A lle otto e venti del mattino di mercoledì 31 maggio un’autocisterna rossa per l’acqua viene fermata all’imbocco della cosiddetta “green zone” di Kabul, un’area blindatissima dove si trovano diverse ambasciate – l’americana, la tedesca, la nostra –, il quartier generale della Nato, rimesse e caserme che ospitano soldati americani. Appena fermato e probabilmente sviato dal suo vero obiettivo, uno dei luoghi inviolabili della zona verde, l’autista si fa esplodere facendo saltare l’autobotte che contiene 1500 chili di esplosivo e che, nel creare un cratere vasto e profondo, uccide un centinaio di persone e ne ferisce circa 500, alcune delle quali in maniera molto grave. Si tratta del più sanguinoso attentato che la capitale abbia conosciuto dal 2001 a oggi, da che sono iniziati gli ormai 16 anni di guerra infinita seguiti ai dieci di conflitto con i sovietici dal 1979 all’89 e ai sette di guerra interna, sfociati nella nascita dell’emirato di mullah Omar nel settembre del 1996.
Il fatto singolare è che l’attentato non viene rivendicato. Con una rapidità inusuale i talebani, la guerriglia in turbante che combatte Nato e forze governative, ne prendono le distanze. Appena due giorni dopo, venerdì, la rabbia dei parenti delle vittime sfocia in una manifestazione spontanea poi sfruttata a fini politici da alcuni gruppi di opposizione al governo. Le forze di sicurezza – sottoposte a una forte tensione perché nel corteo spuntano armi – reagiscono con violenza esagerata sparando sulla folla quando il corteo cerca di raggiungere il palazzo presidenziale. Gli slogan, inizialmente contro lo Stato islamico e i talebani sono ormai indirizzati contro il governo bicefalo di unità nazionale e soprattutto contro il suo presidente Ashraf Ghani, un pashtun di origini aristocratiche con un passato in America, buoni studi e conoscenze alle spalle. Nel pomeriggio, alcuni ex membri del suo gabinetto, esautorati nei mesi scorsi dal presidente o dimessisi perché in rotta con lui, prendono in mano le redini della protesta che sembra tingersi non solo del colore della fazione politica del Jamiat e islami, un vecchio partito islamista ora al governo, ma anche della componente etnica che lo ha sempre connotato: i tagichi del Nord dell’Afghanistan, rappresentati al potere da Abdullah Abdullah, una sorta di premier con larghi poteri figlio di un’alchimia politica a suo tempo inventata dagli americani per risolvere lo stallo seguito alle ultime presidenziali del 2014.
Dissidi interni
I tagichi sono una forza politica e non solo etnica: una rete di famiglie e poteri molto forte nelle regioni del Nord e che divenne famosa all’epoca di Ahmad Shah Massud, il leone del Panjshir, l’islamista che parlava francese e piaceva agli occidentali e persino ai russi. Un contropotere che, all’epoca dell’emirato talebano, consentiva di mantenere aperto il fronte contro i talebani, che, armati dal Pakistan, negli anni Novanta avevano “liberato” l’Afghanistan dalle lotte intestine tra mujahedin. Ma anche gli stessi che stavano cercando di affermare su tutto il Paese un potere pashtun: un’etnia storicamente maggioritaria, dotata di una forte struttura tribale di alleanze che ha sempre espresso monarchi e presidenti salvo andare in crisi durante la guerra con i sovietici quando molti pashtun afgani erano emigrati fuori dal paese. Fu dai campi profughi del Pakistan, dove nacquero come funghi madrase armate, che i talebani organizzarono, sostenuti da Islamabad, la rivincita. Non solo dell’islam rigorista ma dell’orgoglio pashtun.
Cosa c’è dietro questa nuova stagione del terrore in un quadro confuso dal fatto che gli attentati non vengono rivendicati e anzi sono prontamente condannati dai talebani?
Se torniamo a quello che è stato definito il “week end” nero di Kabul, scopriamo che nel venerdì di protesta era stato ucciso, tra gli altri, anche Salem Izdyar, figlio di un senatore della Repubblica famoso per aver strappato un manifesto di Karzai in un luogo istituzionale. Ma il padre di Salem, Mohammad Alam Izdyar, non è un senatore qualsiasi. È il rappresentante al senato – la Meshrano Jirga – della Provincia del Panjshir, a maggioranza tagica e bacino elettorale fieramente anti-talebano di Abdullah. Dunque al funerale per le vittime della polizia sono presenti anche le alte cariche dello Stato: c’è appunto Abdullah Abdullah e il ministro degli Esteri Salahuddin Rabbani, personaggio politico di una famiglia che ha fondato il Jamiat e che sta chiedendo la testa del consigliere per la sicurezza Ghani Haneef Atmar, un ex di Karzai. La funzione religiosa viene però interrotta da tre esplosioni: tre kamikaze si fanno esplodere gettando nel panico un migliaio di persone. I morti sono una ventina. Ancora una volta nessuna rivendicazione. Cosa c’è dietro questa nuova stagione del terrore in un quadro ancor più confuso dal fatto che gli attentati non vengono rivendicati e anzi sono stati prontamente condannati dai talebani? Chi ha interesse a precipitare nell’abisso un Paese già fortemente destabilizzato con un governo sul punto di collassare? Cosa c’era nel mirino del week end nero?
Che pista seguire?
Ci sono alcune piste parallele che vale la pena di considerare per fare un po’ di luce nel tunnel. Mosse e contromosse che investono parecchi protagonisti, alcuni dei quali ben visibili, altri nascosti. E in tutto ciò c’è anche una parte che ci riguarda: come occidentali e come italiani, partner di una coalizione che ha in Afghanistan 13.000 soldati e che sta adesso pensando se non sia il caso di mandare più “stivali sul terreno”, come si dice in gergo. Ma cominciamo dagli attentati.
L’intelligence afgana non ha dubbi: a colpire sono stati i talebani o meglio la cosiddetta Rete Haqqani, un segmento della guerriglia che ha salde radici nelle aree tribali del Pakistan, al confine con l’Afghanistan, e che ha da sempre ottimi rapporti coi sauditi e col famigerato servizio segreto di Islamabad; l’Inter-Services Intelligence (ISI), un apparato che risponde prima di tutto a se stesso e che ha una spiccata tendenza a coltivare rapporti con gruppi radicali. L’ISI agisce spesso per suo conto ma sempre in nome della sicurezza nazionale e soprattutto di una teoria politico militare – la “profondità strategica” – secondo la quale, in caso di guerra con l’India – il nemico numero uno – Islamabad deve controllare Kabul: il suo governo o i suoi oppositori. Gli Haqqani hanno spesso lavorato per l’ISI ma ora fanno anche parte del vertice del movimento talebano, un tempo retto da mullah Omar e oggi da mullah Akhundzada, un teologo forte sul piano ideologico ma debole su quello militare. Tanto che, dopo aver smentito un coinvolgimento del movimento nella strage del 31 maggio, Akhundzada ha affidato al sito internet della guerriglia un nuovo messaggio dove si smentiva anche il coinvolgimento degli Haqqani sostenendo che le bombe non sono che il manifesto di dissidi interni al governo.
L’intelligence afgana non ha dubbi: a colpire sono stati i talebani o meglio la cosiddetta Rete Haqqani, un segmento della guerriglia che ha salde radici nelle aree tribali del Pakistan.
Può darsi non solo che i talebani coprano gli Haqqani ma addirittura che l’attentato sia stato smentito proprio perché, non avendo raggiunto la green zone, il kamikaze – magari un giovane inesperto e impaurito – si è fatto saltare non in una zona dove circolano solo militari e diplomatici ma nel cuore della città che lavora, uccidendo praticamente solo civili innocenti. Errore grave, se gli autori sono loro, per un movimento che da anni sta cercando di farsi accettare come un fronte di liberazione nazionale attento alla vita della gente comune. Quanto all’ipotesi dell’intelligence afgana, se è vero che non è del tutto infondata, è anche vero che sembra sfruttare la pista più facile da percorrere, quella dell’odio verso il Pakistan, da sempre percepito come sentina di ogni nefandezza e contro cui è facile raccogliere il consenso dell’uomo della strada di cui il governo ha un enorme bisogno. Cattivi afgani con cattivi pachistani contro afgani buoni: un vecchio refrain, con qualche buon motivo alle spalle, ma che spesso è anche la scappatoia per nascondere altre verità.
Dissidi interni
Se i talebani avessero ragione le stragi potrebbero avere dunque anche un altro autore. Interno all’Afghanistan, secondo la guerriglia. Anzi al governo. L’esplosivo, dice l’intelligence afgana, lo avrebbe fornito l’ISI agli Haqqani, ma anche l’esercito afgano dispone dello stesso tipo di materiale. Il tentativo di manipolare la rabbia popolare ha peraltro messo in rilievo un dissidio nel governo che data in realtà dalla sua costituzione nel 2014 quando si decise che una sorta di bilancia etnico-politica nell’assegnazione dei vari ruoli di potere sarebbe stata una garanzia di stabilità. Venne creato un governo di unità nazionale (NUG) con un presidente e un capo dell’esecutivo: Ghani e Abdullah. Ma i due hanno iniziato a litigare da subito per il controllo di miniere, terreni, vie di comunicazione, commesse e accordi con imprenditori cinesi o indiani, businessman che fanno affari con o senza la guerra. La spartizione dei poteri è passata per la scelta dei funzionari e il controllo dei governatori, anch’essi di nomina politica, e spesso attraverso stalli e schermaglie che duravano mesi.
L’esplosivo, dice l’intelligence afgana, lo avrebbe fornito l’ISI agli Haqqani, ma anche l’esercito afgano dispone dello stesso tipo di materiale.
La corruzione intanto è riemersa rampante mentre lentamente finivano i soldi che la comunità internazionale ha inniettato per oltre dieci anni in Afghanistan. Quando c’erano 130.000 soldati e altrettanti contractor il denaro correva a fiumi nel business della guerra e l’afghanis, una moneta ignota nell’Olimpo delle divise, è stata per anni al top delle valute dell’area, rafforzata da un ingresso esterno di valuta che costituiva almeno l’80% del Pil nazionale. Adesso però le cose vanno male e i 400.000 giovani che ogni anno si affacciano su un mercato del lavoro sempre più asfittico non sono però diminuiti. La gente comincia a lamentarsi e sta anche trovando abbastanza inutile, se non dannosa, la presenza dei militari della Nato a guardia di basi da cui non escono quasi mai per dare una mano agli afgani, limitandosi a “istruirli”. Al massimo bombardano. Ne è una prova la bomba da 11 tonnellate GBU-43/B, chiamata la “madre di tutte le bombe” (non nucleari, perlomeno), che gli americani hanno sganciato il 13 aprile nell’Est del Paese. Solo un modo per testare nuove armi, ha detto l’ex presidente Karzai. Dunque il governo è debole e litigioso e una spallata potrebbe farlo cadere. Da qui a ordire una strage però ce ne corre. Certo la confusione politica non aiuta e aumenta sospetti e sfiducia. Ed è una confusione che non c’è solo a Kabul.
Visto dagli Usa
A Washington non sanno bene che pesci pigliare. Qualche mese fa, sulla spinta di un nuovo fervore bellicista che si deve principalmente a John Nicholson, comandante delle truppe Usa e Nato nel Paese, il Pentagono ha sottoposto al Presidente un piano – che per il governo afgano significherebbe anche l’arrivo di denaro fresco – che prevede da tre a cinquemila nuovi soldati americani da dispiegare nel Paese. Obiettivo dichiarato: debellare Stato Islamico e talebani e sostenere il barcollante governo democratico di Ashraf Ghani e Abdullah (costituitosi grazie all’intervento dell’allora segretario di Stato John Kerry). Obiettivo nascosto (ma nemmeno tanto): conservare il controllo della grande base militare di Bagram (la madre di tutte le basi a 40 chilometri da Kabul e con una pista di 3 chilometri per ogni tipo di velivolo) e il controllo su un’altra manciata di basi aeree afgane. In chiave anti iraniana e anti russa. Un concetto di profondità strategica caro dunque anche agli americani. E qui si inseriscono altri attori.
Iniziando dai confinanti, del Pakistan abbiamo già detto e dell’Iran possiamo immaginare: il presidente Trump ha appena assicurato ai sauditi pieno appoggio contro lo strapotere iraniano e ha cambiato la strategia di Obama verso Teheran con cui, dopo anni di gelo, gli Usa avevano rotto il ghiaccio. L’Iran ha dunque interesse a mantenere contatti sia col governo sia con i talebani per esser pronto a far dell’Afghanistan un inferno in caso di conflitto con gli Usa o i Saud. Quanto ai russi, la presenza americana nel Paese è un tallone d’Achille sul confine meridionale. Farebbero di tutto per mettere in difficoltà Nato e americani. Infine c’è Donald Trump, un presidente molto ondivago – in campagna elettorale si è detto favorevole al disimpegno – e a totale digiuno di politica estera. Trump però deve essersi fatto convincere dagli uomini in divisa che America first vuol anche dire supremazia militare (e vendita di armi). Ma resta indeciso. Tra i favorevoli a rafforzare l’apparato militare in Afghanistan in chiave anti iraniana e anti russa – due attori che nello scacchiere mediorientale (Iraq e Siria) stanno facendo la parte del leone – c’è il Pentagono, la lobby delle armi e anche il suo consigliere per la sicurezza generale McMaster.
La catena degli avvenimenti metterebbe in luce uno scontro, interno ai talebani, al governo afgano ma anche agli Stati Uniti, tra chi crede ancora nella guerra e chi sarebbe disposto a trattare la pace.
C’è però chi rema contro: Stephen Bannon ad esempio, il responsabile delle strategie presidenziali che non è affatto convinto che all’America serva aumentare la presenza del proprio contingente, cosa che anche Barnett Rubin, un autorevole analista di sinistra, ritiene controproducente. Dunque Trump è indeciso. Nel recente summit della Nato a Bruxelles, dove ci si aspettava che avrebbe annunciato il “surge” chiedendo un aumento delle truppe anche agli alleati – come nelle settimane precedenti aveva fatto il segretario generale della Nato durante un tour nei Paesi partner – Trump si è limitato a esigere dollari. E il piano è rimasto nel cassetto. Le stragi del week end nero potrebbero fargli cambiare idea e dare fiato ai vari Nicholson e McMaster?
C’è però anche un’altra pista, come ha suggerito il New York Times qualche giorno fa: e cioè che le bombe fossero indirizzate al cosiddetto “Kabul Process”, inaugurato il 6 giugno a Kabul e nel quale – sorprendentemente – Ghani ha annunciato di essere disposto a tendere ancora una volta il ramoscello d’ulivo ai talebani, consentendo loro di aprire un ufficio a Kabul e di trasformarsi da guerriglia armata in soggetto politico sostanzialmente istituzionale. Ma lo ha fatto con un ultimatum, definendo questa occasione la loro “ultima chance”, chance per altro subito respinta al mittente. L’ipotesi dell’attentato contro un’apertura negoziale ha dei precedenti perché, anche in passato, attentati non rivendicati si sono verificati proprio mentre si cercava di apparecchiare un tavolo negoziale (del resto lo stesso 6 giugno un’esplosione senza padrini a Herat ha ucciso sette persone).
La catena degli avvenimenti metterebbe dunque in luce uno scontro, interno ai talebani, al governo afgano ma anche agli Stati Uniti, al Pakistan, all’Iran o alla Russia (cui potremmo aggiungere India e Cina), tra chi vuol trattare e chi no, tra irriducibili e moderati, tra chi crede ancora nella guerra e chi sarebbe disposto a trattare ormai la pace. Tra chi preferisce un Paese debole e instabile e dunque più manipolabile, e chi vorrebbe farlo uscire dalle secche di una guerra infinita. Tra queste due anime si dipana il nuovo capitolo dell’ennesima puntata del Grande Gioco, la guerra mai dichiarata – fatta di spie, colpi di mano, battaglie, bugie, propaganda e sotterfugi – che nell’Ottocento aveva opposto la Gran Bretagna e lo Zar. Posta in palio: la conquista e il controllo dell’Asia centrale di cui, l’Afghanistan, resta il cuore.
In copertina: Attentato alla Grande Moschea di Herat del 6 giugno 2017.