I l 5 maggio 1937, a Barcellona, due anarchici italiani vennero arrestati da un gruppo di stalinisti, nel quadro delle repressioni interne alla sinistra durante la guerra civile. Si chiamavano Francesco Barbieri e Camillo Berneri. I due furono assassinati e abbandonati a poca distanza nel centro cittadino, dove vennero ritrovati dalla Croce Rossa. L’autopsia confermò la causa della morte: colpi d’arma da fuoco.
Pochi giorni prima, Berneri aveva tenuto su Radio Barcellona un commosso ricordo di Antonio Gramsci. Eppure, a differenza di Gramsci e tanti altri protagonisti del periodo — i fratelli Rosselli, Salvemini, Ernesto Rossi e così via, con cui dialogava alla pari — l’anarchico è rimasto nell’oblio. Il suo pensiero non ha nulla da invidiare a quello dei nomi citati, per complessità e importanza; ma al di fuori dei circoli libertari, è quasi del tutto ignorato.
Perché ricordarlo oggi? Non tanto per il vezzo degli anniversari, e non solo per colmare un vuoto e tributargli quanto gli spetta; ma anche perché le sue idee sono estremamente attuali. In un momento dove la democrazia sta scricchiolando, e rischia di essere preda del populismo di ultradestra — o di piani schiettamente autoritari come in Turchia e Ungheria — l’anarchismo ha ancora molto da dire. Influenza indirettamente l’azione di alcuni movimenti recenti, come Occupy e Black lives matter; vive rielaborato nell’autodeterminazione dal basso del Rojava; ed è stato cruciale nella formazione dello zapatismo. È una risorsa tutt’altro che marginale; e nella sua storia, Berneri ha un ruolo importantissimo.
“Una vita di quotidiani sforzi di volontà”
Camillo Berneri nacque a Lodi il 20 maggio 1897 da una famiglia piccolo borghese: il padre era segretario comunale, la madre insegnante. Militante socialista fin da ragazzo, si convertì all’anarchismo poco prima dei vent’anni e iniziò a collaborare con un gran numero di riviste del movimento. Studiò a Firenze con Gaetano Salvemini — che ebbe su di lui un notevole influsso, e lo ricorderà sempre con affetto — e si dedicò all’insegnamento, senza mai smettere l’attività antifascista e di propaganda. Negli anni Venti collaborò anche con il gruppo di “Non mollare” e la Rivoluzione liberale di Gobetti, a testimonianza di una delle sue qualità principali: l’eclettismo.
Naturalmente inviso al regime, fu costretto all’esilio e a una durissima vigilanza, che lo costringeranno (in particolare dopo un arresto a causa di una spia fascista nel 1930) a vagare senza tregua per l’Europa, clandestino ed espulso quasi ovunque. Non per questo smise di lottare, anzi. Nel 1936 approdò in Spagna durante la guerra civile, approdo naturale per moltissimi anarchici. Come scriverà sua moglie Giovanna Caleffi, lei stessa militante libertaria:
Lo scoppio della rivoluzione spagnola, nel luglio 1936, fu la vera liberazione di Berneri, l’attimo tanto atteso per poter dare finalmente tutto se stesso, anima e corpo, alla causa della rivoluzione anarchica.
Schierato con la Repubblica, il lodigiano partecipò ai combattimenti (benché fisicamente poco dotato) e animò il periodico Guerra di classe. In particolare, si spese affinché la rivoluzione catalana non finisse preda né del comunismo autoritario sovietico, né della democrazia borghese. E proprio per questo fu ucciso a sangue freddo. Del resto, ricorda Camillo Levi, già nel dicembre 1936 la Pravda aveva pronunciato la sentenza: “in quanto alla Catalogna è cominciata la pulizia degli elementi trotzkisti e anarco-sindacalisti, opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale la si condusse in Russia”.
Togliatti, fedele alla linea di Mosca, dirà poi che l’anarchico era stato “giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”. Poco dopo cercò di sviare in maniera vergognosa, parlando di un incidente. L’appartenenza di Berneri al movimento libertario fu un ulteriore motivo di disconoscimento. E qui è bene precisare un punto. Nel discorso comune, la parola “anarchia” è spesso ancora usata come sinonimo di disordine o confusione, in cui ognuno fa quel che vuole senza badare agli altri. Nulla di più falso. L’anarchia (intesa come società ideale propugnata dall’anarchismo) è una comunità priva di Stato, fondata sull’aggregazione autonoma, dove il ricorso all’autorità è ridotto al minimo. In essa la libertà vive come principio fondamentale, ma non è sciolto da una tensione alla responsabilità; tutt’altro: come diceva Berneri, “la libertà non è quindi mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri”.
