sistema multiculturale e liberale creato e difeso da quello che fino al 1989 si proclamava il “mondo libero”. Tramite i vari richiami a valori tradizionali, nazionalisti e sovranisti, la sfida è oggi sul piano identitario più che sul piano economico o geopolitico, dove Mosca può puntare al massimo a costituire un (improbabile) fronte anti-egemonico con le altre potenze emergenti. Come nei Balcani Occidentali in lenta marcia verso l’adesione all’UE, anche negli stati già membri il Cremlino prova a giocare da sabotatore, utilizzando il soft power della politica culturale e di quella energetica.
La dipendenza energetica dalla Russia è uno dei talloni d’Achille dell’Unione. Se per l’UE a 28 tale dipendenza si aggira attorno al 30% degli importi di petrolio grezzo e gas naturale, per gli stati entrati nel nuovo millennio le cifre sono ancora più importanti: Bulgaria, Estonia, Lettonia e Finlandia importano il 100% di gas naturale da Mosca. In tutti i nuovi membri la percentuale è superiore al 50% e l’Ungheria, al 57%, non fa eccezione. La politica energetica rappresenta una spada di Damocle che Mosca continua a far oscillare sulla testa dei propri ex-satelliti per influenzare le politiche UE a proprio favore. Quale miglior alleato, quindi di quel Viktor Orbán che, abbandonata la retorica europeista del primo mandato (1998-2002), si è trasformato nell’indefesso contestatore di ogni provvedimento sovranazionale?
La politica energetica è una spada di Damocle che Mosca continua a far oscillare sulla testa dei propri ex-satelliti per influenzare le politiche UE a proprio favore.
Tuttavia, orbanismo e putinismo non sono ideologie affini e difficilmente possono essere definite ideologie tout court. L’asse Budapest-Mosca è un’amicizia strumentale nel nome della Realpolitik. La posta in gioco ruota soprattutto sulle sanzioni imposte da USA e UE in reazione all’annessione della Crimea e all’invasione del Donbass da parte dei russi, di cui Orbán ha sempre chiesto la cancellazione. Putin nel 2015 visitò Budapest, in quella che fu la prima visita del leader russo ad un paese UE dopo il varo delle sue politiche imperialiste, come nota Politico.
Uno dei paradossi di questa storia improbabile è come Orbán, che sull’anticomunismo ha basato tutta la propria carriera politica a partire dal famoso debutto nel 1989, abbia attenuato nei suoi discorsi la prima onnipresente condanna del totalitarismo rosso come repressiva dominazione straniera. Nelle parole dello storico Ferenc Laszlo, “non puoi essere anti-comunista nella stessa maniera, quando sei pro-Russia”. Non stupisce, dunque, che nonostante nel paese la rivoluzione anti-sovietica del ’56 sia una memoria collettiva ancora vivida e costituisca uno dei principali miti fondativi dell’Ungheria post-comunista, il Ministro degli Esteri, fedelissimo del premier, abbia recentemente sostenuto come il passato ungherese non dia alcun motivo per temere la Russia. Il tentativo del governo di riscrivere la storia recente in chiave revisionista per creare “memorie future” è sotto osservazione accademica già a partire dal secondo mandato, conquistato da Fidesz nel 2010.
Fare (o fingere di fare) la quinta colonna del Cremlino dentro l’Unione è una mossa che lascia trasparire le ambizioni di grandeur del premier magiaro, già leader del Gruppo Visegrád, a cui la natia Ungheria sta sempre più stretta. Come confermano le innumerevoli diatribe su valori e principi cardine, oltre ad i vari niet di Budapest alle politiche comuni, per Orbán l’Unione Europea è un mezzo, non un fine. Quale sia lo scopo ultimo, tuttavia, sembra ancora impossibile da prevedere.