D i poesia so di non sapere, vorrei sapere ancora meno: forse vorrei saperne tutto. L’ho capito leggendo Odiare la poesia di Ben Lerner e I confini della poesia di Franco Fortini. Lerner e Fortini presentano uno schema di divergenze e affinità così fitto da intrappolare qualsiasi tentativo equilibrato di sintesi: il primo è un poeta/romanziere/intellettuale americano sospeso a mezz’aria in uno slancio dalle spalle del postmoderno americano, il secondo è un poeta/critico/intellettuale italiano, comunista, spurio, affilato. Insomma, per quanto avvenga in maniera più (Lerner) o meno (Fortini) programmatica, entrambi i saggi finiscono per chiedersi: perché amiamo e odiamo la poesia?
Bombardare le tipografie
Nel suo saggio Lerner cerca di tornare alla fonte del suo odio per la poesia. I, too, dislike it (“Neanche a me piace”): partendo dall’incipit di La poesia, una poesia di Marianne Moore imparata a fatica alle elementari, Lerner inizia a sbudellare il suo, il vostro, il nostro rapporto conflittuale con il testo poetico (le traduzioni di Odiare la poesia vengono dall’edizione Sellerio, quelle di Uomo di passaggio dall’edizione di Neri Pozza, quelle delle poesie di Lerner sono mie).
Che forma d’arte è quella che dà per scontato di non piacere al suo pubblico, e che artista è quello che condivide questa antipatia, e anzi la incoraggia? […] Che forma d’arte è quella che ha come condizione della propria possibilità un perfetto disprezzo?
Anch’io la disprezzo, scrive Lerner, nonostante la mia esistenza ruoti intorno a lei, e non la vivo come contraddizione perché la poesia e l’odio che provo per lei sono inestricabili. E di contraddizione parla lo stesso Fortini, accusandosi di “non avere servito la poesia con cuore abbastanza puro e devoto. […] Mi contraddico? Certo. Ho saputo abbastanza presto quel che i versi non possono mai dare.” Cos’è che i versi non possono dare? I versi non possono dare l’altrove che lambiscono, una presenza che lasciano percepire – che imbarazzo – attraverso la sua assenza. “Il contenuto viene annunciato | attraverso la scomparsa, come fuochi d’artificio” leggo in Mean Free Path, una raccolta di Lerner del 2010.
Ciclicamente poi, come per i jeans candeggiati, si torna a parlare della Morte della Poesia. Non è data, tra le muse, una più umiliata e amata, corteggiata e respinta. Come si certifica la Morte della Poesia? Le si bruciano le piante dei piedi? Si istituisce un referendum consultivo? Si hackerano le migliaia di siti a tema, si bombardano le tipografie di chi ancora – zombie lurido – si ostina a stampare poesia nel 2017? Secondo Lerner la Morte della Poesia viene invocata per esorcizzare l’atrofizzazione delle nostre capacità immaginifiche: più che “un’osservazione empirica [la Morte della Poesia] riflette […] un’ansia collettiva riguardo alla nostra capacità di ‘creare alternative’”.
Antidoto e veleno
Costruire alternative, o anche: cambiare il mondo. Fortini distingue la sua generazione da quella subito precedente riflettendo sui diversi sottoprodotti derivati dalla stessa educazione letteraria e sentimentale: la sua
fu stimolo a lottare per sopravvivere e uscirne insieme minaccia d’una sempre possibile sconfitta incombente. Il cangiamento della realtà ossia l’azione finalizzata era possibile quindi dovuto; e nel medesimo tempo era, almeno in termini individuali, votato allo scacco.
Di nuovo, veleno e antidoto. Negli anni a ridosso della guerra, il Fortini ventenne alla storia del pensiero preferiva la “giovane letteratura [del] pseudoreligioso non-sapere, di un rifiuto della storia e della politica, considerate miserabile teatro del mondo”. E quindi ecco Petrarca, Juan De La Cruz, Donne, Hölderlin, Nietzsche, Mallarmé, Rilke, Campana; ascesi che mescola apollineo e dionisiaco, ascesi che separa giovani menti intensamente mielinizzate da quella che Nabokov definiva pošlost’, e che ci accontenteremo di chiamare volgarità.
Nonostante l’autore fiorentino irrida il fascino tetro che spiritualisti ed ermetici esercitano “sui ragazzi”, sono proprio quelle letture a salvarlo in età matura dalle peggiori retoriche dell’engagement, stillando la disillusione che – a sua detta – non gli verrà perdonata dai colleghi più ideologizzati. “Nulla di imprevisto, beninteso” precisa Fortini, critiche che avrebbe accolto con buon umore se il poeta non si fosse sentito colpevole di tic piccolo borghesi: mancanza di stile rispetto ai ceti più alti, posizione di privilegio rispetto a quelli subalterni (lettore del 2017: riflettiamo insieme). Dalla consapevolezza di questi tic insomma, “una specie di avversione non di ironia, di distanza non di tolleranza, e quasi di odio per lo scrivere versi, per quelli che ho chiamati una volta, in una poesia, i segreti dei misteri inutili. Inutili ma misteri.”
Inutili, ma misteri
La mattina di martedì 25 aprile mi è successa una cosa che non mi era ancora successa: mi sono svegliato da un sogno in cui avevo sognato di sognare. Tutto qui. Per quanto il sogno fosse particolarmente vivido e tridimensionale, descriverlo attraverso pseudo-versi modellati sui primi, crudissimi input ipnagogici è stata un’esperienza… frustrante e felice. Insomma, è molto facile scrivere certe schifezze, e un poco doloroso.