Purtroppo, questa filosofia è sempre rimasta minoritaria. Alla meglio, gli anarchici furono visti dalla sinistra statalista come degli illusi, dei romantici sognatori: alla peggio, e la morte di Berneri lo conferma, furono giudicati provocatori o banditi. Ma per quanto la sua vita possa apparire romantica e avventurosa — fu soprannominato “l’italiano più esiliato d’Europa” — Berneri aveva le idee chiare su sentimentalismi del genere:
Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento.
Il suo pensiero è ispirato invece alla massima lucidità e teso all’efficacia; non ha nulla del vagheggiamento e non cerca di piegare la realtà a ideali irrealizzabili. Non solo. Berneri non dimenticò mai la necessità di apprendere e far apprendere: l’anarchismo in cui credeva negava il ricorso all’autorità come principio gerarchico, ma difendeva l’autorevolezza del pensiero, il bisogno di studiare e dialogare. Per citarlo ancora: “Una vita di quotidiani sforzi di volontà e di quotidiane esperienze di dolore e di amore vale certo più dei sogni infingardi dei Super-uomini, che si credono tali solo perché non sanno, non vogliono essere ‘uomini’”.
Anarchismo anti-dogmatico
L’aspetto centrale del pensiero berneriano è la sua mobilità. Scrisse Salvemini: “Si interessava di tutto. Mentre molti anarchici sono come case le cui finestre sulla strada sono tutte murate (a dire il vero non sono i soli!), lui teneva aperte tutte le finestre”. Si preoccupò di coltivare le virtù dell’intelligenza e di un’autocritica costante. Lavorò sulla psicanalisi freudiana nel pamphlet Le juif antisémite. Scrisse un profilo su Mussolini dove — in linea con le idee di Gobetti — verificava nel dittatore la presenza di difetti nazionali da combattere.
Più nel dettaglio, l’opera e la militanza di Berneri furono cruciali per lo sviluppo dell’anarchismo. Seppe sfruttare e rivitalizzare l’insegnamento dei suoi maestri libertari — Fabbri e Malatesta su tutti — per trarne una sintesi coraggiosa, innovativa e soprattutto all’altezza dei tempi: un pensiero che fosse realistico senza abbandonare la necessità dell’utopia: “l’anarchismo […] deve sapere affrontare il complicato meccanismo della società odierna senza occhiali dottrinari e senza eccessivi attaccamenti all’integrità della sua fede.” Così scrive uno dei massimi esperti di Berneri, Stefano d’Errico:
L’orizzonte critico del lodigiano scava così in profondità nel paradigma libertario, tocca così tanti argomenti, da potersi definire davvero il tentativo di rivederlo globalmente, a tratti nella ricerca di una riattualizzazione, altrove cercando di ‘ripulirne’ l’ideologia dalle scorie sedimentate di differente provenienza, e non di rado assistiamo ad una vera e propria opera di riforma.
Per questo si spese con un’attività di propaganda e produzione intellettuale inesausta. Si scagliò contro i dogmi che pervadevano anche una filosofia anti-dogmatica come l’anarchismo, andando senza tregua alla ricerca delle sue debolezze e dei suoi automatismi: il “cretinisimo astensionista”, la mancanza di progetti concreti della società futura, un ottimismo cieco, e la mancanza di flessibilità quando si trattava di stabilire alleanze — pur momentanee — con altre forze politiche. A tutto questo Berneri oppose una visione dell’anarchismo come qualcosa di “più vivo, più vasto, più dinamico. Egli è un compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi”. Per lui non si trattava né di ripetere formule stantie, né di fare i meri distruttori senza piani precisi per il “dopo”. Si trattava anzi di elaborare programmi minimi, proposte sostenibili e chiare per le masse. Nelle sue parole: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! — o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”.
Cosa facciamo? Questa domanda pervase l’intera vita di Berneri, e la ricerca di una risposta lo portò a esplorare una quantità di soluzioni differenti, pur restando fermo nella sua fede anarchica. Guardò con interesse agli sviluppi del sindacalismo. In economia non propugnò un comunismo assoluto e accentrato, bensì una struttura economica più leggera e aperta, di carattere collettivista, che garantisse la proprietà privata (ma non il suo sfruttamento in chiave capitalistica). Sapeva che il corpo sociale è un affare tremendamente complesso, irriducibile alla visione irenica di una comunità isolata in campagna. Questo sogno primitivista, comune a molti libertari della prima ora, rischiava di offrire il fianco alle critiche di chi vedeva nell’anarchismo un progetto irrealizzabile e refrattario alle contaminazioni.
