N elle analisi politiche del rapporto tra “noi” (mondo europeo, euro-atlantico, occidentale o come si preferisce chiamarlo) e gli “altri”, i giornalisti e gli studiosi più scrupolosi tengono a mettere in guardia dagli eccessi di egocentrismo. Non tutto ci riguarda, non tutto dipende da noi. Esistono conflitti interni agli “altri”, linee di forza che attraversano i campi e richiedono conoscenze e capacità di analisi più dettagliate e articolate. Il rischio di semplificazioni, e quindi sofisticazioni, è sempre alto quando si cerca di ridurre la complessità del mondo globalizzato a uno schema bipolare.
Tuttavia ciò che rischia di essere insoddisfacente sul piano dell’analisi geopolitica, a livello culturale – o almeno a un certo livello della coscienza culturale dei popoli e degli individui, nei desideri e nelle paure della gente comune – conserva un significato e un valore importante. La polarità noi-altri continua a funzionare e a definire profondamente la comprensione del mondo in cui viviamo. Il fatto che i “noi” e i “loro” abbiano dei contenuti per lo più fantasmatici, non impedisce che siano attivi ed effettivi nei rapporti reali che esistono a monte e a valle della politica e delle istituzioni.
Dai tempi delle grandi scoperte geografiche fino al razzismo e all’esotismo otto-novecenteschi, o al turismo neo-coloniale dei giorni nostri, è uno stesso atteggiamento mentale che si dispiega nel tempo e nello spazio, e uno stesso narcisismo culturale: “l’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo: nella convinzione che il mondo è uno”, come ha scritto Tzvetan Todorov, che della storia dell’alterità, del rapporto tra “noi e gli altri”, è stato in anni recenti uno dei teorici più profondi.
Già nel modo in cui definiamo gli “altri” è iscritto un pregiudizio etnocentrico. Fino a non molto tempo fa erano “terzo mondo”, e nello slittamento di significato era chiaro il senso dell’espressione. Quella che nasceva infatti come definizione di una possibile terza via rispetto ai grandi sistemi del novecento – capitalismo e comunismo – era finita a denotare gli ultimi arrivati, i perdenti: l’ordinale è passato dal piano orizzontale a quello verticale della subordinazione gerarchica. Poi gli “altri” sono diventati “paesi in via di sviluppo”, sottintendendo il fatto che comunque prima o poi dovranno arrivare anche loro qui, dove siamo noi, sulla stessa grande e accogliente “via” (una cosa che – a modo suo – pensava anche Marx e che ha guidato gli sforzi di modernizzazione delle élite occidentalizzate alla guida dei paesi usciti dal colonialismo).
La polarità noi-altri continua a definire profondamente la comprensione del mondo in cui viviamo.
Ciò che un sociologo tedesco, Wolfgang Sachs, ha chiamato “mimetismo socio-industriale” è espresso in maniera assai trasparente nell’ammirazione e nella soggezione che nutrono nei nostri confronti tutte quelle persone che scelgono volontariamente (non perché costrette da guerre e persecuzioni) di emigrare in Europa. La povertà è il fattore determinante di questa soggezione, in quanto il denaro e la ricchezza economica sono diventati, in modo apparentemente irreversibile, il primo metro di valore in pressoché ogni parte del mondo, secondo un modo di procedere che è stato sanzionato dalla Banca Mondiale con la definizione in termini puramente monetari della povertà stessa: la famosa soglia di reddito di uno o due dollari al giorno (ne parla molto bene Majid Rahnema – studioso, diplomatico, già amico di Ivan Illich e suo collega a Cuernavaca – in un libro di qualche anno fa intitolato La potenza dei poveri).