Accade scrivendo qualsiasi cosa certo, e a chiunque, anche se Lerner, anglofono, prende come pietra angolare la storia di Caedmon, il primo poeta “inglese” del quale si hanno notizie, che secondo Beda impara l’arte del canto lirico proprio sognando. Caedmon una sera si addormenta insomma, e si sveglia poeta. Già dalla prima canzone però, ci racconta Beda, Caedmon ha capito come vanno le cose – la poesia è eco. La poesia vuole andare oltre la dimensione storica e raggiungere il trascendente, ma impatta sui limiti degli strumenti a disposizione di chi arranca in un mondo finito: “In sogno i versi possono sconfiggere il tempo […] ma al risveglio, quando ci si ricongiunge agli amici seduti attorno al fuoco, si è di nuovo nel mondo umano, con l’inflessibilità delle sue leggi e della sua logica.” Interessante che Lerner (chi l’ha letto lo conosce anche come lettore di Agamben) racconti di uomini intorno al fuoco, alludendo forse – ma non concretizzando – la dicotomia fuoco/racconto su cui si sofferma il filosofo nel suo saggio omonimo:
L’umanità, nel corso della sua storia, si allontana sempre più dalle sorgenti del mistero e smarrisce a poco a poco il ricordo di quel che la tradizione le aveva insegnato sul fuoco, sul luogo e la formula – ma di tutto ciò gli uomini possono ancora raccontarsi la storia. […] È credibile che ci si possa appagare di un racconto senza più rapporto col fuoco?
Chi scrive poesia – e i morti che continuano a leggerla – non lo trova credibile. La secolarizzazione può avere liberato “il racconto dalle sue fonti mitiche” e soffiato una bolla (= la Cultura, secondo Agamben) intorno alla letteratura per proteggerla e asfissiarla, ma chi scrive e chi legge poesia si ostina, continua a mettersi in ridicolo, continua a farsi odiare. Parafrasando Cristina Campo, esistono due mondi – la poesia viene dall’altro. Il poeta è dilaniato dal bisogno di raccontare l’altro mondo e “la resistenza alla costruzione di alternative incarnata dalla materia di cui ogni mondo deve essere composto”. Per Fortini non esiste cesura tra metrica e misura – entrambi spie del limite:
Metrica come misura, mezura ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là. Arpenter, misurare. I più deserti campi. A passi tardi e lenti. [Petrarca! Il poeta si autoesilia. NdA]. Certi campioni di misura, in meccanica fine, si chiamano giudici. Metrica, giudizio.
E insiste Lerner, “la nostra capacità di scrivere poesie è in un certo senso la misura della nostra umanità”, chi ci prova vive nello spazio tra il bisogno e l’impossibilità di soddisfarlo.
Odi et amo
La poesia è odiosa perché a volte si presenta come alta (inaccessibile, elitaria, isolata dal consorzio umano), perché a volte è bassa (imbarazzante, capace di umiliare la lingua l’autore e il lettore), perché a volte vuole essere utile (poesia e rivoluzione, però, vantano una secolare tradizione di fallimenti). La poesia – ecco dove arriva l’argomentazione di Lerner – è odiosa perché… esiste: i poeti ci ingannano perché auto-definendosi tali implicano “che si sia in grado di superare la logica crudele del principio poetico”. Ovvero: non esiste autenticità in poesia, solo uno spazio per l’autentico, “qualunque cosa ciò significhi”.
Il poeta è spregevole perché ricorda il fuoco a chi l’aveva dimenticato; perché fallisce, perché ci riprova, blatera di plastificazione del linguaggio. Il poeta infatti tradisce una delle clausole del matrimonio con la vita adulta, vive un rapporto non esclusivo con la lingua, un rapporto che non stigmatizza la perversione della saturazione semantica – cioè ripetere, modellare, esasperare il linguaggio per il piacere di farlo, rompere i nomi, lasciare la parola al suono, lasciare la parola al significato, lasciare la parola alla parola.
Per concludere, la difesa della poesia è diventato un genere letterario a sé, un canone che si può permettere di descrivere le sue virtù senza il pericolo di sbattere sui muri che circondano la composizione lirica. È proprio il protagonista di Un uomo di passaggio, il primo romanzo di Lerner, a raccontare come
pur dicendomi poeta, pur avendo ottenuto la borsa di studio in Spagna grazie al mio presunto talento di scrittore, tendevo ad apprezzare la bellezza dei versi solo quando li trovavo citati in brani di prosa, nei saggi che i professori mi assegnavano in lettura al college, in cui le barre sostituivano gli a capo, cosí che ad arrivarmi non era tanto quella particolare poesia quanto l’eco di una possibilità poetica.
E lo sa chiunque si trovi a scrivere di poesia. Preferisco mostrare il valore della poesia, legittimarla citando Fortini (“i globi chiari, i lenti globi | templari cumuli dei venti | non sono me”) o Lerner (“sto scrivendo per descrivere un cerchio perfetto | per descrivere l’improvvisa curva sinusoidale di un cervo in fuga”), ma spiegare la sua importanza va oltre le mie capacità e va oltre l’interesse di chi la scrive, di chi la legge, di chi la odia. Tra queste righe ho messo in contatto due testi scritti in due mondi antitetici come un bambino gioca con due cavi elettrici scorticati. Se – tornando ad Agamben – tutta la letteratura è memoria della perdita del fuoco, è ovvio amare e giusto odiare i custodi della scintilla.