P ur parlando di una sola città, Istanbul Istanbul di Burhan Sonmez è, in un certo qual modo, un libro-mondo. Sonmez, che oltre ad essere un romanziere è anche un attivista, possiede una scrittura in grado di generare visioni incredibilmente nitide che portano con loro una grande stratificazione sia stilistica che politica. A partire dalla struttura del racconto. È possibile definire Istanbul Istanbul un romanzo ma, allo stesso tempo, è anche una summa di racconti. Un gioco di scatole cinesi dove una storia dà la possibilità di cominciarne un’altra. Niente di nuovo sotto il sole della letteratura, la letteratura classica è piena di esempi del genere, a partire dal Decamerone che Burhan Sonmez cita esplicitamente come suo modello, non solo nel testo, ma anche nella struttura, che si articola in dieci giorni di racconto.
Il contesto che genera le storie, per Sonmez, è la prigione. Luogo emblematico della Turchia di oggi, che vede minacciate ogni giorno di più libertà democratiche basilari come il diritto d’espressione, di manifestazione del dissenso, la libertà di stampa. Ma anche luogo che è allo stesso tempo concreto e simbolico per lo stesso autore del libro, che del carcere ha fatto esperienza a causa del suo attivismo politico. Il carcere, per Sonmez, è un mondo sotterraneo, il ventre della terra dove le autorità vorrebbero far sparire chi si oppone ai loro progetti. Ma è anche un mondo che genera visioni e resistenza. Si delinea così, nel libro, una Istambul “di sopra”, caotica e brulicante di vita, e una Istanbul “di sotto”, nascosta allo sguardo dei più. In questa Istanbul nascosta si incrociano le vite dei quattro protagonisti e le loro storie: quelle reali, quelle immaginate. L’immaginazione è un mezzo potente, l’unico mezzo per sopravvivere. Raccontare significa resistere, non solo far passare il tempo. E immaginare, in un vero e proprio teatro dei sensi dove fumare una sigaretta vuol dire mimarlo e convincersi di averlo fatto, significa continuare a vivere.
A partire dal titolo Istanbul Istanbul è una grande dichiarazione d’amore verso questa città e il suo essere doppia, una città di sopra e una città di sotto. Il tema del doppio è uno dei temi che tornano più spesso, come il tema del tempo che si dilata e, nel mondo di sotto, scorre diversamente che nel mondo di sopra. E poi c’è la tortura, la porta spalancata sull’abisso. L’offesa del corpo per reprimere il dissenso. La negazione più crudele e totale dell’altro. Per non sprofondare, per non cedere all’abisso, occorre raccontare. Per sopravvivere. Un po’ come nell’altro grande libro di racconti a incastro che è Le mille e una notte, che maggiormente appartiene alla Turchia, paese di cerniera tra l’Europa e la cultura musulmana asiatica. Shahrazād, principalmente, racconta per salvarsi la vita.
Il romanzo di Burhan Sonmez è uno straordinario generatore di racconti e visioni, a volte di respiro epico, che si incastrano alla perfezione laddove la logica del reale incontra l’iperbole del mito. Una mitologia non necessariamente antica, anzi, spesso straordinariamente contemporanea, ma che trae la sua potenza dal fatto di essere partecipe dello spirito di Istanbul, città che sa essere antica anche nel suo essere odierna. E, ovviamente, capace anche del contrario.
Arrivi in un posto con certe conoscenze e quando sei lì cominci un altro viaggio, sei costretto a farlo, si tratta del viaggio in cui ti crei la tua città. Quindi, adesso ho una mia Istanbul. Bellissimi ricordi sulle spiagge del Bosforo, giornate buie in una camera di tortura… e poi cibi squisiti, le danze, la musica e ancora tanti giorni luminosi della nostra cultura ma anche i giorni del suo declino. Raccontare storie è come mettere tutto dentro un calderone e poi tirare fuori le cose, una per una. Per uno scrittore, prima o poi, arriva questo compito di raccontare storie che, in un certo qual modo, sono già state raccontate. Ci sono tanti romanzi e tanti film che parlano di Istanbul, ma ciascuno è diverso, ciascuno racconta una città diversa – un po’ come ne Le città invisibili di Calvino, che racconta le storie di tante città ma alla fine viene fuori che, in un certo senso, sono tutte la stessa città.L’incastro delle storie e dei racconti – che sono principalmente racconti orali che si svolgono dentro una cella – è un meccanismo letterario di continua generazione di mondi. Mondi che vengono generati con un obiettivo: quello di salvarsi. I quattro protagonisti di Istanbul, Istanbul sono stati privati della libertà, privati della loro identità, privati della sicurezza del loro corpo. Se li osserviamo bene essi non sono più – per come intendiamo oggi questa parola – degli “esseri umani”. Sono già qualcos’altro. Come hai lavorato su questo meccanismo di generazione di mondi?