Una grossa quota di migrazioni (diciamo pure la maggior parte) è dunque, oggi come in passato, determinata da fattori economici. Persone disposte ad abbandonare tutto e correre dei rischi enormi per il desiderio di emergere economicamente, di viaggiare in quella che appare ai loro occhi, spesso molto istintivamente e confusamente, come una prima classe planetaria. Non si intende qui sottovalutare il numero dei profughi e rifugiati politici drammaticamente cresciuto negli ultimi anni, né l’uso strumentale che viene sempre più spesso fatto (a destra come a sinistra) della distinzione tra rifugiati e migranti economici, un discrimine atto a tacitare le escandescenze xenofobe dell’elettore medio promettendo accoglienza al povero e inoffensivo 5% di profughi veri, e zero tolleranza per la restante massa criminogena di predoni intenzionati a rubarci casa e lavoro. Anche tenendo per buoni quei numeri, non servirà a nulla assecondare la paura dell’invasione se non comprendiamo a fondo il doppio legame che unisce la volontà di sbarcare in Europa per ragioni di promozione socio-economica e la opposta volontà di impedirlo alzando muri e barriere (ovvero la paura del declassamento).
È sempre più difficile incontrare tra gli “altri” – anche nei luoghi dove imperversa la violenza militare – giovani che non nutrano un forte desiderio mimetico di essere come “noi”, che non sognino di assurgere un giorno al paradiso occidentale, il quale resta tale ai loro occhi nonostante le crisi, la disoccupazione e la xenofobia dilagante. Ora, il problema è proprio ciò che immaginano di non possedere, e come questo sia prodotto tanto da uno stato di cose reali (perché siamo oggettivamente più ricchi), quanto dall’ingenuità e dall’ignoranza “loro” di come effettivamente siamo “noi”, quanto infine – e soprattutto – dall’immagine che noi stessi proiettiamo nel mondo. Non si può certo negare che la nostra società abbia raggiunto standard di vita e traguardi notevoli, ma neppure la capacità di sovrastimare il benessere di cui godiamo da parte di chi lo guarda da lontano, e il fatto che in termini relativi, e sotto molti riguardi, siamo molto meno ricchi e realizzati e benestanti di quello che sembra. Per tacere dei problemi ecologici che questo stesso benessere produce a livello planetario.
Una grossa quota di migrazioni è, oggi come in passato, determinata da fattori economici: persone disposte ad abbandonare tutto per raggiungere quella che appare come una prima classe planetaria.
Eppure l’autorappresentazione dell’occidente è trionfalistica, luminosa, esaltante: poco o nulla trapela del disagio, dei mali sociali e individuali. Tutto è patinato, efficiente, opulento, spensierato, energico, a disposizione. Come possono gli “altri” credere alla crisi? Anche i disagi psicologici, qualora sia proprio impossibile nasconderli, diventano accattivanti: la vulnerabilità piace, crea consenso, dà spessore ai personaggi dei nostri film, diventa materia di nuovi conformismi emotivi, come ha spiegato Frank Furedi nel suo fortunato Therapy culture (Il nuovo conformismo). E in fondo come diceva Oscar Wilde: “Mio Dio, risparmiami i dolori fisici, ai dolori morali ci penso io.”
La massa più chiassosa della nostra produzione simbolica, quella spicciola, quotidiana, costituisce il 90% dell’autorappresentazione dell’occidente, e una percentuale ancora maggiore di ciò che ne passa nei paesi non occidentali. Per citare uno dei saggi che meglio ha colto lo spirito dei tempi negli ultimi anni, ovvero La nuova ragione del mondo di Pierre Dardot e Christian Laval, nel mondo occidentale, occidentalizzato e occidentalizzando, “il marketing è una spinta incessante e onnipresente al godimento ultimo tramite il semplice possesso dei segni e degli oggetti del ‘successo’. Il fatto che, per chi è costretto a contemplare questo supposto successo da una distanza socio-economica enorme, sia ancora più difficile da raggiungere che per noi, non fa altro che esacerbarne l’attrattiva.