Seguendo l’impostazione malatestiana, Berneri rifiutò inoltre l’associazione istintiva (che ancora oggi perdura) tra anarchismo e pura violenza: “quest’idee a braccetto: anarchici e bomba, mi pare sarebbe l’ora di metterle in soffitta. […] La violenza non è che una piccola parte ed eccezionale dell’attività anarchica.” Non che l’uso della forza, per Berneri come per altri, fosse da rifiutare in via della rivoluzione: ma si trattava sempre di un uso misurato e teso a evitare il peggio; lo strumento principe restava la propaganda. Difese con parole infiammate la tolleranza (“quando non si intenda con questo termine il menefreghismo”) e il pluralismo.
Avviò anche un fruttuoso dialogo con il gruppo di Giustizia e libertà: uno dei momenti più stimolanti dell’intera storia politica italiana, purtroppo anch’esso ben poco studiato. Con Rosselli e compagni, Berneri non fu tenero: ribadì la sua distanza dalle opzioni riformiste, e rifiutò l’approdo statalista che teorizzava GL. Egli era anarchico e anarchico restava: lo Stato era il nemico e cercare di riformarlo non aveva senso. Ciò detto, concordava su diversi aspetti della politica rosselliana: ne apprezzava lo spunto libertario di fondo, la grande moralità, e il rifiuto della “dittatura del popolo” di stampo sovietico. Del resto, in una lettera giovanile a Gobetti, aveva definito gli anarchici “i liberali del socialismo” — ovvero i critici più serrati di qualsiasi involuzione autoritaria della prassi comunista. Così riassunse egli stesso il suo pensiero:
la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico, è comunista e io sono liberista (cioè sono per la libera concorrenza tra il lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo).
La febbre del sogno, il purismo rivoluzionario, l’idea di una rivoluzione spiccia fondata sulla mera violenza, sono stati e sono tuttora i nemici di un’autentica trasformazione della società. Berneri fu un rivoluzionario sincero, ma era anche un uomo cauto e razionale. Per questo le sue idee lo fecero spesso passare per un moderato: un’accusa fastidiosa, fra i rivoluzionari dell’epoca. Ma come gli ricordò il maestro Salvemini, queste etichette valgono poco: “un estremista che non cava un ragno da un buco serve quanto un moderato che non si arrischia nemmeno a cercare il ragno”.
Perché leggere Berneri oggi
Cercherò ora di mostrare l’attualità del pensiero di Berneri, e quali sue idee possono farci da guida nel marasma politico e sociale contemporaneo; e lo farò citandolo direttamente. (Questo anche per farvi assaggiare il suo stile: il nostro scriveva bene, con nitore e concretezza). Le citazioni sono tratte per lo più dalla raccolta di Scritti scelti, edita da Zero in condotta nel 2013. Con un’avvertenza: come precisa Gianni Carrozza nella prefazione a questo libro, la produzione di Berneri fu frammentaria, frutto di militanza attiva, e legata a dibattiti dell’epoca; non comprende alcuna opera sistematica. Il rischio è dunque quello di levarlo per intero dal contesto storico. Cercherò di evitare tale pericolo, limitandomi ad alcuni luoghi salienti della sua opera.
1) Contro il giustizialismo e lo spirito forcaiolo.
Berneri rinnegava il giustizialismo e l’istinto della forca contro cui si scagliò già Malatesta. Conosceva bene i rischi, oggi quanto mai visibili, dell’ossessione punitiva priva di un’attenta ricerca del vero: “credo che l’idea di giustizia sia nel popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle”. In tal senso, riconosceva il bisogno di un minimo di diritto penale anche in una società anarchica. Spiega Stefano d’Errico: “Berneri non crede alla giustizia sommaria delle masse, né alla società ‘trasparente’ impaludata su se stessa senza istituzioni. La società libertaria si deve creare intorno alla responsabilità e quindi anche con l’accettazione di regole, condivise ma cogenti.”
2) Per un federalismo libertario.
Prima di essere reso un feticcio razzista dalla Lega Nord, il federalismo in Italia aveva una nobile tradizione (da Cattaneo e Gioberti fino al Manifesto di Ventotene). Per Berneri l’idea di un insieme di comunità autonome ma confederate era lo sbocco naturale di una critica al potere centrale: “La rivoluzione italiana non deve limitarsi all’abolizione dei podestà, funzionari di nomina regia, deve opporsi al mantenimento dei prefetti, anche rossi. I comuni non devono essere più degli organi dell’amministrazione centrale, del potere governativo, ma degli organi di sintesi amministrativa locale e di cooperazione, regionale e nazionale. […] Contro la centralizzazione unitaria bisogna opporre la grande idea dell’autonomia.” Oggi idee non dissimili sono realizzate nel municipalismo libertario del Rojava. E mentre gli stati-nazione stanno dando spesso cattiva prova di sé — tra il rinfocolare del nazionalismo xenofobo e l’accentramento autoritario del potere — la proposta di parcellizzare le funzioni amministrative e governative è molto interessante.
3) Per un compito delle élite.
In uno dei suoi saggi più celebri, L’operaiolatria, Berneri criticò la mitizzazione della classe operaia come una massa angelicata, già edotta in materia rivoluzionaria e sempre nel giusto: “vidi il proletariato, che mi parve, nel suo complesso, quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, d’infantili illusioni.” Parole che mettono a tacere ogni populista contemporaneo. E che preparano a un compito preciso dell’intellettuale, ben lontano dalla difesa del proprio meschino potere o dall’elaborazione di retorica: “La funzione delle élite mi parve chiara: dare l’esempio dell’audacia, del sacrificio, della tenacia; richiamare la massa su se stessa, sull’oppressione politica, sullo sfruttamento economico, ma anche sull’inferiorità morale e intellettuale delle maggioranze.”
4) Per un dialogo autentico.
L’attività polemica di Berneri fu ampia; molti dei suoi testi sono risposte e obiezioni a scritti altrui. Ma come puntualizza Camillo Levi, “Berneri rifiutò sempre i facili giochi di parole per aver ragione dell’avversario, puntando invece sul concreto, cercando di mostrare, con la massima chiarezza, le contraddizioni centrali del pensiero dell’interlocutore”. Sulla ricerca di un dialogo autentico, volto a sviscerare con passione i problemi e attento alle idee altrui, valga in particolare questo paragrafo; un antidoto a tempi dove si parla per il piacere di farsi ascoltare o schiacciare l’altro con la propria retorica:
Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l’ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti o dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la ‘libertà dell’io’, ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l’unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino. Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. […] Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l’abito a pensare prima di parlare.
“L’unica cosa bella veramente”
Insomma: come ha spiegato ancora con chiarezza Stefano d’Errico, è proprio dalla ‘crisi della politica’ che deriva l’attualità del pensiero di Camillo Berneri. Da quella richiesta forte, e sempre meno eludibile, di una trasformazione della mistificazione della delega assoluta di potere in partecipazione cosciente ed attiva, in decentramento federalista ed in democrazia diretta. Dalla spinta a invertire l’incipit fondamentale dell’organizzazione umana, nel passaggio dei modi della rappresentanza, per dirla con Berneri, dal ‘sono governati’ al ‘si governano’. In poche parole, dalla necessità di una riconversione etica della politica.
C’è solo una cosa da aggiungere. Poche ore prima di essere assassinato, l’ultima notte della sua vita, Berneri scrisse una lettera alla figlia. Quasi con istinto preveggente, in poche parole raccolse la sua eredità, lo spirito della sua lotta, e quel bisogno istintivo di schierarsi dalla parte dei più deboli; per dirla come Malatesta, “un sentimento, che è la molla motrice di tutti i sinceri riformatori sociali, e senza il quale il nostro anarchismo sarebbe una menzogna o un non senso. Questo sentimento è l’amore per gli uomini, è il fatto di soffrire per le sofferenze altrui”. Merita di essere trascritta per intero:
Stanotte tutto è calmo e spero che la crisi si risolverà senza ulteriori conflitti, tali da compromettere la guerra. Sono quasi le due e vado a letto.La casa stanotte è in armi. Mi sono offerto di stare alzato per lasciare gli altri andare a dormire e tutti hanno riso di me dicendo che non udirei nemmeno il cannone, ma poi, uno ad uno, sono andati a nanna ed io veglio per tutti, lavorando per coloro che verranno. È l’unica cosa bella interamente.
Più assoluta dell’amore e più vera della realtà stessa. Che cosa sarebbe l’uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione di sentirsi unito a coloro che furono, ai lontani ignoti, ai venturi?
Delle volte penso che questo senso messianico non sia che una evasione, non sia che la ricerca e la costruzione di un equilibrio, di un’economia che, mancando, ci precipiterebbe tutti nel disordine o nella disperazione. Comunque sia, certo è che i più intensi sentimenti sono i più umani.
Ci si può illudere su tutto e su tutti, ma non su quello che si afferma con la coscienza morale. Se mi fosse possibile salvare Bilbao con la mia vita non esiterei un attimo. Questa certezza non me la leva nemmeno il filosofo più sofistico. E questo mi basta per sentirmi uomo e mi consola di tutte le volte che sono al di sotto di me stesso, della stima dei migliori e dell’affetto delle creature che più amo e più stimo. In ogni caso di coscienza, con la ragione non arrivo a decidere. L’ultima ratio, quella che decide, è lo stile: questo non è il mio stile, è per me definitiva sentenza. Quanto sopra è di una solennità un po’ ridicola per chiunque non viva qui. Ma forse un giorno, se potrò parlarti di questi mesi, capirai. Tuo papà.