Q uando va bene, sono bianchi. Quando va male, sono bianchissimi. Gli eroi asiatici dell’immaginario cinematografico nordamericano sono quasi esclusivamente attori non asiatici. Quella dello sbiancamento, definita dai media statunitensi “whitewashing”, è una pratica sclerotizzata nel modo di fare film dell’industria occidentale. Del resto, per un’industria che fino a tempi non sospetti colorava di marrone i volti dei propri protagonisti (bianchi), o simulava denti all’infuori e occhi a mandorla, sarebbe quasi da ritenersi un passo avanti verso la maturità.
La verità, però, è che si pensava fosse un’ombra del passato recente: di fronte a polemiche estese come quella di #OscarsSoWhite, che praticamente implorava Hollywood dicendo “c’è tutta una fetta di pubblico che andrebbe più spesso al cinema se si sentisse adeguatamente rappresentata” si credeva che una soluzione fosse alle porte. E invece, quando meno ce lo aspettavamo, il biennio 2015-2017 ci ha regalato una Tilda Swinton nei panni di un saggio tibetano (Doctor Strange), una Emma Stone per un quarto cinese e per un quarto hawaiiana (Sotto il cielo delle Hawaii), e un’adolescente giapponese impiantata in un corpo cibernetico a forma di Scarlett Johansson (Ghost in the Shell).
Una curiosità: due dei tre film citati sono stati flop imbarazzanti. C’è chi, come la Paramount, ha imputato i pessimi risultati di Ghost in the Shell alla polemica. Come è indubbio che questo tipo di pubblicità negativa abbia influenzato le recensioni, è altrettanto evidente che, con Scarlett Johansson nel ruolo di un personaggio storicamente noto come Motoko Kusanagi, Paramount aveva fatto una scelta di campo: tra il rischio di rinunciare a una superstar e il rischio di una reazione negativa di un pubblico sempre più sensibile a questo tipo di casting, la produzione aveva optato per il secondo.
È ovvio che, perché la Cina decida di partecipare attivamente a un film straniero, debba sentirsi rappresentata. Ma come viene rappresentata la Cina? Per il momento, non al meglio.
Che i media privilegino il discorso sbiancamento, come la dichiarazione della Paramount sembra implicitamente lamentare, non è il punto. Se proprio, il punto è che i media non parlano abbastanza di un problema sempre più diffuso, forse perché apparentemente più sottile e inoffensivo, forse perché sorretto da un puro impianto capitalistico. Sì, perché la nostra storia non è una storia di “whitewashing”. È una storia di attori cinesi nel limbo del blockbuster nordamericano. Per capire di cosa stiamo parlando, occorre recarsi in un luogo che sarebbe bene imparare a identificare come la vera egemonia decisionale dietro i progetti multimilionari di Hollywood: la Cina contemporanea.
Mercati futuri
Osservare il mercato cinematografico cinese oggi è come osservare l’istante prima dell’esplosione di una supernova: nuovi cinema spuntano ogni giorno in ogni città; solo l’anno scorso, la media era di ventisette nuovi schermi al giorno. Un numero enorme, sintomo di un’industria in vorticosa crescita, specie nelle regioni costiere e si prevede che, entro il 2019, la Cina sarà il primo mercato cinematografico del mondo, prima degli Stati Uniti.
L’ottica è tuttora altamente protezionista: limitatissima è la fetta del mercato dedicata ai film “stranieri” (è una boccata d’aria fresca sapere che esiste almeno un mercato internazionale che può permettersi di considerare “Hollywood” lo “straniero”). Quest’anno nuove negoziazioni hanno alzato il tetto a trentotto film stranieri all’anno, da trentaquattro che erano. Per fare un confronto basta usare un Paese come l’Italia, che ha meno di un decimo degli schermi della Cina, e che l’anno scorso ha proiettato 355 film stranieri, su un totale di 554 film. Trentotto film stranieri in tutta la Cina è una quota estremamente ridotta. E una simile quota significa liste d’attesa, come nel caso di Star Wars: il risveglio della forza, che ha dovuto aspettare diversi mesi per essere distribuito nei cinema cinesi. Questa è una prima considerazione. Se si considera, poi, il rigido regime di censura atto a promuovere stabilità politica e armonia sociale, si capisce come il livello di competizione per aggiudicarsi il mercato cinese sia altissimo e spietato.
