O
ggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca”, scrisse Gesualdo Bufalino nella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie.
A venticinque anni di distanza dalla strage di Capaci l’esigenza, tuttora primaria, di sapere ciò che è stato sotto la superficie per non desistere sta nelle parole di Bufalino, quanto in quelle di Tina Montinaro che si rivolge al marito Antonio, caposcorta del giudice Giovanni Falcone, caduto in servizio il 23 maggio 1992 al chilometro 5 della A29:
…Beh, vuoi sapere cosa è successo in questi ultimi venticinque anni? È cambiato tanto, non c’è dubbio; dopo quella tragica data, la coscienza dei palermitani sembra essersi risvegliata. Ci volevano le due stragi per portare migliaia di persone giù in strada? Non lo so, non riesco a capirlo, ma è un dato di fatto: da quelle date si è cominciata a sviluppare una genuina coscienza antimafia che però ahimè, ti devo confessare, credo che negli ultimi anni si sia persa. (…) A mio avviso la mafia c’è ancora ed è presente più che mai; certo, è cambiata, camaleonticamente si è adattata alle circostanze, ha compreso che il terrore non paga e si è inabissata nuovamente nei luoghi più profondi della società.
Piero Melati, viceredattore capo de Il Venerdì di Repubblica diretto da Attilio Giordano, era nella redazione del quotidiano palermitano L’Ora, quando la mafia, che fin dal tardo Ottocento non è una degenerazione patologica della società, ma è strettamente integrata e intellegibile solo nel quadro delle relazioni sviluppate con il potere politico ed economico, contribuiva a incidere la biografia della nazione italiana. Con Giorni di mafia (Laterza, 114 pagine, 14 euro) l’autore asseconda forse l’unica impostazione possibile, teorizzata dallo storico Isaia Sales, per comprendere l’assoluta originalità del metodo criminale mafioso:
Le mafie non sono isolabili in una dimensione periferica della nazione. Esse hanno rappresentato un potente strumento di stabilizzazione e perpetuazione degli equilibri politici, economici e sociali del nostro paese. La storia delle mafie è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello Stato italiano con un territorio che avrebbe avuto bisogno di liberarsi delle forme violente prestatuali e produrre una rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate delle mafie.
Dal 1950 a oggi, le cento date scelte dal giornalista per ricostruire e scandagliare l’evoluzione di un fenomeno delle classi dirigenti, la mafia, assomigliano alla solitudine dei cento giorni di Carlo Alberto dalla Chiesa a Villa Whitaker, sede della Prefettura di Palermo, sintetizzabili in questo botta e risposta tra il Generale e Giorgio Bocca:
Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?
“Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”.
Sappiamo che i poteri restarono a Roma, e che come in ogni delitto eccellente furono trafugati i documenti nei quali Dalla Chiesa custodiva nomi, cognomi e indirizzi della Sicilia criminale di allora. Questa è tutta una storia di atti mancati, mancanti e di uomini cerniera come Vito Guarrasi, ben ritratto nel testo. Melati raccoglie così l’invito di Sciascia a guardarsi dentro. La chiave del successo su scala mondiale e dunque della longevità del modello unico e unitario delle mafie, declinato poi dalle singole organizzazioni criminali, risiede nell’incessante ricerca reciproca tra mafia e potere politico.
“Il dialogo Stato-Mafia, con gli alti e i bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa nostra non è un anti Stato, ma piuttosto un’organizzazione parallela”, asseriva Giovanni Falcone. E tutt’oggi non sappiamo dove fosse o sia ubicato il Califfato delle “menti raffinatissime”, che deliberarono per esempio di allargare il fronte del terrore, colpendo anche inermi cittadini e l’arte come negli attentati dal maggio 1993 di via dei Georgofili a Firenze, a Milano in via Palestro, le bombe romane a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro.
Le carceri sono state luogo di formazione embrionale della criminalità organizzata. Dall’Ottocento il potere innanzitutto camorristico si è alimentato mediante la gestione delle carceri. Il legislatore ha atteso l’eccidio di Capaci per l’introduzione del carcere duro col 41 bis, così temuto dai mafiosi. Raffaele Cutolo ha trascorso quasi tutta la vita in carcere, eppure da dietro le sbarre riuscì ad arruolare, a plasmare la camorra.
Oggi definiamo quella italiana come la legislazione più avanzata non solo in Europa sul fronte del contrasto alle mafie, ma occorre ricordare che solo il 13 settembre 1982, sull’onda emotiva dell’omicidio Dalla Chiesa, il parlamento approvò la legge n. 646, nota come “legge Rognoni – La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso (articolo 416 bis) e la confisca dei beni alle organizzazioni criminali.
Nel giugno del 1983 Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo che rivoluzionò i principi investigativi e giudiziari dell’antimafia, un mese prima di essere ucciso dall’esplosione di un’autobomba, spiegò a Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre, quanto fossero collegate le indagini sulla strage di Portella della Ginestra e quelle sui delitti politici Reina, Mattarella e dello stesso La Torre.
Necessariamente Melati inizia a riannodare i fili dalla prima strage dell’Italia repubblicana e dalla morte di Salvatore Giuliano. In quel primo maggio 1947 di sangue s’istituzionalizzò la violenza del terrorismo agrario mafioso (dal giugno 1945 al 1966 in Sicilia furono uccisi 44 sindacalisti avversi al potere del latifondo parassitario), che poi nelle sue mutazioni è rimasto sempre funzionale nel concorrere agli equilibri di potere della Nazione.