Quando domando che ci sia la bellezza nelle strade vuol dire che mi piacerebbe vedere un bell’edificio e delle persone felici, una strada che non sia soltanto proprietà delle grandi aziende. Una strada disegnata dalla gente comune per sé stessa. Il mio esempio riguarda l’ambiente in cui viviamo, ma questo discorso può essere valido anche in senso più generale. Quando nel libro si parla della tortura, che è un’azione che si manifesta sui corpi, io considero questi crimini commessi contro il corpo come un’illustrazione estrema della bruttezza di cui parlo. Quando si viene torturati per prima cosa distruggono il tuo corpo. Il corpo di una persona è una delle espressioni della bellezza che fa parte del mondo naturale. Quindi la tortura è in primo luogo un atto contro la bellezza della natura. Se si resiste alla tortura ciò avviene anche perché esiste un desiderio di tutelare e conservare quella bellezza che hai dentro di te. Questo discorso è valido per il corpo umano, però ci sono anche altri tipi di corpo. Come Roma, anche Istanbul è un grande corpo e noi cittadini di Istanbul la stiamo torturando ma Istanbul ancora continua a resisterci.Istanbul è una città particolarissima, dove convivono le “immagini da cartolina” con cui si presenta all’Occidente e si vende ai turisti con la dimensione aspra e contraddittoria di un’altra Istanbul, che tu racconti nel tuo romanzo. Ad esempio quando racconti della gente che vive a ridosso delle mura antiche: ubriachi, gente senza tetto, uomini che vivono in case particolari chiamate Gecekondular, frutto di autocostruzione. Come si tengono insieme queste due città?
Perché per raccontare questa visione di Istanbul sei partito da un luogo chiuso, ovvero la prigione?
Un altro cambio di prospettiva, rispetto all’essere sotto terra, riguarda il tempo. Le voci del romanzo lo definiscono “il più grande nemico”, per contrastare il quale occorre crearsi la propria città, o almeno una rifrazione della città che sta di sopra. Persino i carcerieri lo sanno, e proprio per questo, sadicamente, si rivolgono a un detenuto dicendogli “Sei alla fine del tuo tempo, per te il tempo non esiste più”. Come hai affrontato il tema del tempo? E come scorre, diversamente, nella città raccontata da chi vive nel sottosuolo, rispetto alla città che esiste fuori?
Negli ultimi due anni a Istanbul c’è stato il più alto tasso di attentati suicidi della storia turca. Nel frattempo Erdogan è impegnato nella costruzione di grandi opere come il terzo aeroporto nella città di Istanbul. Per questo alcuni cittadini hanno la percezione è che Erdogan stia facendo grandi cose, che è un uomo pieno di denaro e che sta costruendo opere magnifiche. I giornalisti che sono finiti in carcere, invece, avevano scritto che Erdogan ha accumulato il più grande debito pubblico della nostra storia presso aziende straniere. Quando Erdogan arrivò al potere quindici anni fa la Turchia aveva un’esposizione di 130 miliardi di dollari, adesso siamo arrivati a una cifra che supera i 400 miliardi. Chi li paga? Chi sarà a ripagarli? Li pagherà lui o li pagheremo noi? La politica di Erdogan sta creando una nuova classe dirigente alimentata attraverso il furto di denaro pubblico, ma parlare apertamente di questo in Turchia vuol dire mettersi in pericolo. La Turchia, però, resta un posto molto interessante nonostante tutti questi pericoli, abbiamo molte persone coraggiose. Le definisco coraggiose perché ora sono a Roma, a parlarne con te, e devo farti capire cosa significa; ma noi in Turchia non parliamo di “coraggio”, diciamo che questo significa essere “persone normali”. La situazione è pessima ma non siamo senza speranze. Come tanta gente che conosco, sono rattristato per la situazione in cui si trova il nostro Paese, stiamo attraversando un tunnel buio, ma c’è una luce in fondo a quel tunnel: non si tratta della luce del sole, bensì… delle fiamme dell’inferno! Ma nonostante questo noi siamo pronti ad affrontare il peggio. Sono convinto che, nonostante tutto, il futuro appartiene a noi. [q]La libertà d’espressione in