F orse tra migliaia di anni lo stesso stupore che oggi ci prende davanti alla rozza imponenza di Stonehenge o percorrendo le navate di Notre-Dame de Chartres lo vivremo di fronte al modulo lunare della missione Apollo 11. Ci meraviglieremo che popoli antichi compissero viaggi astrali usando un computer di bordo con la capacità di memoria di una calcolatrice da tasca. Forse avremo maturato una diversa concezione del tempo e dello spazio, nascerà un nuovo linguaggio scientifico e nuovi sistemi di notazione. Le parole “atomo”, “forza”, “energia” ci sembreranno metafore ingenue, o frammenti di antichissime preghiere, o poesie. Nello stesso anno in cui un uomo passeggiò per la prima volta sulla luna venne pubblicata la prima edizione de Il mulino di Amleto, di Giorgio de Santillana e Herta Von Dechend. Il sottotitolo recita “saggio sul Mito e sulla struttura del Tempo”.
Per De Santillana l’origine del pensiero scientifico coincide col momento in cui abbiamo iniziato a cercare gli invarianti impersonali che si celano dietro gli avvenimenti: questo sarebbe accaduto per la prima volta circa cinquemila anni fa, osservando le stelle e le loro ricorrenze. Ordinato secondo misura, il cosmo si sarebbe stretto allora in una necessità assoluta, di natura matematica, secondo un pensiero astronomico governato dal fato che implicava una concezione del reale per noi inconcepibile. Si tende a pensare la realtà in termini di spazio, lungo le linee tratteggiate di un piano cartesiano. Per secoli la nostra scienza si è fondata su questa consuetudine, collocando gli oggetti in una linea monotona e irredimibile, come un treno che sferraglia verso il niente.
Per il pensiero antico invece il tempo era un mulino. Ciclico e oracolare, il tempo degli antichi è il cielo astronomico, l’immagine mobile dell’eternità. Estraneo alla storia e attraversato dalle forme eterne dei corpi celesti, il cielo è il reame dell’esistenza vera, di cui la terra non è che il riflesso: lassù troveremo stelle, pianeti e le idee della matematica, ma anche alberi, mulini, fiumi, mari, archi, frecce, fuochi e animali. L’intuizione allora è che un pensiero come quello antico non poteva che esprimere in termini mitici quelle che sono verità razionali, matematiche: in una parola, scientifiche. Kay Cosroe, Amlóði-Amleto, Gilgamesh sarebbero trasmutazioni di una stessa funzione, che è quella di raccontare la meccanica di questo primordiale planetario, intrecciando racconti attorno ai suoi ingranaggi per descriverne il comportamento. Figure che combinano varietà, eternità e ricorrenza, il loro spazio è ubiquo, il loro tempo è circolare.
Che l’Amleto di Shakespeare nasconda ombre ben più antiche e terribili da tempo non è più un segreto. Il libro inizia richiamando la saga del principe danese nella scabra versione originaria di Saxo Grammaticus. Da lì, attraverso le variazioni del nome in Amblothæ, Amladhe ed Amlaighe si arriva all’islandese Amlóði il quale, secondo quanto si racconta nel medievale discorso sull’arte scaldica, “fuori dall’orlo terrestre” possedeva un crudele “mulino di scogli”, mosso da nove fanciulle: per questo una delle kenning – le avviluppate metafore della lirica norrena – per significare il mare è Amlóða kvren, il mulino di Amleto. Si inizia da qui, ma la scelta è del tutto arbitraria.
Una scienza perduta espressa in un codice di cui nel tempo si è persa la chiave e che rimane incastonato in frammenti di runot, filastrocche, racconti epici e fiabe popolari.
