Nicola Lagioia, direttore editoriale del Salone del Libro di Torino, ci racconta come ha rilanciato l'istituzione torinese.
Timothy Small vive a Milano. Direttore Creativo, editor, giornalista e film-maker, è stato direttore e co-fondatore di Vice Italia, l'Ultimo Uomo, Prismo e Esquire.
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l successo del Salone del Libro, come ha titolato recentemente il Post, “è stato palese su ogni piano”. In un articolo intitolato proprio “Il successo del Salone del Libro”, il quotidiano online racconta che “le foto delle lunghe file agli ingressi a Torino sono diventate un manifesto spettacolare di popolarità.” Andrea Coccia, invece, sulle pagine di Linkiesta, parla di un Salone del Libro che “asfalta Milano” e di quanto questo sia una buonissima notizia per l’editoria italiana, che ha trovato nelle quasi 170.000 visite in cinque giorni a Torino un nuovo slancio vitale verso un sistema, quello editoriale, che negli ultimi anni ha sofferto molto. Secondo Coccia, “la vera notizia — ed è una bellissima notizia per l’intero mondo dell’editoria italiana — è che a Torino a vincere è stato un modo di lavorare purtroppo molto raro in Italia, fatto di strategia ben pianificata, competenze non improvvisate, lavoro di squadra e collaborazione tra realtà ben radicate, coinvolgimento della base dei lettori e, non da ultimo, una strategia comunicativa finalmente degna del nome.”
Quasi tutti gli interlocutori che hanno parlato del successo del Salone del Libro hanno dato una gran parte di responsabilità all’ottimo lavoro svolto da Nicola Lagioia, il direttore editoriale del Salone, che ha lavorato incessantemente negli ultimi sette mesi per assicurare la sua buona riuscita. Per questo abbiamo rivolto qualche domanda a Nicola per farci raccontare come si dirige un Salone del Libro e scoprire il segreto del suo successo.
Hai lavorato all’organizzazione di questo Salone per mesi. Ora che è finito, come ti senti? Senti di aver sottovalutato alcune cose quando hai accettato l’incarico?
Un po’ di esperienza già l’avevo. Anche se non è la stessa cosa, e la responsabilità è ovviamente minore, ho fatto il selezionatore della Mostra del Cinema di Venezia per tre anni. È comunque una cosa internazionale, la seconda mostra del cinema in Europa… Avendo fatto questa cosa per tre anni, avevo un’idea di come funzionasse una macchina organizzativa di quella portata. Poi ovvio, è una cosa nuova, quindi tutta la macchina del Salone non la conoscevo. I primi mesi sono stati proprio una sfida. In cinque/sei giorni ho dovuto decidere se accettare o no questo incarico, che significava anche cambiare città, cambiare lavoro e abitudini. Però il Salone un po’ lo conoscevo perché l’ho frequentato come addetto ai lavori: prima da lettore, poi da editor, infine da autore. L’anno scorso poi abbiamo fatto un servizio sul Salone del Libro per Rai 5, quindi l’avevo annusato da ogni angolo possibile e immaginabile, anche se la macchina organizzativa è una cosa completamente diversa. Il fatto di essere digiuno dei suoi meccanismi, però, mi ha permesso di fare delle cose che uno, se sa già come funziona, non si riesce a immaginare. Perché quando fai una cosa per tanto tempo diventa un po’ più difficile immaginarsi dei cambiamenti.
Certo, ti dà una prospettiva diversa.
Abbiamo gettato veramente il cuore oltre l’ostacolo per un sacco di cose: il Festival, tutta la sezione sulla musica, sui vinili, i concerti, il villaggio notturno del Salone, con musica fino a tarda notte, i 23 librai e 50 bibliotecari che si sono consorziati per la Libreria dei Lettori, l’area del cibo affidata a Slow Food. Chissà se le avremmo inventate se fossimo stati già rodati. Poi leggendo i giornali, il fatto che il Salone sembrasse in qualche modo minacciato, e invece… Non solo per merito mio, ovviamente, perché è una macchina che funziona da trent’anni quindi per tutta una serie di cose – pensa al rapporto con le scuole – ho trovato un gruppo di lavoro che il suo lavoro lo sa fare. Sono super appassionati. Ovviamente, come tutte le cose fatte per la prima volta, non potevo sapere come funzionava nei minimi particolari.
Hai avuto la possibilità di portare alcuni tuoi collaboratori o ti sei integrato all’interno di una macchina?
Da un lato c’è la squadra di consulenti esterni, la squadra degli interni però l’ho già trovata. Per fortuna, perché è il cuore del Salone. C’è chi lo fa da 15 anni, chi da 20: la direzione editoriale è sempre stato uno dei nostri punti forti. Altre cose ce le siamo dovute reinventare completamente, perché chi lavorava all’IBF, al commerciale e chi gestiva gli stand… queste parti sono stati prese dalla Fiera di Rho. Quindi loro sono cresciuti con il Salone, e la loro specializzazione, il loro know-how è dovuto al Salone. La sede è a Torino, sono dei torinesi che lavorano a Rho da quest’anno. E quindi ci siamo dovuti reinventare la squadra commerciale, dove ci sono dei ragazzi agguerritissimi che sono riusciti a prendere più metri quadri dell’anno scorso. I primi mesi sono stati duri, ma gli ultimi tre/quattro mesi sono stati bellissimi.
Hai sentito che la gente attorno a te ci credeva?
Espandere i metri quadri di commerciale e avere più case editrici dell’anno scorso, proprio nell’anno in cui alcune case editrici grandi come Rizzoli e Mondadori mancano… su questo nessuno ci avrebbe scommesso. Soltanto noi. Solo una squadra super agguerrita e appassionata avrebbe potuto credere di fare una cosa del genere. Stessa cosa con l’IBF: oltre all’IBF tradizionale, che è l’organo dedicato ai diritti internazionali, dove si scambiano i diritti tra le case editrici italiane e straniere, ho pensato, perché non proviamo a far venire anche i produttori cinematografici? Perché loro sono alla continua ricerca di contenuti da trasformare in film. I contenuti li hanno gli editori: facciamoli incontrare in maniera sensata. Quindi chiamo Netflix, HBO, le case di produzioni italiane… online si trova tutto il materiale che può servire da questo punto di vista. E ci hanno detto di sì. Sia HBO, sia Fox, sia Netflix. Sono tantissimi i produttori che hanno deciso di venire. È stata un’avventura bellissima.
Bello. Dev’essere molto eccitante.
Sì. Ovviamente è anche un’esperienza che ti mette a dura prova dal punto di vista fisico. Io ho un po’ la mania del controllo, però non puoi averla più di tanto in una cosa come il Salone del Libro di Torino. È talmente vasta che alcune cose sfuggono alla vista e tu non ne hai idea, non dipendono neanche da te ovviamente. E quindi quando le cose vanno bene, è bello. Però ripeto, se non avessi qui dentro una squadra di persone molto agguerrite, molto competenti, nessuna di queste idee si sarebbe potuta realizzare. So che è scontato: la gente vede la mia faccia, ma dietro c’è davvero il lavoro di tutte queste persone.
Il tema di quest’anno è stato “Oltre il confine”. Come l’avete scelto e perché?
Considera che io sono diventato adulto più o meno nell’anno della caduta del muro di Berlino, quando sembrava che tutta una serie di confini fossero in via di dissoluzione, mentre questo periodo, tra Brexit e Trump, sta dimostrando il contrario. Ci è sembrato subito uno dei temi cardine della nostra epoca. Scegliere il concetto di confine significa da una parte tirare fuori il nostro lato più barbarico. Ma anche l’idea di poter annullare i confini fischiettando Imagine è ugualmente pericolosa perché i confini li dettano le realtà del mondo. Non puoi annullare le differenze con un colpo di spugna: è un tema complesso. E cosa c’è di meglio dei libri per rispondere a un tema complesso?
Raccontami un po’ invece com’è ereditare un lavoro che il precedente direttore editoriale ha fatto per vent’anni?
Ernesto Ferrero lo conosco da anni, e tra l’altro quest’anno è stato presente per tutta una serie di appuntamenti. Siamo stati attenti a creare una continuità con il passato; certo, abbiamo fatto tutta una serie di cambiamenti, però siamo consapevoli che l’eredità del Salone è uno dei suoi punti di forza. Per esempio: il Salone del Libro da anni si rivolge alle scuole. Prima ancora dell’inizio di Bookstock Village (l’evento dedicato alle scuole, NdR) più di ventimila studenti si erano già iscritti. Se uno non tenesse conto di quest’eredità si taglierebbe le gambe da solo.
E dal punto di vista tuo, personale?
Io dovevo farmi accettare dai torinesi, dalla città, e da chi ha fatto il Salone da anni: la prima cosa che ho fatto è stata trasferirmi a Torino, anche se nessuno mi aveva chiesto di farlo. Questa scelta ha favorito molto il dialogo tra il nuovo e l’eredità del passato. Ci sono diversi direttori di festival che magari lavorano dalla città in cui abitano; trasferendomi a Torino ho cercato di dargli una continuità. Ernesto Ferrero comunque ha seguito diverse cose quest’anno: è il presidente del Centro Primo Levi, ed essendo trent’anni dalla morte di Levi, ci sono stati tutta una serie di appuntamenti che cura lui, come c’è stato un incontro sui 25 anni dalla sua traduzione di Viaggio al termine della notte di Celine; e un altro incontro ancora sui trent’anni del Salone. Ho cercato in qualche modo di tenere tutto quanto insieme: puoi fare delle innovazioni solo tenendo conto della tradizione, altrimenti ti crolla il terreno sotto i piedi. Per fortuna ho trovato un abbraccio da parte della città e da parte di chi ha fatto il direttore prima di me. Qui il Salone è considerato un patrimonio cittadino, questa cosa come entri a Torino la senti, ne sento la responsabilità. Però abbiamo lavorato così tanto che non ho avuto neanche tempo di avere paura.
Hai avuto il tempo di farti un’idea sulla città?
Passare da Roma a Torino è uno shock culturale. Torino è molto più facile, più piccola, te la puoi fare a piedi, in bicicletta, costa molto di meno. Torino, dal mio punto di vista, rappresenta una vera eccezione culturale in Italia: è una città non grandissima che presenta tutta una serie di istituzioni culturali quali possono essere il Museo del Cinema, il museo Egizio, il Circolo dei Lettori, il Salone stesso, la Scuola Holden, l’Einaudi, Slow Food, Eataly, Club to Club, Artissima…Una volta che la Fiat si è allontanata è una città che ha cercato di investire sull’economia immateriale, e questa cosa si vede, si sente, è impressionante. Non è una città in cui si capita spesso, non è una destinazione turistica come Napoli, Venezia o Roma, però chi arriva qui rimane colpito da quanto è bella. Scherzando, dico sempre che Torino è metà Cuneo e metà Seattle: da una parte senti la provincia – e io vengo da una provincia meridionale, conosco la sensazione – e dall’altra è una città che vive una sorta di presente avanzato continuo, una città in cui esci una sera e ti trovi il chitarrista dei Radiohead che sta mettendo i dischi. Queste due anime la rendono familiare e eccitante insieme.
Secondo te quanto è importante la parte del Salone che si fa carico di un certo tentativo didattico, di promuovere la letteratura, e l’oggetto libro in ottica di consumo culturale?
È fondamentale, chi si avvicina a questa istituzione se ne accorge. Ti faccio un esempio: qualche settimana fa, per il pre-Salone abbiamo avuto il concerto di Patti Smith. Ma Patti Smith non ha fatto semplicemente un concerto, ha accettato di incontrare qualche ore prima gli studenti delle scuole superiori di Torino e provincia. Un piccolo esempio che ti fa capire come per noi le due cose siano in strettissimo contatto.
Vi eravati dati un obiettivo dal punto di vista dei numeri?
Noi scherzando ci dicevamo che l’obiettivo era avere un visitatore in più rispetto all’anno scorso. “Tutto il resto sarà un regalo”, ci dicevamo. Alla fine ne abbiamo fatti quasi quarantamila in più.
In effetti, non ti ho ancora fatto le mie congratulazioni. Alla fine è stato un successo strepitoso.
Grazie, sì, è stata una cosa che nessuno si sarebbe immaginato. Sei mesi fa era inimmaginabile da chiunque, e fino a un mese fa era inimmaginabile da chiunque tranne quelli che ci lavoravano. Sono stati tra i mesi più belli della mia vita. Ma non i cinque giorni del Salone, quelli sono stati bellissimi, per l’emozione, ma lì era stato già tutto fatto; dico proprio i sei mesi di lavoro. Per la prima volta mi è capitato di avere tra le mani una cosa grossa come il Salone, e avere davvero libertà d’azione. È stato un Salone che ha funzionato come una factory, nella sua parte migliore. Abbiamo fatto le notti in Fondazione: una serie di persone di diverse generazioni, dove ci sono io, ci sono i cinquantenni, ma anche i venticinquenni, perché abbiamo lavorato anche con tanti giovani nella squadra del Salone. Questa cosa ha trasformato la Fondazione in una factory. È stata una delle chiavi del successo, oltre alla risposta della città, direi. Torino è una città che ha nel DNA la cultura della comunità, la cultura del libro, la cultura dello stare insieme. Noi abbiamo dovuto catalizzare questa energia che Torino già possiede.
Nella conferenza stampa di chiusura del Salone, il Presidente della Fondazione, Massimo Bray, diceva che il Salone non può esistere senza Torino, ma che anche Torino senza il Salone è una città meno ricca. Io ho percepito molto questa cosa – e non so bene come definirlo, se non tramite i miei riscontri personali – ma ho percepito un’energia davvero gioiosa, un’amore per quest’evento così importante che in qualche modo definisce anche l’identità della città.
È una giusta lettura. Qui il Salone è sentitissimo. È, in effetti, un elemento identitario ed è corretto che una città si riconosca nelle sue istituzioni culturali. Detto questo, il Salone è un patrimonio cittadino ma anche nazionale. Ieri ero a Milano, per una presentazione al Teatro Parenti, e un sacco di gente mi si è avvicinata, dicendosi felice che il Salone del Libro di Torino fosse stato salvato e addirittura rilanciato. Perché non è una questione di Milano-Torino, non è una lotta tra città. È come la Mostra del Cinema di Venezia, è un evento nazionale.
Quando hai capito che sarebbe stato così un successo? Parlavi di giovedì mattina, quando hai visto quella folla per l’apertura del Salone.
È stata una cosa impressionante. Dall’alto non si vedeva la fine della fila. E poi il clima, un clima di tale festa e di allegria. Tutti i cartelli sold-out, sold-out, poi, per vedere Giorgio Agamben o Amitav Ghosh. Noi siamo abituati a vedere i cartelli sold-out per i concerti pop, non per le cose, tra virgolette, “difficili”. Questa è stata la cosa veramente bella. Uno magari ha lavorato per una vita su questa linea qui, e gli viene sempre detto che è una linea non vincente, e invece, quando si hanno le risorse per fare le cose in grande, uno scopre che possono essere cose vincenti. Io ho avuto paura solo mercoledì sera, la vigilia. Ma che le cose si stessero mettendo per il meglio, l’abbiamo capito già a febbraio. Appena abbiamo iniziato a lavorare abbiamo capito che si era creata un’alchimia tra di noi e la città.
Quanto s’è sentita l’assenza di quella manciata di grandi editori che è andata a Milano?
Io penso che al Salone di Torino dovrebbero esserci tutti. Anche Mondadori e gli altri. E spero che l’anno prossimo ci saranno di nuovo. La gente va al Salone anche per trovare il catalogo completo di una casa editrice. Uno va al Salone anche per cercare i libri che proprio non trova nella Mondadori sotto casa. E poi, autori Mondadori, autori Adelphi, c’erano. E anche i loro libri, c’erano, anche senza gli stand.
Io ho pensato che questo Salone, in qualche modo, fosse anche il successo di un certo modo di lavorare, di lavorare nella cultura senza dimenticare il prodotto. Mi ha fatto pensare che, se tu ragioni sulla cultura come un prodotto, e lo comunichi bene, e ci lavori con competenza, e alla gente quel prodotto piace, come dire, alla fine il prodotto lo compra. Tutto qui.
Infatti. Quando dicevo che dovevamo lavorare come una factory, o come una casa editrice, intendo dire che dovevamo mettere insieme qualcosa che fosse molto connotato. Il fatto che fosse “alto”, non vuol dire che non fosse coerente, e che non fosse compatto. Poi, visto sulla carta, tu ci provi anche a mantenere un’identità, ma nella grande confusione vitale del Salone magari il tuo disegno diventa anche altro. A un certo punto, tu a una cosa come il Salone dai il via, ma poi prende una vita sua. Io penso che il lavoro abbia contato, e a Torino l’etica del lavoro è molto sentita. Qui ho trovato persone disposte a lavorare fino a tarda notte, persone che se lavorano per qualcosa che li appassiona, stanno a lavorare fino a mezzanotte senza battere ciglio. Questa cosa secondo me ha fatto la differenza. E tieni a mente che la mole di lavoro è stata impressionante, perché in quei cinque giorni c’erano a cartello 1700 eventi. E quindi o lavori in maniera organizzata oppure non ce la fai. Io spero che l’anno prossimo comunque questi ritmi non si ripeteranno, perché l’anno scorso abbiamo fatto il lavoro di un anno in sei mesi. E continuare a questo ritmo è un po’ problematico…
Anche solo per la salute.
Esattamente. Ma anche per le nostre vite personali.
Dato che quest’intervista è per il Tascabile, non potrei non menzionare una cosa curiosa uscita nella conferenza stampa di chiusura, cioè che in un certo senso è tutto nato durante una nostra riunione editoriale alle quale ti avevamo invitato, e alla quale ha partecipato anche Massimo Bray che, colpito dalle tue parole in riunione, ti ha poi chiamato quella sera per offrirti di dirigere il Salone.
Ma sì! È pazzesco. Anche io questa cosa l’ho appresa in conferenza stampa. Cioè, lui me l’aveva già detto, ma io pensavo che scherzasse. Ma poi quel giorno lì, quando sono venuto da voi al Tascabile avevo il mio motorino, di terza mano, che non si accendeva, e quindi ho pensato di non venire. E invece proprio quando stavo per desistere, si è acceso, ed è stato quasi un segno, un colpo di fortuna. È stato bellissimo così, però.