Turchia è minacciata, il tuo racconto delle estreme difficoltà che incontrano i giornalisti lo dice chiaramente. È un’ossessione di controllo del discorso pubblico che ha toccato anche l’espressione artistica, con la censura che ha colpito le opere di drammaturghi rappresentati universalmente come Shakespeare, Brecht, Cechov e il nostro Dario Fo. Questa paura del teatro sviluppata dal governo turco mi fornisce lo spunto per un’altra domanda che tocca anche il tuo romanzo. Dentro Istanbul, Istanbul c’è molto teatro. All’interno della cella i quattro i protagonisti decidono di volta in volta di fumarsi una sigaretta, di bere un caffè, di bere del raki… Come lo fanno? Fanno finta di bere e di fumare, perché non hanno raki, non hanno sigarette, non hanno caffé. Il teatro è un’arte dove la finzione non produce menzogna, ma serve a creare un mondo ulteriore, un mondo diverso che partecipa appieno del potere evocativo del racconto. Vorrei allora chiederti perché, secondo te, il potere censura i classici.[/q] [a] La censura è una cosa che, quando è deliberata e intenzionale, è facile da descrivere. Tuttavia la parte più insidiosa della censura, secondo me, è quella di cui ci rendiamo colpevoli senza saperlo. Oggi in Turchia sta nascendo una nuova forma di romanzo, sono romanzi che hanno a che fare col fantastico, con l’utopia e la distopia e a me piacciono moltissimo questi romanzi, ma spesso sono anche un modo di fuggire dalla realtà. È chiaro che quando fuggi dalla realtà allo stesso tempo stai ricreando una realtà che ha una forma diversa. Per questo al momento c’è un dibattito, in Turchia, su come dovremmo affrontare la realtà in letteratura, perché sappiamo che la letteratura non è una cosa che si crea in laboratorio, è qualcosa che ha a che vedere con la vita, subisce gli influssi della vita e che agisce sulla vita.Vorrei anche parlare della Istanbul reale, uscendo per un momento dal romanzo. Nel contrasto tra gentrification e città degli esclusi, a cui facevi riferimento prima, hai detto che vorresti vedere una città che non è solo in mano ai privati, ma che si costruisce attorno all’idea di spazio pubblico. Anche la protesta di Gezi Park nel 2013 era nata su un’idea di città differente. Tu sei stato uno dei protagonisti di quella protesta. Alla luce di momento difficile per la Turchia, che dopo il tentato colpo di stato del luglio 2016 sembra avvitarsi in una spirale autoritaria, cos’è rimasto secondo te dello spirito di Gezi Park?
Quello che noi chiediamo sono democrazia e legalità. E li chiediamo anche per loro. Conosco molti sostenitori del movimento gulenista che attualmente si trovano in carcere, dove vengono torturati o vengono marginalizzati. Io chiedo anche per loro un diritto a un trattamento umano, ma questo non significa che abbiamo una visione comune del futuro del nostro paese. Tolti quei due poteri esiste però un vasto strato della popolazione che la pensa diversamente: parliamo di quasi venti milioni di curdi, quasi tutti sono contro il governo, oltre a quasi dieci milioni di salafiti che sono contrari a Erdogan. E ce ne sono ancora altri. Se mettiamo insieme questi strati si conta circa la metà della popolazione. Erdogan sostiene che la metà del popolo turco è con lui. Sarà anche vero, ma ce n’è un’altra metà che gli è contro. Non si può annientare la metà di un popolo uccidendo tutte le persone che ne fanno parte. Per questo sono convinto che la Turchia abbia davanti a sé un futuro lungo e luminoso.Nel tentato golpe di luglio 2016 abbiamo visto due poteri che si scontravano, il potere di Erdogan e una rete di potere che fa capo a Fethullah Gulen. Sono entrambi poteri liberticidi. Peraltro i colpi di stato militari sono stati frequenti nella storia della Turchia, nonostante quest’ultimo abbia avuto caratteristiche molto diverse da quelli che si sono alternati nel Novecento. La tentazione liberticida è un dato costitutivo della politica turca? E in questo contesto, così fragile e pericoloso, chi è in grado di portare avanti una prospettiva democratica? E in che termini?