Al di là delle emergenze umanitarie, è questo il paesaggio mentale in cui si muovono i desideri semplici di milioni di individui: mimetismo economico che va di pari passo con il mimetismo culturale (e la relativa migrazione culturale, possibile anche senza muoversi da casa, o dall’internet point sotto casa). Questo desiderio di essere come noi si duplica e riproduce anche all’interno delle società occidentali: dove non solo a chi proviene dall’altrove è riservata un’esistenza deprivata e l’inclusione resta un obiettivo tutt’altro che scontato, ma persino la povertà degli autoctoni occidentali diviene oggetto di colpa e marchio infamante di “loser”. Lo smantellamento del welfare passa anche attraverso questo genere di stigma negativo riversato su chi si macchia del peccato civile di chiedere assistenza.
I massicci processi di inurbamento scriteriato ormai da anni in corso nei paesi del sud del mondo fanno leva su simili rappresentazioni. Prima di decidere di partire per Brescia o per Londra, un ragazzo senegalese del Pays Bassari tenta la sorte con Dakar: ovvero l’avamposto dello spettacolo del successo sul suolo africano. Per uno sguardo più ravvicinato ai sentimenti di cui stiamo parlando basterebbe approcciarsi alla letteratura cosiddetta postcoloniale, per esempio molti dei romanzi africani che vengono pubblicati in Europa e dove il tema della fascinazione magnetica per l’opulenza ridente del nostro mondo è un topos di vecchia data, da quello che è – almeno nella mia limitata conoscenza – una sorta di capostipite novecentesco del genere come Un nègre à Paris dello scrittore ivoriano Bernard Dadié (del 1959) al gran numero di opere narrative più recenti che raccontano il miraggio e la disillusione. Solo molto faticosamente e in misura limitata questi libri raggiungono il disincanto affilato delle Lettere persiane di Montesquieu – sorta di prototipo del genere, dove lo sguardo straniante di un orientale serve a denunciare le storture dell’occidente – ma per l’appunto l’autore reale di quelle lettere era un francese illuminato e non un vero persiano.
Nella letteratura cosiddetta postcoloniale il tema della fascinazione magnetica per l’opulenza del nostro mondo è un topos di vecchia data.
Siamo noi, dunque, che convinciamo gli altri che il nostro, comunque vogliamo considerarlo, è di gran lunga il migliore dei mondi possibili. L’unico possibile anzi. Salvo poi disilluderli quando ci arrivano. Siamo noi che li convinciamo e che sostanzialmente ci convinciamo di questo, continuamente, anche senza accorgercene. Nel quadro concorrenziale dettato dal modello neoliberista così ben descritto dal libro di Dardot/Laval, dal pubblico al privato l’occidente si regge su una forma di (auto)motivazione e di (auto)promozione costante. Persino il pietismo dal volto umano fa parte di questo ethos diffuso: pensare a “quei poveretti” che stanno laggiù “a morire in Africa (o in Siria)”, è l’immaginario negativo e caritatevole di cui ha bisogno la nostra identità, come uno sfondo triste su cui risaltano i nostri privilegi. Fa parte del modo in cui viviamo, e in cui ci raccontiamo come viviamo, in cui ci rassicuriamo, mentre la vita derelitta che immaginiamo, se toccata con mano, è spesso molto meno miserevole di quel che pensiamo.
Ma uscire dalla celebrazione della nostra esistenza è un’operazione immaginaria che richiede sforzi significativi. Neppure il fatto che il nostro stile di vita sia insostenibile su scala mondiale sembra una motivazione sufficiente per abbassare il livello della propaganda. Come sottolinea lo scrittore indiano Amitav Ghosh nel suo ultimo bel libro La grande cecità, il cambiamento climatico e l’impensabile (recentemente pubblicato da Neri Pozza nella traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti): “L’ostilità per la climatologia di consistenti fette dell’elettorato è probabilmente dovuta anche alla consapevolezza che i negoziati sul cambiamento climatico potrebbero modificare la posizione del loro paese nella gerarchia mondiale del potere e della ricchezza”. Anche da questo punto vista la possibilità di mettere in discussione il nostro trionfo diventa letteralmente “impensabile”.