Per essere distribuite, oltre a realizzare film non censurabili, le produzioni nordamericane sono costrette a tentare due vie: innanzitutto, la via delle storie di respiro “internazionale”, con molta azione e poco dialogo. Film d’animazione, film per famiglie. Messaggi brevi, precisi, che non si perdano nelle paludi della traduzione e che lascino spazio a un linguaggio visivo globale. Se non capisco Tony Stark che fa la sua battutina sagace, capirò comunque Iron Man che annienta il nemico con un raggio laser, perché sono le immagini a dirmelo, non le parole. La seconda via è quella della co-produzione. Che può manifestarsi sotto forma di pubblicità occulta di loghi cinesi (come nello sfortunato caso di Transformers), o di scene girate apposta per il mercato locale: la versione cinese di Iron Man 3 aveva un cameo di Fan Bingbing – la star più famosa di tutta la Cina, giurata a Cannes quest’anno. Non era una scena particolarmente aggraziata e, tuttavia, aveva garantito a Iron Man 3 il contributo della DMG, compagnia cinese. Assicurarsi la co-produzione in Cina esenta un blockbuster dallo status di film straniero e gli conferma un posto nei cinema cinesi.
I personaggi interpretati dalle attrici cinesi sono definiti ‘vasi di fiori’: dei bellissimi oggetti di scena messi a decorazione di un film occidentale.
È ovvio che, perché la Cina decida di partecipare attivamente a un film straniero, debba sentirsi rappresentata. Ma come viene rappresentata la Cina? Per il momento, non al meglio. Fan Bingbing, cui è stato accordato il relativo onore di un altro blockbuster, è riapparsa in X-Men: Giorni di un futuro passato. Le spettava, letteralmente, una battuta (“Tempo scaduto!”), ma nonostante il palese sgarbo degli sceneggiatori, il suo personaggio avrebbe comunque avuto delle scene d’azione e una rilevanza superiore a quelle concesse a due sue connazionali appena pochi anni più tardi, in due film sopra i centocinquanta milioni di dollari. Independence Day – Rigenerazione e Kong: Skull Island contano infatti entrambe un’attrice cinese relegata a poche azioni e qualche primo piano.
Angelababy (all’anagrafe Yang Ying) è un’attrice e cantante originaria di Shanghai che aveva lavorato con un cast occidentale già un paio di anni fa, per il secondo capitolo di Hitman. In Independence Day è Rain Lao: più battute di Fan Bingbing in X-Men, ma meno battute di suo “padre” nel film, l’attore di Singapore Chin Han. La prerogativa di Rain Lao è che le vengono dedicati molti primi piani, solitamente contrappuntati dalla voce di un uomo che ripete di essersene innamorato, e prova a flirtarci. Anziché la vittima indifesa, però, Rain Lao è la “cool girl”, la pilota capace, che scansa le avances ma in fondo ha un cuore d’oro. Il suo contributo è inoffensivo, così come lo sono le sue parole.
Sulle orme di Angelababy, anche Jing Tian è diventata un caso nazionale quando è stata ingaggiata da Zhang Yimou per fare da coprotagonista a Matt Damon in The Great Wall. In Kong, è una biologa di poche parole cui non viene assegnato praticamente nulla di suo se non una scena post-titoli di coda. Oltre alla loro nazionalità, queste due attrici hanno in comune il trattamento loro riservato all’interno dei due film. Gli stessi primi piani sul profilo migliore, la stessa personalità, lo stesso tipo di battute: funzionali e assolutamente dimenticabili. Se i film venissero rigirati, inquadratura per inquadratura, senza Angelababy, senza Fan Bingbing, o senza Jing Tian, nessuno se ne accorgerebbe.
Il pubblico cinese, che non è una massa inerte disposta a sganciare yuan in cambio di biglietti del cinema e accettare ogni affronto, se n’è accorto. Definisce questi personaggi “vasi di fiori”, dei bellissimi oggetti di scena messi a decorazione di un film occidentale. Così, anche le attrici stesse riconoscono candidamente il proprio ruolo. Interrogata da TIME sul suo ruolo in X-Men, Fan Bingbing ha risposto: “La ragione per cui sono stata scritturata è semplice. [Hollywood] ha tenuto in considerazione il mercato cinese, ha deciso di cercare volti asiatici, e ha trovato me […] Tra dieci anni, sono sicura che sarò io l’eroina di X-Men.” Era una battuta, ma era lucidamente profetica sul potere d’acquisto della Cina, e sull’orientamento dell’industria nordamericana.
Se si tratta di una scoria del capitalismo accettata tacitamente da tutti, il messaggio che manda è complesso e preoccupante.
Non che i personaggi “bianchi” dei blockbuster citati siano mai stati scritti da Henrik Ibsen, sia chiaro – ma è solo per questo motivo se non si nota un dislivello mostruoso tra i ruoli scritti per i caratteristi “di casa” e quelli pensati per le loro co-star cinesi. Se, però, nonostante questo se ne accorgono comunque tutti – se ne accorge il pubblico cinese, se ne accorge il pubblico americano, se ne accorgono le attrici e se ne accorgono le case di produzione – se, insomma, si tratta di una scoria del capitalismo accettata tacitamente da tutti, il messaggio che manda è complesso e preoccupante.
