F ino a non molti anni fa, negli Stati Uniti, l’hijab era l’indumento più pesante che un’attivista politica potesse indossare: una garanzia di invisibilità, nel migliore dei casi; nel peggiore, uno spettro che manifestandosi allontanava e creava panico, costringendo chi lo portava a lunghi preamboli e avvilenti giuramenti patriottici. Un po’ come le maschere che i nativi della Columbia Britannica scolpivano nel legno per scacciare i demoni. Però quel pezzo di stoffa funzionava al contrario: ovvero i guai sembrava attirarli. Ma negli ultimi tre anni è emerso il nome di una donna, fiera del suo velo islamico, che è diventata una presenza fissa nell’America della “cultura antagonista permanente” – come la definì un tempo Noam Chomsky. Lei si chiama Linda Sarsour, la trovate ad ogni due passi in cronaca, e sta scalando a grandi falcate le gerarchie dei movimenti di protesta. E nell’era di Trump sembra diventata un simbolo dell’alleanza possibile tra sinistra radicale e una comunità di devoti.
Il curriculum di Sarsour, trentasettenne di Brooklyn, leader dell’Arab American Association of New York, è un fiume in piena: Bill de Blasio, al momento di candidarsi a sindaco di New York nel 2013, l’ha supplicata per un endorsement; Obama – presidente che per molti creduloni avrebbe avuto la “colpa” di essere musulmano, oltre che nero – l’ha premiata due anni fa in una cerimonia solenne come «campionessa del cambiamento»; il senatore del Vermont Bernie Sanders l’ha voluta come portavoce durante tutta la campagna per le primarie, l’anno scorso. All’ultimo congresso del partito democratico – quello che avrebbe dato la sciagurata nomination a Hillary Clinton – è stata lei, come delegata, a rincuorare di più i sostenitori delusi del settantatreenne socialista.
Sarsour, habitué di tavole rotonde e talk show televisivi, è il frutto di un tempo che sta cercando di trovare la giusta distanza tra la memoria dell’11 settembre e le urgenze di oggi, tra fantasmi e verità, tra rassicurazione e cambiamento. Se c’è da parlare della condizione delle donne musulmane in America invitano lei; se c’è da prendere di petto le esternazioni islamofobe dell’attuale presidente e della sua cricca di suprematisti bianchi, c’è ancora lei. Tra le quattro promotrici-chiave della manifestazione politica più imponente dai tempi della guerra in Iraq, la Women’s March del 21 gennaio, c’era proprio Sarsour. È lei che ha portato, per la prima volta, la comunità musulmana al centro del movimento femminista americano. O è viceversa? Fatto sta che tra i suoi fan ora ci sono l’attrice Susan Sarandon e il politico democratico Keith Ellison (il primo musulmano convertito ad essere eletto al congresso) i tradizionalisti della comunità araba così come le militanti più secolarizzate. La decisione di presentarsi come prima querelante in una delle più grandi cause civili contro la White House per il cosiddetto Muslim ban – tra le dozzine intentate, e che hanno portato alla sospensione della misura controversa – nonché l’arresto ai piedi della Trump Tower lo scorso 8 marzo – durante il grande sciopero delle donne – non ha fatto altro che accrescere l’aura magica del personaggio.
Sarsour nacque, prima di sei figli, a Sunset Park, un quartiere della parte occidentale di Brooklyn. I genitori erano immigrati palestinesi piuttosto modesti: il padre gestiva una drogheria, e lei da adolescente aiutava la mamma a badare ai fratelli più piccoli. A diciassette anni il matrimonio – combinato – dalla cui unione sbocciano tre bambini. Sarsour si stava avviando ad una tranquilla carriera di maestra elementare quando il crollo delle Twin Towers le sconvolse tutto: poco dopo uno zio si presentò alla sua porta e le disse di aver appena fondato con altri musulmani benestanti un’associazione, perché visti i tempi non si sa mai – l’Arab American Association – e le chiese di andare a lavorare per lui. Il marito, a dirla tutta, si mostrò subito titubante: l’avrebbe preferita dietro le quinte. Ma niente da fare: lei accettò di gran slancio, e si gettò animo e corpo nell’iniziativa.
Passarono quattro anni, e di ritorno da un convegno in Michigan (dove risiede una delle comunità islamiche più forti del paese) l’auto guidata da Sarsour venne investita da un camion: lo zio, seduto al suo fianco, morì sul colpo; lei rimase quasi illesa. Nel ruolo di coordinatrice principale dell’associazione così ci finì una Linda Sarsour appena venticinquenne. Altro tentativo del marito per dissuaderla, i grandi vecchi che mugugnavano, ma niente da fare: lei sapeva che c’era da rimboccarsi le maniche, che la popolazione araba newyorchese stava crescendo tanto quanto la diffidenza che la circondava. Con lei l’associazione mutò completamente: da lobby di arricchiti religiosi diventò un raggruppamento che abbracciava la sua minoranza in modo più comprensivo possibile, incluse le donne che lavorano, le madri single, i giovani immigrati laici. Lei, stakanovista vera, non aveva paura di stare sotto i riflettori.
Una carriera folgorante
Ho incontrato Linda Sarsour per la prima volta a Ferguson, Missouri, una notte umidissima di inizio ottobre tre anni fa. È stato il culmine della settimana di protesta per la morte di Michael Brown, un diciottenne afroamericano freddato da un poliziotto bianco: il ragazzo era disarmato, ma l’agente che aveva sparato sarebbe stato prosciolto. Io ero nella doppia veste di reporter e manifestante; lei, in prima fila con la sua sagoma risoluta, i suoi zigomi granitici e i suoi occhi nerissimi dietro lo striscione «Muslims for Ferguson», a segnalare una importante novità: ora c’era davvero la confluenza di due mondi diversi – quello dei neri e quello dei musulmani – nella stessa causa, contro la discriminazione poliziesca. «Che posizione prenderanno i musulmani su questa cosa?», aveva chiesto Sarsour ad un leader dell’American Civil Liberties Union, non appena saputo della morte di Brown. Spiegò al New York Times: «Pensavo che storie del genere si sentissero solo in Palestina». Capiva che c’era bisogno di una convergenza di intenti tra minoranze che da troppo tempo non comunicavano. E quando in un auditorium di Ferguson, strapieno e teso all’inverosimile, vidi la nuova leva di attivisti neri – l’embrione di ciò che sarebbe diventato Black Lives Matter – accusare la tradizionale leadership religiosa afroamericana di essere troppo conciliante, immutabile e paternalista, la rappresentanza guidata da Sarsour non ebbe dubbi, e si schierò con i primi. Allora non fu facile capirlo, ma in quella piccola cittadina del Midwest era avvenuto un passaggio di consegne tra due generazioni di attivisti, e nasceva una nuova e originale alleanza per fronteggiare un Tea Party e un suprematismo in ascesa, contro cui le armi dei vecchi saggi erano spuntate.
Lo shock dell’elezione di Trump è stata, nel modo più clamoroso possibile, la dimostrazione che quei timori erano fondati, che c’era una parte importante dell’America terrorizzata dal proprio declassamento, rancorosa per le minoranze che non abbassavano più la testa, e pronta a far male. Sarsour, affermatasi nel frattempo come una delle principali antagoniste di questo blocco sociale reazionario, si è vista scatenare addosso un ciclone: le lobby pro-Israele hanno rinfacciato a Sanders, che è ebreo, di collaborare con una sostenitrice dichiarata della campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Gerusalemme; i siti parafascisti come Daily Caller e Jihadwatch hanno tirato fuori dal cilindro un militante di Hamas che sarebbe, forse, parente di Sarsour, e l’hanno iscritta così alla lista dei fiancheggiatori del terrorismo. E anche un antitrumpiano come Daniel Pipes, neoconservatore della prima ora, consigliere dell’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, ha scavato in quel fiume di cadaveri che è Internet per trovare dei tweet di Sarsour particolarmente ingiuriosi nei confronti di Ayaan Hirsi Ali, una Oriana Fallaci somala sopravvissuta all’integralismo religioso e ferocemente anti-islamica.
È questo forse il tratto più innovativo della figura di Sarsour: una Brooklyn girl con l’hijab, abile nel mescolare l’orgoglio religioso delle origini con la concretezza di chi deve portare a casa il risultato, costi quel che costi.
Ma era prevedibile che con il mainstream sarebbe aumentato lo scrutinio, e Sarsour, bisogna dirlo, non è famosa per avere un carattere facile: in un lungo profilo che le ha dedicato due anni fa il New York Times traspare un certo narcisismo – comprensibile se guardate alle sue capacità di multitasking quasi sovrumane – unito ad una frenesia negli incontri di lavoro e una propensione al ritardo che ha infastidito qualche interlocutore. Si tratta però di caratteristiche pienamente, tipicamente newyorchesi, ed è questo forse il tratto più innovativo della figura di Sarsour: ecco una Brooklyn girl con l’hijab, sfoggiante un intercalare fatto di «whassup» e «homie», e al tempo stesso abile nel mescolare l’orgoglio religioso delle origini con la concretezza di chi deve portare a casa il risultato, costi quel che costi.
Uno dei motivi per cui Sarsour oggi può essere se stessa è che, rispetto a dieci anni fa, c’è più spazio nel dibattito culturale per certi temi di sinistra: la parola «socialismo» non è più tabù; nei dibattiti televisivi ormai non fa più scandalo chi parla di ineguaglianza e o si schiera apertamente con l’Intifada palestinese. Ma, almeno da parte di Sarsour, la riconoscenza per questo mutato clima non è stato un profluvio parolaio, ma un dinamismo che voleva essere efficace. L’Aaany è riuscita, per esempio, a far introdurre nel calendario scolastico di New York – prima volta per una città occidentale – due festività islamiche: l’Id al-Adha e l’Id al-Fitr. L’abolizione – concertata con De Blasio – del programma di schedatura e sorveglianza ad hoc per i musulmani newyorchesi è stato un successo di pragmatismo e diplomazia.
L’arrivo di Trump è stato, d’altro canto, una iniezione di adrenalina nel mondo dell’attivismo. Se molti commentatori hanno liquidato la Women’s March come una immensa espiazione di colpa da parte delle donne bianche e privilegiate di sinistra, le testimonianze sul campo mi raccontavano una storia molto più entusiasmante: in piazza c’erano centinaia di migliaia di donne e uomini di ogni età, religione ed etnia; c’erano le militanti di colore con Beyoncé come guida spirituale, anziane hippie, accademiche marxiste, il femminismo più “aziendalista” à Lena Dunham o alla Sheryl Sandberg con i suoi manuali di self-help dove la liberazione è sempre individuale e mai collettiva. Del resto non c’è mai stato, nella storia americana, un unico movimento femminista: le suffragette che si riunirono a Seneca Falls nel 1848 non avevano niente a che fare con le guerrigliere Black Panthers di un secolo dopo, o con Kimberlé Creshaw che parlò per la prima volta di «intersezionalismo» nel 1989, eccetera. Ma questa volta l’evento doveva essere davvero inclusivo, o sarebbe stato un disastro totale. Il successo è delle donne in marcia è stato proprio nell’aver ricomposto un movimento fatto di anime spesso incompatibili, nell’aver riunito visioni contrastanti contro un nemico comune. E senza aver bisogno di del partito democratico, o di qualche altro grande sponsor politico.
Un clima diverso
L’ascesa di Sarsour è stata possibile anche grazie a due coincidenze storiche: per capire la prima occorre tornare un attimo al 2008, quando Hillary Clinton partecipò per la prima volta alle primarie democratiche, e perse. La scelta non fu certo quella di presentarsi come la «la candidata delle donne», anzi: la sua femminilità fu tenuta a bada dallo strategista Mark Penn, che le consigliò piuttosto di adottare l’immagine indurita di un futuro commander-in-chief, di una Margaret Thatcher americana. Non funzionò. Ma negli otto anni che seguirono ci fu un cambio di paradigma: il femminismo era tornato di moda. Con l’era Obama si affermavano una serie di blog brillanti come Jezebel, Feministing, o Everyday Feminism, che facevano pernacchie al machismo capitalista, Beyoncé citava Chimamanda Ngozi Adichie nelle sue canzoni. (Paradossalmente fu anche l’era degli elegantissimi mascalzoni di Mad Men, ma ogni tendenza culturale tende a generare nostalgia nel suo opposto).
Certo, era un femminismo che puntava ad un target facile da identificare: le donne che trascorrono buona parte della loro vita in un ufficio, e con molto tempo da spendere online. Pochi si aspettavano da Katy Perry o Lady Gaga una convincente critica al sistema militare-industriale, ma per lo meno si rafforzava un modello di superstar distante anni luce dalla sottomissione di una Barbie. Le priorità erano quindi adeguate a quel pubblico: i diritti riproduttivi, il fenomeno degli stupri nei campus, il diritto di ognuno a vestirsi e fare sesso come gli pare, le opportunità lavorative, una cultura consumista che seppure irriformabile doveva sposare il politically correct. Ecco dunque Clinton “riciclata” come «nonna Hillary» – o ancora meglio «your abuela», come recitava uno spot che ammiccava in modo ridicolo agli ispanici. Non ha funzionato nemmeno stavolta.
L’altra coincidenza è che, insieme a questo tipo di femminismo, è tornata di moda anche la religione: sempre meno americani vanno a messa, ma con gli immigrati sono aumentate le altre fedi, e i movimenti di sinistra hanno una strabiliante tolleranza per ogni pratica devozionale, non importa se blanda oppure ortodossa. La reazione agli anni di Bush, entrato nell’immaginario collettivo come il liberatore dai burqa a suon di bombe, è passata anche attraverso la rivalutazione del velo; siti di moda per busy professional come Refinery29 espongono le ultime sfilate per donne in niqab o col chador; in ogni gruppo di pressione che si rispetti non si può pronunciare la parola «diversity» se non si tiene conto anche delle figlie degli immigrati istruite con educazione religiosa. Per i neocon è l’ennesima prova che la cultura di sinistra farà da apripista alla Soumission; per altri o si convive così o sarà guerra civile.
La tribù
La cittadinanza americana non basta però, da sola, per essere accettati là dove i bianchi si sentono spodestati: Sarsour l’ha capito in una giornata di agosto di tre anni fa, quando a davanti alla sede dell’Aaany a Bay Ridge, zona a sud di Brooklyn, un senzatetto la assalì con insulti razzisti e inseguendola per una decina di metri. La polizia intervenne subito e nessuno si fece male, lui probabilmente era solo ubriaco, ma l’incidente bastò per rivelare le profonde divisioni all’interno del quartiere. Bay Ridge è una spianata di casette di legno bianche, tutte uguali, ognuna col suo praticello e la sua bandiera a stelle e strisce sventolante sulle porte, lontana dal clamore della Brooklyn fighetta; qui nel novembre 2016 una macchia rossastra sulle cartine elettorali segnalò una delle minuscole enclave newyorchesi che avevano votato per Trump. Se la stampa progressista si affrettò a gridare all’ennesimo caso di islamofobia, per gli ultimi scampoli della comunità irlandese e italiana a Bay Ridge l’assalitore era una figura familiare. «Bobo», come lo chiamavano gli anziani: il matto sulla Fifth Avenue, con un gran problema con l’alcool e un arresto per atti osceni, ma in fondo accettabile per l’ordine pacioso delle cose come dovevano andare; un residuato della classe di colletti blu impoveriti, uniti adesso nel risentimento nei confronti dei nuovi arrivati. Arabi, messicani, ecuadoriani: tutti colpevoli di aver alterato il carattere demografico della zona per sempre, a partire da quelle insegne in arabo adesso ubique – sui deli halal, sugli hookah bar, sulle moschee. Persino gli «hipster bianchi» sono giudicati dalla parte del nemico, di quelli che non avrebbero mai capito gli abitanti originari. «Bobo», no: lui apparteneva alla vecchia guardia. Alla Tribù.
E non importa che anche Linda Sarsour sia nata e cresciuta a Brooklyn, che sia una ambiziosa donna in carriera e mamma lavoratrice: per essere accettati come un membro della Tribù bisogna anche avere il profilo giusto, il luogo di nascita giusto, l’accento giusto, il giusto vestito. La parrocchialità è un impulso umano che affonda radici aggressive, in America. La Tribù di Bay Ridge sta invecchiando e si sente soverchiata, ma controlla ancora la maggior parte del parco immobiliare; i nuovi arrivati sono più dinamici e ottimisti, ma ancora lontani dai posti chiave nelle istituzioni. I nativi sono troppo intrecciati per essere mandati via, eccetto quando decidono di seguire il richiamo di qualche buona offerta per una casa ancora più grande a Staten Island, il paradiso dei repubblicani newyorchesi. I nuovi arrivati, specialmente gli arabi, nonostante una narrativa che li voglia forse troppo presenti nel dibattito politico, sono ancora troppo divisi per formare un’alleanza che impensierisca davvero i bianchi.
Nei lunghi mesi invernali Bay Ridge, come il resto della città, è ricoperta interamente dalla neve. Nei quartieri più periferici, con le case basse, il candore si fa ancora più abbacinante, mescolando facciate delle abitazioni, le strade, le staccionate, il cielo. Sulla spessa coltre di bianco passeggiano senza soste le donne provenienti dalla zona del quartiere chiamata «Little Palestine»: le riconosci perché sono quasi sempre a grappoli, tre o quattro, vestite di nero dalla testa ai piedi eccetto il viso, e portano dei grossi gesti con la biancheria da lavare o spingono un carrozzino. Destinata ad essere una di loro, Sarsour non fa mistero delle sue ambizioni politiche e al New York Times ha detto di volersi candidare al consiglio comunale della sua città (anche se ha confessato che le piacerebbe ancora di più diventare sindaco di una Brooklyn indipendente) e in molti fanno il suo nome per una possibile candidatura alle primarie democratiche nel 2020 o nel 2024. Esagerano? Non si direbbe. Lei sta cercando intanto di twittare con più accortezza, ha lanciato un crowdfunding per riparare un cimitero ebraico di St. Louis devastato dai vandali – raccogliendo oltre 100.000 dollari in 24 ore. La destra continua ad attaccarla ma lei riga dritto. Certo ora c’è Trump a fare da collante tra lei ed altre donne in lotta – che altrimenti sarebbero andate per conto loro, lontane da temi come socialismo o Medioriente. Ma se c’è una stella del panorama politico su cui puntare nei prossimi anni, la mia scommessa è su di lei.