Perciò le narrazioni che si oppongono a una visione celebrativa, gli anticorpi al conformismo e all’esibizionismo culturale sono spesso sbilanciati in maniera uguale e contraria. All’utopia risponde la distopia, all’euforia la disforia, alla riuscita la disfatta, al migliore dei mondi possibili si contrappone il pensiero apocalittico. Nel cinema, nella letteratura, nella filosofia, perfino nella scienza: appena abbandoniamo i sentieri battuti del pensare positivo ci troviamo immersi in un bosco proliferante di cupi immaginari e catastrofi prossime venture. Orfani di ideologie e programmi di trasformazione politica e sociale, quando pensiamo “contro”, quando diventiamo allergici all’iperbolico ed eccedente splendore di cui tutto si ammanta, cadiamo fatalmente nell’iperbole di segno opposto, quella notturna, escatologica, distruttiva. Gli stessi toni che prima glorificano poi mortificano l’esistente. I due atteggiamenti possono convivere e sovrapporsi creando dissonanze e contraddizioni che fanno ormai parte di noi: le merci si vestono di fantasie regressive e anticonsumistiche, lo snobismo disprezza ciò di cui non può fare a meno, il catastrofismo diventa oggetto di intrattenimento.
Il terrorismo è solo una parte minuscola del conflitto che stiamo vivendo. Ogni giorno sui media è in atto una guerra simbolica e sociale combattuta sulla pelle dei migranti e i cui contendenti sono l’accoglienza e il rifiuto.
Annidato nelle paranoie xenofobe e nei timori di un’invasione che potrebbe mettere a repentaglio il nostro status, il terrorismo si appropria di entrambi i poli di questa dialettica e risulta, come insegnava René Girard, doppiamente mimetico. Da una parte i terroristi legittimano le nostre convinzioni di superiorità: se vogliono rovinare la nostra vita è perché segretamente la invidiano. Dall’altra si allineano al trend oppositivo del rifiuto totale e alle correlate aspirazioni di rinascita. Dopo avere attraversato il desiderio mimetico, lo negano fabbricando concretamente, militarmente, scenari apocalittici. È come se non potessero uscire dall’orizzonte che vogliono annientare.
Ma il terrorismo è solo una parte minuscola, per quanto scioccante, del conflitto che stiamo vivendo. Ogni giorno sui media è in atto una vera e propria guerra simbolica e sociale combattuta sulla pelle dei migranti e i cui contendenti sono l’accoglienza e il rifiuto. Sembrano esserci molte ragioni – molto pragmatiche, per quanto poco dibattute – per sostenere i benefici del fronte dell’accoglienza, ragioni di tipo economico e demografico, per non parlare della tanto auspicata pace sociale (i muri chiamano sempre violenza); così come molto comprensibili sono le paranoie xenofobe in un mondo ipercompetitivo dove l’altro è anzitutto un concorrente, e il successo e il godimento dei privilegi individuali sono ingiunzioni tanto più pressanti quanto più difficili da realizzare (secondo i nostri elevati standard) in tempi di recessione.
L’accoglienza dei migranti è una questione cruciale per il destino della nostra civiltà, e l’accoglienza dei migranti economici lo è in modo molto più decisivo di quella dei profughi di guerra (i quali peraltro tendono ad accalcarsi in altri paesi, confinanti con i loro). Abbandonare l’atteggiamento buonista ed emergenziale di chi vede tutti i migranti come in fuga da un mondo devastato e guardare in faccia alla realtà scomoda e strutturale della migrazione economica, una realtà su vasta scala che ci chiama in causa direttamente nelle nostre debolezze, responsabilità storiche e ipocrisie (non era lo stesso sogno che inseguivano i nostri bisnonni?), potrebbe servire a pensare più a fondo il fenomeno migratorio, oltre la demagogia e la paura. A pensarlo come un fatto non solo politico ed economico ma anche culturale. A ripensare la posizione del “noi” rispetto al “loro”. Infine, più banalmente, a strappare di mano agli xenofobi di ogni parte politica quella verità del 5% che funziona come un ricatto utilissimo a portare le masse trepidanti dalla parte dell’odio.