E cco un incipit che somiglia tanto alle avvertenze poste sulle confezioni di medicinali: “Voglio raccontarvi un’altra avventura, ancora più strana”. Siamo messi subito in guardia da Witold Gombrowicz (1904-1969), perché le sue storie sono davvero strane, risultano inafferrabili perché inesauribili e dunque, in qualche modo, confinano con l’incomprensibile. Lo sono tutte e lo è soprattutto Cosmo, il suo ultimo romanzo (1965), compendio esemplare delle ossessioni che accompagnarono lo scrittore polacco per tutta la vita. Arrivò in Italia, tradotto da Riccardo Landau, nella collana I Narratori Feltrinelli nel 1966 e ora grazie a il Saggiatore ritorna in una nuova versione a opera di Vera Verdiani, in un volume a cura di Francesco M. Cataluccio, massimo esperto italiano di cose gombrowicziane.
Un titolo che rafforza la direzione editoriale intrapresa da il Saggiatore: privilegiare una letteratura senza compromessi, sempre sul ciglio dell’abisso, a iniziare dalla pubblicazione di un autore come Thomas Ligotti. Voci perturbanti, quale è anche quella di Gombrowicz, magistrale in Cosmo, dove lo stile tocca la perfezione, la lingua si fa inimitabile ancor più che in passato e la trama procede tanto fragile quanto complessa nella rete che tesse. A Gombrowicz basta dedicarsi a un ritratto, come quella della signora Pallina, per raccontare un mondo, un cosmo…: “Era come il soffitto: dietro l’orecchio aveva una specie di bolla incistata e lì cominciava il bosco, i capelli, all’inizio due o tre anelli capelluti, e poi il bosco, grigio-nero, folto, attorcigliato, ritorto, ora ricciuto e ora a ciuffi, dopo di che scendeva giù liscio, la pelle della nuca appariva improvvisamente bianca e delicata e subito dopo un graffio, come fatto da un’unghia, e un arrossamento, una specie di macchia e, sopra la spalla, al bordo della camicetta, iniziava l’avvizzimento, un logorio che si perdeva sotto la camicetta per poi proseguire, sotto la camicetta, verso altre escrescenze e avventure…”.
In Cosmo, Gombrowicz pasticcia più che mai con le parole, le manipola, le solletica, ne circuisce il senso, in qualche modo mette in chiaro(scuro) un onanismo di fondo, che qui viene celebrato e teorizzato. Sarà più evidente nella seconda parte, quando tutti tranne la governante Katasia andranno in gita e la lingua si farà pirotecnica grazie al padre di Lena, l’albergatore, marito di Pallina, nonché principe delle pratiche individuali: Leon. È lui a far esplodere il termine berg, parola magica, inventata, parola tuttofare, come puffare, parola che poi condividerà e sostanzierà con Witold, bembergheggiando a tutta forza, a più riprese, in un susseguirsi di fuochi d’artificio:
Ah, ah, ah, lei mi ha proprio imberbergato, ma guarda un po’ che acqua cheta! Chi l’avrebbe immaginato? Un vero bemberghista. Un bergumberg! Avanti! Forza! Caricaaa! Caricamberg! […] Acqua cheta! Il signorino vorrebbe bergarsi mia figlia! Con un po’ di quattumberg e di cascamortumberg lei, carino mio, vorrebbe imbembergarlesi sotto le sottane in pieno matrimonio, come berganzo numero uno! Tirirì! Tirirì!
Gombrowicz affidò a Cosmo l’intero suo repertorio: la gioventù, che sempre ammirò/adorò, condizione considerata inferiore perché non matura, ma che possiede la potenza creatrice del divenire; la reciproca (de)formazione che gli uomini producono nei confronti del prossimo, perché noi siamo fatti dagli altri e noi siamo i loro artefici, cosicché la realtà è formata da nostre creazioni; la sessualità deviata nel feticcio, nell’erotismo dell’oggetto e/o del dettaglio e, infine, il corto circuito che questi temi avviano una volta posti in relazione con la complicità di una lingua che sorge dal testo stesso.
Quello dei protagonisti di Cosmo è il tentativo di estrarre senso dal caos stabilendo relazioni del tutto arbitrarie tra indizi disparati e fantasiosi: una sequenza di oggetti conficcati, di corpi penzolanti (prima il passero, poi uno stecco), di macchie sui muri che sorgono dal nulla e prendono forma di frecce indicanti un percorso da seguire, sorta di illusione pareidolitica. Si procede soprattutto per associazioni, che ossessionano Witold: a iniziare da quella tra due bocche: quella oscena di Katasia e quella pura della giovane figlia dei due albergatori (Lena).
Caotica è anche questa premessa, parte del caos che pervade Cosmo. Proviamo a mettere ordine partendo dalla trama. Ci sono due giovani, il narratore Witold e Fuks, che si incrociano mentre sono alla ricerca di una locanda dove trascorrere un po’ di tempo lontano da casa e dai conflitti con i genitori (Witold) e dall’ufficio e dalle angherie del capo (Fuks). Witold si sta affidando al caso, Fuks ha l’indirizzo di “una villetta economica perché fuori mano, quasi in aperta campagna”. Fa molto caldo, lungo tutto il romanzo il caldo si fa sentire, si percepisce, molti passaggi emanano calura, afa, quasi ne trasudano le pagine stesse, alterando i sensi:
Caldo. Alcune erbe più rigogliose delle altre ondeggianti al vento, uno scarabeo avanzante sul terreno, ai piedi del muro sterco d’uccelli – caldo, ma un caldo diverso e diverso anche l’odore di piscio… percepii come in un sogno un senso di lontananza, eravamo lontani quasi avessimo girovagato per mesi … in un luogo distante mille miglia alla fine del mondo…
Cercano un po’ d’ombra e tra arbusti, rami, foglie, insetti ronzanti e quant’altro, si imbattono in un passero impiccato, appeso a un filo di ferro. I due si interrogano, fabbricano le prime congetture. Un cartello indica che nei paraggi si affittano camere. Di comune accordo decidono di cercare lì alloggio. Vengono ricevuti da Katasia, quarantenne segnata da una malformazione del labbro superiore, cicatrice che lo estroflette e lo rende simile a una lunga vescica: carne impudica. Per entrambi è la seconda epifania in breve tempo.
Inizia il lavorio incessante dell’investigazione. Concatenando oggetti e parti del corpo, accadimenti e immagini, gesti e intenzioni, avviano un’investigazione in stile poliziesco. Esemplare l’ispezione notturna nella cameretta di Katasia tanto attendibile quanto parodica. Tutto in Cosmo è indizio e ricerca, lo è anche berg: interrogazione sulla natura della parola. Dell’indagine, la strana coppia ne esegue le tecniche, inseguendo le proprie congetture. I fatti (il corpo del/i delitto/i di una serie di strangolamenti/impiccagioni) sono alibi che il reale fornisce loro per avventurarsi nell’affastellamento di segni di cui è fatto il mondo, “questo continuo… addensarsi e disfarsi… di elementi”.
Non sono tanto dei detective (un po’ a turno nei panni di Holmes e Watson) quanto dei boy scout smarriti nella selva oscura dell’esistenza, che scrutano tracce eterogenee, cercando di trovare una qualsiasi retta via. Sarà per questo che Andrzej Żuławski nella sua trasposizione del romanzo, per più versi impossibile da filmare, modificò l’inizio facendo recitare a Witold l’incipit dell’Inferno. Romanzo che risultò anche impossibile da concludere per Gombrowicz. Fu provvidenziale sua moglie, Rita Labrousse. Un giorno l’avvertì che per pranzo c’era pollo in fricassea e Witold (l’autore) suggerì a Witold (il personaggio tornato a casa dai suoi) la battuta conclusiva: “E oggi a pranzo, pollo lesso”.