Questo perché è una specie di monito inconscio: “Noi, americani, abbiamo bisogno dei vostri soldi, ed è quindi chiaro che il vostro contributo si rifletterà in una partecipazione superficiale. Nell’ennesima pubblicità occulta. Potremmo togliere queste copie carbone dal film, e i nostri protagonisti raggiungerebbero comunque il loro obiettivo.” Un messaggio che, proiettato a un pubblico occidentale, fa in fretta a ridursi nel terrificante “Tanto i cinesi sono tutti uguali”.
Il sonno della ragione genera introiti
Non serve scomodare Jackie Chan per capire che di attori asiatici talentuosi sono pieni gli Stati Uniti. Pensate a Byung-hun Lee, attore di straordinario successo in Corea del Sud, trapiantato nel sistema-Hollywood per una serie di film d’azione, che ha ricevuto un ruolo perfettamente calibrato e creativo come Billy Rocks, il precisissimo e inesorabile assassino taciturno del remake dei Magnifici Sette. Pensate a Bae Doo-na, nata come attrice feticcio del regista sudcoreano Bong Joon-ho, trasportata negli Stati Uniti come attrice feticcio delle sorelle Wachowski in Cloud Atlas e Sense 8 per interpretare personaggi “forti” e “complessi”. Pensate a Ken Watanabe in Inception.
Sono tutti personaggi che formano un tassello costitutivo del più grande mosaico del film. Anche quando non sono essenziali allo svolgimento della trama, lasciano comunque un proprio segno. In breve, ci importa di loro. Se il film venisse rigirato, inquadratura per inquadratura, senza di loro, il pubblico se ne accorgerebbe. I vasi di fiori, invece, rimangono vasi di fiori.
Certo, in tutti gli esempi presentati, si tratta di professionisti (due attori sudcoreani, uno giapponese) navigati in contesti slegati dalla pressione economica di un accordo commerciale. Il personaggio è lì innanzitutto perché serve alla storia, non perché serve a tener fede a una partnership. Ma allora è chiaro che il problema non sono gli attori. E non sono neanche gli accordi commerciali, che esistono da quando esiste l’industria cinematografica. Il problema sono i ruoli.
Una parentesi sull’approssimazione
Storicamente, Hollywood fatica a integrare i propri attori dell’Estremo Oriente con credibilità o disinvoltura. Oltre agli stereotipi e agli sbiancamenti di cui si è parlato all’inizio, la storia dello studio system avventuroso ed “esotico” è lastricata di attori coreani che masticano male il giapponese, di attori giapponesi che faticano col coreano, e che il mandarino e il cantonese neppure lo parlano.
Ora che gli Stati Uniti cercano attivamente l’attenzione di ottocento milioni di spettatori cinesi, il problema della mancanza di accuratezza non può che amplificarsi.
Finché si trattava di film destinati al mercato interno, si può capire come si potesse sorvolare su errori simili, ma ora che gli Stati Uniti cercano attivamente l’attenzione di ottocento milioni di spettatori cinesi, il problema non può che amplificarsi, e la mancanza di accuratezza non può più essere ritenuta soltanto un dettaglio. Basti pensare a un esempio più “indipendente” di quelli di cui sopra: Arrival, l’ultimo progetto fantascientifico di Denis Villeneuve. In una scena, Louise – il personaggio di Amy Adams – si rivolge a un generale cinese in mandarino. Ciò che gli dice è la chiave del film, la frase che porterà alla risoluzione della crisi in corso. Il destino dell’umanità dipende letteralmente da quelle parole. Arrival è un film sulla linguistica, e tuttavia il cinese mandarino di lei è incomprensibile, mentre quello di lui (Tzi Ma, attore di Hong Kong) è un garbuglio privo di struttura. Qualcosa che in italiano suonerebbe come: “ultime parole di moglie: fidarsi di saggezza e coraggio”. Come ce ne accorgeremmo noi, e ne saremmo divertiti o turbati, così ha diritto di accorgersene un pubblico cinese in costante crescita.
L’approssimazione di Arrival, per la verità, è stata estesa all’intero marketing asiatico del film, se si pensa che la prima locandina del film arrivata a Hong Kong rappresentava lo skyline della città, con un grattacielo di Shanghai nel mezzo. Alle proteste degli abitanti del territorio a statuto speciale, i grafici di Arrival sono corsi ai ripari: hanno cancellato tutta Hong Kong e hanno lasciato soltanto il profilo di Shanghai.