Si sarebbe potuto iniziare citando lo Shāh-Nāmeh, il libro dei re dell’iraniano Ferdowsi, raccontando dell’eroe Kay Cosroe, colui che poteva affermare che “il mondo intero è il mio reame, tutto è mio / Dai pesci giù fino alla testa del toro”. O dal fabbro Ilmarinen, che nel Kalevala finlandese venne trasportato “sul sentiero delle brezze / sopra la luna e sotto il sole / sulle spalle dell’Orsa Maggiore” nella tetra terra del Nord dove costruì il Sampo, il mitico mulino dal coperchio variopinto che macinava ricchezza e prosperità ma finì rotto in mille pezzi. O da Maui, il dio polinesiano che catturò l’uccello sole, oppure dalla teogonia di Esiodo…
Ogni storia può essere l’inizio, perché il presupposto è che ognuna sia un indizio che rimanda a una vastissima intelaiatura di fondo. Una scienza perduta espressa in un codice di cui nel tempo si è persa la chiave e che rimane incastonato in frammenti di runot, filastrocche, racconti epici e fiabe popolari. Ha detto Valery che “ogni metafisica esige che l’uomo sia partecipe di uno spettacolo che lo esclude”. Questa visione dell’antico cosmo disegna una metafisica spietata, gli dei macinano il mulino degli astri, il risultato è sofferenza. Sorge il sospetto più angosciante: il mondo non è iniziato secondo un disegno, ma per una disgrazia. Sarebbe questa, secondo De Santillana e Herta von Dechend, la scoperta antichissima e terribile di cui il mito continua a raccontarci, un evento che fece vacillare la struttura stessa del Cosmo, e che coinciderebbe con un preciso fenomeno astronomico: la lenta ma inesorabile trasformazione del cielo delle stelle fisse causata dalla precessione degli equinozi.
Come ci hanno insegnato, la terra è uno sferoide che orbita attorno al sole ruotando su un asse immaginario che la trapassa da parte a parte. Rispetto al piano ideale dell’eclittica disegnato dall’orbita solare l’asse di rotazione non è perpendicolare, ma inclinato di circa 23 gradi e 27 primi, ed è per questo che durante l’anno le ore di luce e di buio non sono uguali tra loro se non quando piano equatoriale e piano dell’eclittica si intersecano, ovvero agli equinozi. A impiallacciare il bordo dell’eclittica c’è la fascia zodiacale, coi suoi dodici segni, che assieme ai pianeti governano il mondo degli antichi secondo numero e misura.
L’equinozio di primavera è detto anche punto vernale o punto dell’Ariete, dal nome della costellazione in cui si trovava quando venne coniato: a causa della precessione infatti l’equinozio arretra lentamente di segno in segno. Nella nostra epoca l’equinozio riposa nella costellazione dei Pesci, mentre nel 2597, se sarà rimasto ancora qualcuno, si potrà celebrare l’inizio dell’età dell’Acquario: la New Age. Il moto precessionale impiega in tutto 25.920 anni a compiersi e tornare al punto iniziale, e questo implica anche che tra circa 13.700 anni il perno del cielo non coinciderà più con Polaris, l’ultima vaga stella dell’Orsa minore, ma diventerà Vega, l’astro più lucente della costellazione della Lira.
De Santillana insegnava al MIT storia della scienza dove per anni ha indagato l’ipotesi del mito come radice del pensiero scientifico.
L’immagine cosmica del mulino spezzato nasconderebbe l’antica descrizione in codice di questa scoperta. Ed ecco che è tutto un inclinarsi di colonne, uno sghembarsi di montagne, alberi cosmici sradicati e gigantesche macine fuori asse. Ed è sempre la stessa storia di dèi spodestati e cacciatori divini che catturano mitici animali, nelle sue innumerevoli varianti, a segnare l’ingresso equinoziale del sole in una nuova costellazione, e quindi l’inizio di una nuova epoca astronomica. Mentre Amleto, il signore del Mulino, che è Gilgamesh ed è Kay Cosroe, condannato a ripetere invano il tentativo di vendicare la caducità delle cose riportando l’ordine nel cosmo, crolla nella tristezza smisurata di chi contempla il gorgo del Tempo, e diventa Saturno, primo dio della malinconia. “Il tempo è fuori dai cardini / o destino maledetto che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto”. Atto primo, scena quinta.
De Santillana insegnava al MIT storia della scienza dove per anni ha indagato l’ipotesi del mito come radice del pensiero scientifico. La reinterpretazione del pensiero presocratico che esprime ad esempio nel breve saggio Prologo a Parmenide, pur discordando dal canone, appare filosoficamente solida e avvincente. Dai seminari che tenne Herta Von Dechend su suo invito la lettura astronomica del mito si amplierà fino a quel disegno vastissimo, e a tratti illeggibile, che venne tracciato a quattro mani nel Mulino di Amleto. Nonostante queste credenziali il libro fu pubblicato al di fuori del circuito accademico da una casa editrice minore di Boston. Questo perché la teoria proposta è tanto affascinante quanto indimostrabile. In una delle tante recensioni critiche viene definito “a bizarre academic curiosity”. Secondo gli autori, la caoticità del libro rifletterebbe la struttura stessa del pensiero mitico, che si esprimeva più per “fughe” che in una forma catenaria e sequenziale.