Entriamo nel laboratorio non solo palermitano. Nel 1956 Salvo Lima prese possesso della cabina di controllo dell’Assessorato ai lavori pubblici, facendone la base di un sistema di alleanze dirimente per il potere democristiano. Due anni dopo, eletto sindaco, gli subentrò Vito Ciancimino. Il documento n. 737 della Legione dei Carabinieri, a firma del piemontese Carlo Alberto dalla Chiesa, offriva uno spaccato di come è stato edificato un impero economico, fondato sulla speculazione edilizia e sulla spartizione della spesa pubblica, che è diventato un pilastro decisivo del sistema di potere mafioso da Palermo, risalendo fino a Roma. Da quella relazione, e da molti altri rapporti inascoltati, emerge la funzione decisiva fra gli altri dell’onorevole democristiano e poi ministro Gioia. La stampa aveva battezzato quell’agglomerato affaristico VA-LI-GIO, fra il costruttore Vassallo, ingombrante quanto il conte Cassina, e appunto la politica.
Fecero sparire dagli archivi comunali i testi degli interventi e le mozioni del consigliere d’opposizione Pio La Torre. Nel breviario si cita il Libro bianco del 17 novembre 1970, firmato tra gli altri da Reina, Nicoletti e inviato a Roma. “Rivolta contro Gioia nella Dc, si chiede alla Direzione di sciogliere gli organi locali”, titolò L’Ora. Piersanti Mattarella, che nel 1971 aveva assunto la carica delicata di assessore regionale al bilancio, ricoperta poi per sette anni, era elemento proattivo nell’intento di affermare una nuova linea politica meridionalistica. Conosciamo la sorte di Reina, Mattarella e La Torre.
Nella narrazione di Melati c’è dunque la mafia agricola, quella della città cementificata e poi il narcotraffico. Quest’ultima mafia dell’accumulazione capitalistica è resa sempre più potente e arrogante dai ricavi della droga. Negli anni Settanta e Ottanta la mafia si è impossessata nell’indifferenza generale del monopolio del traffico delle sostanze stupefacenti, avendo scoperto quanto i suoi profitti si sarebbero potuti moltiplicare. E i capitali si gestiscono andando a cercare mercati dove poterli impiegare. La mafia vuole i mercati più ricchi. Ce lo spiegò già nel 1989 Paolo Borsellino in una lezione memorabile, tenuta a Bassano del Grappa, nella quale sottolineava agli studenti quanto fosse ineluttabile la migrazione e il radicamento delle mafie al nord ai fini del riciclaggio. Evolve il concetto fondamentale di controllo mafioso del territorio, che da presenza militare diviene anche presidio economico finanziario.
Nella stessa occasione Borsellino ammonì sul crollo dell’intensità della repressione, dopo aver conseguito la vittoria del Maxi Processo contro Cosa Nostra: 2665 anni di carcere inflitti ricostruendo la storia recente dell’organizzazione, la sua struttura verticistica, il traffico di droga, le guerre consumatesi. È stato l’inizio della fine per i corleonesi. Nell’estate del 1988 era già cominciata l’opera di delegittimazione e progressivo isolamento di Giovanni Falcone, nonché la sostanziale disarticolazione del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto. La prima statua di Falcone è stata eretta a Quantico nell’accademia del Fbi, nel 1994, mentre per avere una lapide commemorativa al Ministero della Giustizia si dovette aspettare fino al 2002, e a Capaci anche di più.
Seguire il denaro per insidiare il vero potere delle mafie è stato il principale insegnamento del pool antimafia di Rocco Chinnici, il cosiddetto metodo Falcone, in quanto il riciclaggio del denaro costituisce l’essenza della criminalità organizzata. “Perché nel denaro che lei accumula così misteriosamente, bisogna cercare le ragioni dei delitti sui quali sto indagando», dice ne Il giorno della civetta il Capitano Bellodi sciasciano, uomo delle Istituzioni, simbolo dei valori dell’Italia resistenziale. La famiglia Montalbano, scritto tra il 1939 e il 1940, dato alle stampe solo nel 1973 da Pasquino Crupi e oggi meritoriamente ripubblicato dalla casa editrice Periferia, va considerata la prima opera letteraria organica sulla nascita e lo sviluppo della mafia in Italia. Ma è l’opera di Sciascia a squarciare il velo di indifferenza e di sottovalutazione della mafia da parte del mondo letterario. È importante in questo senso la riflessione di Melati, allargata al cinema, Rosi e poi poco altro:
Dal canto suo il cinema italiano, dopo gli anni ruggenti, ha rinunciato alla sfida. Facendo il paio con la letteratura nazionale, che pure la mafia aveva in casa al pari di registi e sceneggiatori nostrani. Siamo rimasti al palo del Giorno della civetta. Se l’assenza degli intellettuali è pesata nei dibattiti pubblici sulla mafia, e se la pigrizia degli storici ha relegato la materia a poche righe di accademia, l’assenza di scrittori e narratori ha impedito che un filone potenzialmente epico si sgravasse da eccessi di specialismo per essere ricollocato in ambiti più alti.