“Integrazione organica”
Dopo essersi vista negare una posizione prioritaria nei cinema cinesi con Star Wars: Il risveglio della forza, la Disney ha fatto un paio di conti. In Cina, il primo episodio dei nuovi Guerre Stellari era andato “male” (in senso relativo, ma 124 milioni dalla Cina sui 2 miliardi internazionali sono tutto sommato un risultato deludente). Del resto, c’era da aspettarselo: il film originale è uscito nel 1977, un anno dopo la morte di Mao, in un periodo in cui non solo il mercato cinematografico cinese era chiuso alle proposte statunitensi, ma aveva appena cominciato a riprendersi da un quinquennio di paralisi interna. La seconda trilogia degli anni ’00 diretta da George Lucas non è mai uscita nei cinema e Una nuova speranza, il film del 1977, è stato proiettato per la prima volta solo un paio di anni fa. Il pubblico non ha investito in decenni su decenni di nostalgia, giocattoli e videogiochi. In Cina, insomma, Guerre Stellari è una saga fantascientifica come un’altra.
La Disney ha cercato di porre rimedio a questo impedimento culturale con Rogue One, il Guerre Stellari più recente, ingaggiando non uno, ma ben due attori riconoscibili in Cina: Donnie Yen – attore di Hong Kong nonché erede spirituale di Bruce Lee in fatto di arti marziali – e Jiang Wen, attore cinese che ha una storia anche come regista plurinominato a Venezia e Cannes. Sfortunatamente, in Cina Rogue One ha raccolto la metà degli incassi de Il risveglio della forza. A livello di integrazione, tuttavia, ha fatto meglio di molti altri film.
Nel film, la coppia Yen/Jiang è parte del gruppo di ribelli protagonisti. Le due personalità sono differenziate, i ruoli hanno un peso. Il loro legame di amicizia (e, forse, amore) è evidente. Non vengono esplorati a fondo, e questo perché nessun personaggio in Rogue One ha una grande profondità (conosciamo a menadito il loro passato e il loro futuro, ma non sappiamo mai chi siano). L’integrazione organica, in questo caso, funziona, ed è perfettamente aderente alla storia. Anche perché la saga di Guerre Stellari ha la fortuna di un impianto già predisposto a questo tipo di integrazione: un universo in cui specie diverse e creature con accenti diversi interagiscono costantemente. In maniera maldestra, a volte (Jar Jar Binks, uno stereotipo di giamaicano della trilogia del Duemila, è stato disconosciuto più o meno da tutti) ma con una tendenza a imparare dai propri errori.
La soluzione non è univoca ma richiede sempre lo stesso narrativo: una curiosità nel dare a tutti i personaggi uno stesso livello di vita interiore.
Le soluzioni tuttavia non giacciono solamente in galassie lontane lontane. Pacific Rim, blockbuster del 2013 diretto da Guillermo del Toro, una storia di umani contro mostri, ha incassato in Cina tre volte l’incasso americano. Pacific Rim, è vero, aveva il suo personalissimo vaso di fiori: una squadra di tre gemelli a rappresentare la brigata cinese pronta a combattere i mostri. Tuttavia, il film prendeva un genere nato in Giappone e sempre più popolare in tutta l’Asia, un genere visto molto poco negli Stati Uniti, e con tutta la cura del mondo lo riadattava alla narrazione nordamericana, offrendo spazio anche ai suoi personaggi asiatici: la scena della distruzione di Tokyo – protagonista una giovane attrice giapponese – è una delle sequenze più d’impatto viste in un film sopra i 150 milioni di dollari. Del Toro teneva a fare “un film in cui tutto il mondo salva il mondo”. I classici blockbuster dell’estate “sembrano essere basati sempre su una sola razza, su un solo credo, e su una sola nazione che salva il mondo […] [In Pacific Rim] tutti – indipendentemente da colore della pelle e religione – salvano il mondo”.
In Cina, Pacific Rim è andato così bene che non è un caso sia in corso di realizzazione un seguito, prodotto in larga parte da finanziamenti cinesi. Tra i protagonisti? Jing Tian, la sfortunata statuina di Kong. La soluzione, quindi, non è univoca ma richiede sempre lo stesso sforzo: uno sforzo narrativo, una curiosità nel dare a tutti i personaggi uno stesso livello di vita interiore. Che non smettano mai di parlare o che dicano solamente “tempo scaduto” non ha importanza, a contare è quello che scelgono di dire e di non dire come personaggi – non come sintomi di una stretta di mano lucrativa. Solo il momento in cui non penseremo più “Ah, che esempio positivo di personaggio imposto da un accordo con la Cina” ma penseremo, invece, “Ah, che personaggio” sarà il momento in cui l’industria cinematografica statunitense avrà imparato a fare a meno dei vasi di fiori.