Rimane il fatto che l’interpretazione di molti testi è fondata su ipotesi filologiche sorpassate o traduzioni forzate; l’ipotesi di un unico Ur-mito di migliaia di anni fa di natura astronomica è essa stessa un mito, nato nell’Ottocento e ormai improponibile in ambito accademico; non è mai stato dimostrato che la precessione degli equinozi sia stata scoperta prima di Ipparco, nel 127 A.C. e la divisione dello zodiaco in dodici segni da trenta gradi ciascuno è quasi certamente una convenzione che inizia soltanto nel V secolo a.C. a Babilonia: difficile immaginare che tremila anni prima fosse già stata allestita la necessaria scenografia cosmica per tale evento.
Tenuto insieme da argomentazioni esili, il libro crolla sotto il peso della sua stessa erudizione, e si rimane travolti. Eppure, una volta che ci si è rialzati e ci si guarda intorno, rimangono in piedi le rovine delle storie, i poemi epici, i racconti di tutti i miti raccolti in questa temeraria impresa intellettuale, ed è un paesaggio letterario straordinario. Sembra paradossale che un filosofo della scienza di provato razionalismo verso la fine della sua vita abbia deciso di difendere una tesi così lacunosa e indimostrabile. Viene da pensare che a vincerlo sia stata la fascinazione, se non la nostalgia, per un’epoca ipotetica in cui la struttura della realtà e le leggi che la governano erano ancora raccontabili.
Il dominio della fisica non asseconda più la nostra abitudine a uno spazio univoco e a un tempo lineare.
Oggi abitiamo l’inconcepibile: il dominio della fisica non asseconda più la nostra abitudine a uno spazio univoco e a un tempo lineare. Dietro la superficie delle cose la realtà ha da tempo perso l’uso della parola, per descrivere le leggi del cosmo senza cadere in grossolane mistificazioni si deve fare ricorso a formule matematiche estremamente astratte e inospitali per la vita umana – se non per i pochi addestrati a comprenderne i meccanismi sottilissimi. La teoria che i due autori costruiscono a fondamento del cosmo antico forse è altrettanto vasta e indifferente ai sentimenti umani, ma ancora capace di accogliere l’idea, l’ipotesi, anche solo la possibilità di un dominio ormai perduto del pensiero, in cui ogni cosa era segnatura l’una dell’altra, e nel volo degli uccelli, nel fumo che si alzava al cielo, nel disegno delle traiettorie degli astri era possibile riconoscere una forma e leggerci il proprio destino.
Ha scritto Keynes che “Newton non fu il primo dell’età della ragione, ma l’ultimo dei maghi perché guardava all’intero universo e a tutto quanto è in esso come a un enigma”. È sempre lo stesso stupore di fronte a un corpo che cade o al ciclico ritorno degli astri, la stessa ostinata ricerca di misure e ricorrenze. Uno dei tanti ipotetici indizi raccolti nel libro sarebbe nascosto nel Fedone. Socrate, prima di morire, racconta un ultimo mito per descrivere il destino che attende le anime: la terra è una sfera al centro del cosmo, di cui noi abitiamo una delle cavità credendo di abitarne la superficie, come gli abitanti delle profondità marine guardando in alto chiamano il mare, cielo; e se potessimo mettere il capo fuori dell’aria come fanno i pesci, potremmo vedere la vera luce e la vera terra.
Da lassù il mondo appare diviso in dodici parti, come un dodecaedro intarsiato di colori meravigliosi, e dentro di esso c’è una voragine, che l’attraversa da parte a parte, in cui rifluiscono in un gorgo i grandi fiumi che cingono tutta la terra, e quella Regione si chiama Tartaro. Lì i morti vengono portati in attesa del giudizio, e chi deve espiare le sue colpe rimane preso nel vortice dei fiumi finché, una volta perdonato, potrà raggiungere le anime di coloro che, liberi dai vincoli del vecchio corpo, vivono di là dall’aria, nella pura luce. Concluso il racconto Socrate si congeda dicendo che
certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno: ma che sia così o poco diverso di così (…) mi sembra che valga la pena di avventurarsi a crederlo. Ché l’avventura è bella, e giova fare a se stesso di tali incantesimi; e proprio per questo già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola.